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La scuola: il tempo pieno, l’infanzia, le mancanze e dintorni

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Negli anni le varie riforme scolastiche hanno portato ad enfatizzare le differenze geografiche delle offerte formative del nostro Paese.
Il nord e il sud d’Italia, vivono storicamente (da circa 150 anni ormai.. ) disomogeneità nelle strutture nei fondi, nella gestione generale del reclutamento, nella distribuzione delle risorse.

A numeri quasi uguali di alunni per classe , l’Emila Romagna nell’anno scolastico 2015/2016 per esempio, ha avuto il doppio delle assunzioni di docenti per scuola primaria ed infanzia rispetto alla regione Puglia; una disparità che si ripercuote sui bambini e sulla didattica.

L’intervento del fondo finanziario dello Stato prevedendo la partecipazione economica delle famiglie ai servizi educativi nelle scuole dell’infanzia ( articolo 9 della legge 107) non fa altro che dire che lo sforzo del governo è limitato poiché confortato dal contributo familiare.

In parole molto semplici la costituzione deli poli dell’infanzia come previsto dalla legge de La buona scuola, è da destinarsi alle responsabilità di comuni e regioni.

Il 95% dei bambini della fascia compresa tra 3-6 anni frequenta la scuola dell’infanzia: ottimo motivo per renderla obbligatoria, poichè questo ne garantirebbe la frequenza e la continuità.

Il ministro Valeria Fedeli, per potenziare il sistema d’istruzione dell’infanzia, ha ripartito i fondi destinati a migliorare i servizi offerti per 3 milioni di bambini distribuendo 90 euro pro capite per i bambini dell’Emilia Romagna contro i 43 euro pro capite per i bambini della regione Campania.

Tutto questo senza la minima considerazione dei dati statistici circa la frequenza della scuola nelle rispettive regioni. Infatti la regione Campania vanta il secondo posto per numero di piccoli che frequentano ma si classifica solo settima per risorse assegnate.

Gli articoli 6 e 7 del decreto 65 dell’aprile 2017 sostengono che l’esigenza dei nidi, dei micronidi e della creazione di poli dell’infanzia deriva dalla necessità di rendere omogenea a livello nazionale l’offerta formativa visto che il Paese pecca proprio sul tema dei servizi che da sempre ha una regolamentazione regionale.

Tuttavia mentre il governo sostiene la necessità di un sistema integrato a livello nazionale e dichiara di ovviare al problema gestionale di domanda individuale e di gestione privata demanda esattamente ed in egual misura alle regioni e ai comuni come avvenuto fino ad oggi.

