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Riforma Renzi-Boschi: l’obiettivo è incrementare le differenze tra Nord e Sud.

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In un momento storico-politico nel quale lo scollamento tra rappresentanza partitica e bisogni dei cittadini aumenta in maniera preoccupante, il confronto democratico e la partecipazione alla vita pubblica, determinano il ruolo di ciascuno di noi nei processi decisionali da cui dipendono i nostri diritti e quelli delle nostre terre.

La consultazione del 4 Dicembre non è una consultazione elettorale come le altre: si vota sulla modifica della Legge fondamentale dello Stato e su una riforma che cambia 47 articoli della Costituzione, incidendo profondamente sull’assetto ordinamentale istituzionale. E’ dovere di ciascun cittadino responsabile informarsi ed informare affinchè non prevalgano astensionismo e bandiere di appartenenza.

Se in questi decenni la Costituzione l’avessero applicata e non umiliata oggi non staremmo ad interrogarci sul perchè viviamo in un’Italia che corre a due velocità, con cittadini di serie A e cittadini di serie B e perchè il principio di eguaglianza formale e sostanziale disciplinato non trova riscontro effettivo nelle opportunità di sviluppo e nelle condizioni economiche, sociali e culturali del paese ma al contrario sono garantite in maniera profondamente difforme sul territorio nazionale. Se la Costituzione fosse rispettata e considerata un faro di garanzia per l’effettivo esercizio dei diritti della persona, sarebbe assecondato e non solo declamato l’art. 1 che definisce l’Italia una Repubblica fondata sul lavoro (salvo poi applicare politiche di indirizzo governativo che fanno macelleria sociale dei  diritti e delle tutele per i lavoratori); si riconoscerebbe l’importanza della scuola pubblica come bene comune di crescita e progresso della collettività; sarebbe protetta  e assicurata la sanità pubblica e tutelato l’ambiente. Se la Costituzione fosse applicata e non solo annunciata oggi sarebbero rispettate le autonomie locali e la sovranità, che appartiene al popolo.

La riforma Renzi-Boschi- si dirà, sbagliando – non modifica la prima parte della Costituzione. I diritti fondamentali e le procedure istituzionali sono legate da un rapporto di inscindibilità: le azioni politiche dei governi che decidono sui diritti, si generano e modellano nelle istituzioni: cambiando le procedure e le istituzioni disciplinate nella seconda parte della Costituzione, si modificano le priorità politiche di intervento e con esse il livello di garanzia dei diritti.

Ecco perchè la Carta Costituzionale non può diventare in nessun modo l’ennesimo strumento di divisione di un paese unito, di fatto, solo nella retorica delle celebrazioni formali ma privo di qualunque elemento di solidarietà nazionale e senso di appartenenza comune. Ed ecco perchè preoccupa il modo in cui si modifica il Titolo V.

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Con la riforma costituzionale Renzi-Boschi i cittadini non saranno più uguali. Anche oggi non lo sono, ma mai si era arrivati a mettere nero su bianco l’obiettivo di incrementare le differenze tra Nord e Sud. La riforma infatti toglie molti poteri alle Regioni, ma ne restituisce altrettanti alle Regioni ricche, cioè quelle che possono far quadrare i conti. L’articolo 116 infatti, qualora vincesse il Sì, prevederà che solo le Regioni in equilibrio di bilancio tra entrate e spese potranno chiedere maggiore autonomia legislativa su 13 materie delicate e strategiche per il governo del territorio:

1.  organizzazione della giustizia di pace

2.  disposizioni generali e comuni per le politiche sociali

3.  disposizioni generali e comuni sull’istruzione

4.  ordinamento scolastico

5.  istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica

6.  politiche attive del lavoro

7.  istruzione e formazione professionale

8.  commercio con l’estero

9.  tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici

10.   ambiente ed ecosistema

11.   ordinamento sportivo

12.   disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo

13.   governo del territorio.

Semplificando: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, potranno scegliere come proteggere il proprio patrimonio paesaggistico; se consentire trivellazioni; prenderanno decisioni proprie su come organizzare l’istruzione scolastica, il turismo, i rapporti commerciali con l’estero e così via. La Calabria invece, maglia nera di povertà tra le regioni italiane, la Campania, la Puglia, la Basilicata su materie come energia, attività turistiche, tutela dell’ambiente, dipenderanno in tutto e per tutto dalle scelte dello Stato Centrale. Nel caso in cui il Governo si trovi costretto a scegliere un sito dove stoccare scorie radioattive quale sito sceglierà? Quello di una Regione in pareggio di bilancio che avrà potuto legiferare in autonomia o quello di una Regione povera che non avrà potuto farlo?