Una contraddizione di fondo avvalorata dall’approvazione di quei 209 milioni stanziati appunto con una distribuzione iniqua delle risorse.
E’ evidente che tutto ciò rappresenta una violazione dei diritti dell’infanzia e dei principi di uguaglianza e di rispetto dei percorsi di crescita delle bambine e dei bambini di tutto il Paese.
Una distribuzione disomogenea delle risorse contribuisce alla mancanza di soluzioni contro l’abbandono e la dispersione scolastica. Già il sud soffre di una vera e propria desertificazione scolastica dovuta sia ad un calo demografico, sia all’aumento dell’emigrazione delle famiglie verso il nord, ma anche alla razionalizzazione delle classi voluta già dalla legge Gelmini che comporta il più delle volte condizioni di lavoro in classi pollaio e mancanza di spazio geografico necessario per la normale e serena vita scolastica di un bambino sia nelle scuole dell’infanzia che della primaria. E’ noto infatti che molte province del sud si ritrovano con scuole di poche sezioni densamente popolate a dispetto di scuole del nord nelle quali le sezioni non superano le 20 unità. Immaginate classi di 25/28 bambini , magari con qualche soggetto bes : non è più una classe ma una ludoteca difficile da gestire, un posto in cui non si sta garantendo il diritto all’istruzione ma si sta scimmiottando un servizio.
E la scuola è una istituzione non un servizio. Favorire e garantire una frequenza seria a tutti i bambini del sud non lo si fa gettandoli nella mischia senza criterio e senza rispetto ma fornendogli gli spazi educativi e ludici che meritano. E come si può farlo se per esempio ci sono quartieri interi in alcune città meridionali in cui non esistono proprio le scuole per interi chilometri?
Si stanziano circa 400 milioni per la ristrutturazione di edifici, per la messa in sicurezza secondo le norme antisismiche, per la riqualificazione estetica e poi mancano le basi su cui dovrebbe poggiarsi l’intero progetto. Mancano purtroppo anche i diritti di base che garantiscono la risposta ai problemi di sussistenza. In alcune regioni del sud Italia la povertà minorile è in costante aumento. Un dovere della scuola e dei comuni sarebbe quello di investire sul servizio di mensa scolastica in tutti gli istituti comprensivi al fine di assicurare un pasto proteico al giorno a circa il 5 % ( dati statistici riportati da una ricerca di Save the Children) dei bambini in età scolare che non hanno diversamente possibilità di consumarlo in almeno 4 regioni ( Puglia, Sicilia, Molise e Campania ). In questo caso la scuola attraverso un servizio si farebbe vettore di una funzione sociale e di lotta all’indigenza estremamente importante.
E i dati ufficiali in merito al servizio di mensa non sono confortanti. Il 48% degli studenti delle scuole primarie e secondarie non ha accesso alla mensa e questa percentuale si riferisce alle province da Roma in giù. Non offrire il servizio mensa può quindi voler dire da un lato contribuire al permanere di quello stato di indigenza e dall’altro “favorire” il fenomeno della dispersione scolastica che trascina con sé la conseguenza di esposizione ai pericoli nelle aree a rischio.
Ragion per cui, l’obbligo di mensa porterebbe all’obbligo del tempo pieno e prolungato che altro non è che un diritto di offerta didattica pomeridiana già largamente sperimentato e in uso nella maggior parte delle regioni del centro e del nord del Paese.
Il tempo pieno al sud è una esigenza delle famiglie non solo a basso reddito o a rischio di povertà, ma anche di quelle dei lavoratori e di professionisti che vedono in questo modello didattico una risorsa educativa per i propri figli. Il problema è che al momento questa necessità al sud viene soddisfatta dalle scuole paritarie con un dispendio economico maggiore rispetto alle regioni del nord dove paradossalmente i fondi stanziati sono maggiori e dove la ricchezza su base reddituale è notevole. Si finisce per dare dove già c’è togliendo a chi non ha di per sé; una sorta di Robin Hood al contrario.
Il mancato investimento da parte dello Stato alle regioni del sud comporta un duplice effetto negativo: quello dei docenti costretti ad emigrare al nord, garantendo un servizio che altrimenti non potrebbe sussistere, quello di un intero indotto lavorativo totalmente azzerato al sud.
Perciò il tempo pieno se è una grave mancanza è dall’altro lato una prospettiva a più rami: offerta didattica ampliata a tutti i ragazzi, opportunità di lavoro per i docenti meridionali che non sarebbero così obbligati a spostarsi, ripopolazione di interi quartieri di paesi semidesertificati dal flusso migratorio, costituzione di nuove dinamiche sociali frutto della rinascita dei comuni meridionali, nascita di servizi offerti non solo alla scuola ma ad altre categorie( il tempo pieno con la necessità della mensa significa cooperative specializzate nel settore della ristorazione con la conseguente assunzione di cuochi, inservienti, mezzi di trasporto..).
Lì dove il servizio mensa diventa una questione problematica per redditi bassi, allo stato attuale in alcune scuole del sud diventa motivo di intervento dei comuni e degli enti locali a provvedere al necessario per la sussistenza al fine di garantire uguali opportunità nello stesso contesto classe.

Ma l’intervento dello Stato è completamente assente, perciò sarebbe opportuno , per un volta, prevedere un fondo di dotazione esclusivamente riservato per il sud come sistema completo di welfare e laddove vi sia l’impossibiltà di reperire i fondi ( cosa comune), si potrebbe pensare, almeno in via transitoria, all’utilizzo di mezzi alternativi senza troppi oneri finanziari aggiuntivi ai comuni o alle famiglie. Si può prospettare ad esempio la flessibilità di ingresso a scuola dopo aver consumato il proprio pasto a casa ( pur non essendo questo il miglior sistema) come avviene già in molte scuole del settentrione; oppure lasciare come alternativa la possibilità ai bambini di poter tranquillamente consumare un pasto portato da casa come il panino o un pasto freddo. Questo assicurerebbe la frequenza di tutti i bambini e ragazzi .
Come nei problemi di matematica a scuola, la soluzione di solito è suggerita dalle domande ( ..”quante sono in tutto”: addizione; “..quale sarà la differenza tra A e B “: sottrazione) anche nella vita reale è lo stesso impedimento che ti dice quale strada intraprendere. Il problema attuale è la mancanza di uguali opportunità? Bene: offriamole!
Si tratta di riconoscere che c’è una necessità che va espletata, una occasione che non si può perdere prima che la situazione abbia gravi risvolti in chiave sociale ed economica oltre che di istruzione e di crescita della persona.
Riconoscere significa ammettere delle mancanze, prendere atto che esiste una differenza , rendersi consci che è necessario pretendere che vengano riconosciuti dei diritti. Del resto se sono diritti non bisogna elemosinarli poiché sono qualcosa che nascono con l’individuo stesso che li reclama.
Si può risolvere non solo con la volontà politica ma con la presa di coscienza quindi che esiste un diritto di educazione, di istruzione, di crescita e di sviluppo che va semplicemente garantito.

Analisi delle differenze e mancanze della scuola del sud
Relazione programmatica delle eventuali soluzioni sociali e politiche

Favale Luigina, responsabile ufficio stampa “la scuola invisibile”

Perché la politica meridionale è contro il tempo pieno nella scuola del Sud.

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di Ciro Esposito

Grazie al rapporto di “Save the Children” appena pubblicato, che evidenzia la relazione tra mancanza di tempo pieno e dispersione scolastica al Sud, la stampa comincia a parlare di questa larga falla nella scuola meridionale.
Le cifre sono note da tempo e gridano vendetta: su un totale di 917058 alunni delle scuole primarie statali che usufruiscono del tempo pieno, ben il 58,5% frequenta scuole del Nord, solo l’11,7% al Sud o nelle isole e il resto al Centro.
Negli ultimi dieci anni anni la situazione è persino peggiorata.

Con Letizia Moratti ministra della Pubblica Istruzione, le 40 ore del tempo pieno diventarono facoltative (a scelta individuale).
Da allora il Sud non è stato in grado di difendere il tempo pieno e prolungato nelle proprie scuole.

Si può pensare che sia stato attaccato solo dalla destra. Non è così. Infatti, il tempo pieno al Sud sconta il disinteresse della politica e degli enti locali, troppo inetti e subalterni per diventare protagonisti di una vertenza che persegua interessi di carattere generale.

Meglio ripiegare su quel tanto di intermediazione delle risorse che la politica scolastica consente.
In questo senso, il modello peggiore è stato rappresentato da “Scuole Aperte” al tempo di Bassolino Presidente della Campania e del suo assessore comunista all’istruzione, quando furono dispersi in mille rivoli i fondi per la scuola che potevano essere convogliati su obiettivi determinati e misurabili.