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Lo illustrano bene i Consiglieri regionali del Pd dell’Emilia Romagna in un documento approvato a fine settembre: “Viene dato vita in sostanza ad un federalismo differenziato, selettivo e meritocratico, che punta a premiare le Regioni più virtuose”.

La virtuosità di un territorio non può dipendere dalla sua ricchezza, nè gli errori amministrativi da parte di alcune regioni del Sud possono coincidere con la privazione di autodeterminazone delle comunità locali. L’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) infatti è distribuita in maniera fortemente disomogena sul territorio italiano. Ad esempio: la Calabria ha a disposizione 310 euro per ciascun abitante della Regione, il Veneto 652; la Campania circa 371 mentre la la Lombardia 862. Raggiungere il pareggio di bilancio non è un merito, è un parametro di misurazione della ricchezza. Le Regioni settentrionali hanno un gettito fiscale alto e possono trovarsi più facilmente in condizione di equilibrio tra entrate e spese. Al Sud invece, il gettito fiscale non copre mai le risorse necessarie a garantire i servizi essenziali per i cittadini che hanno minore capacità contributiva. Con la modifica dell’art. 116 prende forma il regionalismo differenziato che sancisce autonomia decisionale su base economica.

Si consuma in tal modo il disegno monopolista dei commissariamenti e delle ricette nord-centriste applicate ai territori meridionali. Ciò che si cela dietro millantate applicazioni di meritocrazia amministrativa, coincide con l’interpretazione punitiva e non perequativa delle autonomie locali previste e disciplinate della Costituzione. La supremazia decisionista del potere politico di Roma è uno dei veri e più insidiosi pericoli di questa riforma. Le disquisizioni sul Senato, sul bicameralismo o sul Cnel sono tutte interessanti, ma qui si sta decidendo altrove il futuro della parte più debole e sacrificata del paese.

Il Mezzogiorno non viene messo in condizione di crescere quando bisogna prevedere investimenti e incentivi pubblici per lo sviluppo. Il Governo non ha mai individuato i Lep (livelli essenziali di prestazione concernenti diritti minimi civili e sociali); non ha mai stabilito la perequazione, finalizzata a distribuire finanziamenti utili per garantire servizi omogenei su tutto il territorio nazionale; i fabbisogni standard vogliono introdurli direttamente in Costituzione, ma per fregare il Sud hanno già attuato stratagemmi che calcolano il riparto dei fondi sulla base della spesa storica e non sulla base del reale bisogno della popolazione.

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Andrebbero applicati i principi di eguaglianza e di coesione sociale atti a rimuovere gli squilibri economici territoriali o va stabilita per legge fondamentale dello Stato, l’inferiorizzazione meridionale?

Il 4 Dicembre andiamo a votare il potere di forza della nostra autodeterminazione e l’opportunità di costruire un modello di autonomia responsabile che faccia dell’ autogoverno la vera sfida politica del Sud. Io voto NO.

Flavia Sorrentino.

la “clausola di supremazia”

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L’ art.116 della Costituzione prevede che le 15 regioni a Statuto ordinario possano accedere a maggiori forme di autonomia solo nei campi indicati dalla norma. Si tratta di un ambito circoscritto alle materie di “legislazione concorrente” previste dall’art.117 a cui si aggiungono l’organizzazione della giustizia limitatamente ai giudici di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Ciò più avvenire con un procedimento negoziato tra lo Stato e ciascuna singola Regione che lo richieda, mediante una legge ordinaria votata a maggioranza assoluta.

Le regioni sono fortissime per i poteri che hanno, tant’è che nessuna ha mai richiesto poteri aggiuntivi. Con la riforma Renzi-Boschi tutte le regioni a statuto ordinario perdono poteri. Diventa perciò fondamentale per il Nord riprendersi, con il trucco dei conti in ordine, ben tredici poteri strategici. L’articolo 116 infatti sarà modificato in modo che solo le Regioni in equilibrio di bilancio tra entrate e spese potranno chiedere maggiore autonomia legislativa su materie quali: organizzazione della giustizia di pace; disposizioni generali e comuni per le politiche sociali; disposizioni generali e comuni sull’istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica; politiche attive del lavoro; istruzione e formazione professionale; commercio con l’estero; tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo; governo del territorio.
Resta invariato il vaglio delle Camere ma viene eliminato il quorum della maggioranza assoluta dei componenti per l’approvazione delle leggi che concedono autonomia. E quindi diventa fondamentale per il Nord riprendersi, con il trucco dei bilanci, 13 poteri fondamentali. E prendersi il vantaggio competitivo che loro potranno agire per esempio in materia di turismo o commercio con l’estero e noi no.