La Regione Campania non venne neppure sfiorata dall’idea di trattare con il governo sul tempo pieno, che avrebbe significato più tempo-scuola e più insegnanti (ma liberi e non dipendenti dalle elargizioni politiche su progetti e progettini).
A volte la rinuncia al tempo pieno e prolungato si ammanta di velleità ideologiche. C’è un “terzo settore”, anche di sinistra e anche di estrema sinistra, che rispolvera e piega ai fini della giornata il concetto, di per sé generico e ambiguo, di “comunità educante”.

Al Nord, lì dove la società è più forte, nemmeno si sognano di rinunciare allo Stato e anzi, usano la propria maggiore forza per difendere il tempo pieno istituzionale, più solido, continuativo e strutturato rispetto agli interventi del gruppo, dell’associazione, della realtà di base, i quali hanno comunque necessità del finanziamento statale o privato, che è spesso discontinuo e sempre discrezionale.
I peggiori di tutti sono i rappresentanti del popolo meridionale in Parlamento. A tal proposito mi basta citare un episodio.

Quando si trattò di distribuire i fondi della lotta all’evasione scolastica venne privilegiato il criterio della densità scolastica (più alta al Nord) a quello della densità di abbandono (più alta al Sud).

La Lombardia ottenne più fondi della Campania. Tra i deputati meridionali nessuno ebbe nulla da obiettare, eppure Napoli aveva al governo, in qualità di sottosegretario all’istruzione, il suo più famoso – e santificato – maestro di strada.

Tempo pieno: la scuola del Sud rivendichi i suoi diritti

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di Ciro Esposito

Di fronte all’esodo di decine di migliaia di insegnanti del Sud al Nord si tende a rispondere che “i posti sono al Nord”. Non ci si ci chiede perché mai ci siano così tante cattedre in più nelle regioni settentrionali. Se ce lo si chiede si dà una risposta sbagliata o quantomeno parziale. Infatti,  si chiamano in causa il fenomeno dell’immigrazione (e del decremento demografico al Sud, cui contribuiscono fuga dei cervelli ed emigrazione dei prof).

In realtà i dati veri – guarda caso i meno citati dai media – ci dicono che la sproporzione di cattedre – e di investimenti – tra il Nord e il Sud dipende da altri fattori: al Sud hanno colpito maggiormente i tagli governativi; è al Sud che la dispersione scolastica è più alta; è al Nord che ci sono più insegnanti di sostegno e più, molte più classi che effettuano il tempo pieno.

La differenza tra il tempo pieno al Nord e al Sud è abissale. Il caso – noto agli addetti ai lavori – venne sollevato mesi fa da due deputati meridionali, Luigi Gallo e Maria Marzana, che denunciarono: ”Su un totale di 917058 studenti delle scuole primarie statali che usufruiscono del tempo pieno, ben il 58,5% frequentano scuole del Nord, il 26% scuole del Centro e solo l’11,7% del Sud e delle isole”.

Ora comincia a muoversi anche il movimento sindacale, almeno al livello della denuncia. In questi giorni si sta tenendo il Congresso della Cisl scuola territoriale  e la questione del tempo pieno ha trovato spazio nella relazione della sua segretaria regionale Rosanna Colonna, che a questo proposito si chiede:”Ci sono forse due Italie? Perché non ci può essere la garanzia del diritto allo studio per tutti?”.

Il tempo pieno altrove è una realtà consolidata, che ha dato ottimi risultati nella lotta alla dispersione scolastica.  Per questo la regione Campania non può permettersi di perdere duemila insegnanti che, trasferiti al Nord, sono rientrati per un anno scolastico nelle sedi d’origine grazie all’istituto dell’”assegnazione provvisoria”. A breve si ripeterà la lotteria dell’assegnazione, sembra che per loro il precariato non finisca mai.

La scuola meridionale batta un colpo e rivendichi con maggiore determinazione i suoi diritti: sul tempo pieno si può costituire un’alleanza virtuosa e trasversale tra enti locali, insegnanti, meridionalismo trasversale e variamente inteso.