La virtuosità di un territorio non può dipendere dalla sua ricchezza, nè gli errori amministrativi da parte di alcune regioni del Sud possono coincidere con la privazione di autodeterminazone, soprattutto in ragione del fatto che la capacità contributiva è bassa e il pareggio di bilancio, rebus sic stantibus, è praticamente impossibile da raggiungere. E’ inaccettabile che la cosiddetta “clausola di supremazia” prevista dalla riforma, permetterà ad una Regione del Nord di decidere, ad esempio, se ospitare un sito di stoccaggio di score nucleari o opporsi, mentre la Calabria, la Campania, la Basilicata o la Puglia saranno costrette a diventare siti strategici nazionali e a subire esclusivamente le scelte dello Stato centrale. La riforma la guardo da Sud. Possiamo domandarci se è tutta sbagliata o se ci sono delle parti condivisibili, ma modificandola in questo modo diventa l’ennesimo trabocchetto anti-meridionale a danno dei nostri diritti.
Flavia Sorrentino

La riforma dà i superpoteri al Nord: parola del Pd (dell’Emilia Romagna)

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Con la riforma costituzionale Renzi-Boschi i cittadini non saranno più uguali. Anche oggi non lo sono, ma mai si era arrivati ad incrementare le differenze Nord-Sud addirittura nella legge fondamentale dello Stato. Sarebbe come scrivere in Costituzione: “Le donne possono esser trattate peggio”.

Lo illustrano bene i Consiglieri regionali del Pd dell’Emilia Romagna. In un documento approvato a fine settembre, spiegano: “Viene dato vita in sostanza ad un federalismo differenziato, selettivo e meritocratico, che punta a premiare le Regioni più virtuose. La formulazione dell’art. 116, fornisce un rilevante strumento di autonomia alle Regioni più virtuose sotto il profilo del bilancio, consentendo a queste ultime di accedere a forme e condizioni particolari di autonomia in alcuni ambiti di competenza esclusiva dello Stato tra i quali sono inclusi: il governo del territorio, le politiche attive del lavoro, l’ordinamento scolastico, la tutela dei beni culturali, l’ambiente, il turismo, il commercio con l’estero”.

Traduciamo: la riforma toglie molti poteri alle Regioni, però ne restituisce altrettanti alle sole Regioni ricche, cioè quelle che possono far quadrare il bilancio. In questo modo l’Emilia Romagna, come tutto il Nord ricco e perciò virtuoso, potrà decidere in autonomia che fare della scuola, del territorio, come tutelare l’ambiente, i beni culturali, promuovere il turismo, il lavoro e il commercio con l’estero. Gli altri si arrangeranno con quel che passa la mensa dei servizi minimi nazionali.

Creare un’Italia differenziata, che selezioni chi può avere scuola, turismo e ambiente di serie A e chi di serie B o C è l’obiettivo della riforma. Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, potranno scegliere per sé, mentre le popolazioni dei territori meridionali (con minore capacità contributiva), dipenderanno esclusivamente dalle scelte dello Stato Centrale. La Calabria, maglia nera di povertà tra le regioni italiane, la Campania, la Basilicata non avranno autonomia decisionale sulle politiche ambientali o su quelle di sfruttamento energetico e perciò non potranno esprimersi a favore o contro trivelle, gasdotti e centrali a carbone. Ciò che si cela dietro millantate applicazioni di meritocrazia amministrativa, coincide con l’interpretazione punitiva e non perequativa delle autonomie locali previste e disciplinate della Costituzione. Altrove sarà deciso il futuro della parte già più debole e sacrificata del paese. Ed io voto no.

Flavia Sorrentino

Perché la riforma Renzi-Boschi costituzionalizza il colonialismo interno

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di Flavia Sorrentino

Con la modifica della Carta Costituzionale numerose “materie concorrenti” tornano ad essere di competenza esclusiva dello Stato. Tra queste: ambiente, tecnologia, istruzione, gestione di porti e aeroporti, trasporti e navigazione, produzione e distribuzione dell’energia, politiche per l’occupazione, sicurezza sul lavoro, ordinamento delle professioni. Ciononostante, le Regioni più ricche, in equilibrio di bilancio tra entrate e spese, su tali materie avranno maggiore autonomia legislativa secondo il cosiddetto “regionalismo differenziato” con cui si attribuiscono formalmente per qualità e quantità poteri diversi alle regioni ordinarie (art.116). Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, potranno scegliere come proteggere il proprio patrimonio paesaggistico; se consentire trivellazioni; prenderanno decisioni proprie su come organizzare l’istruzione scolastica, il turismo, i rapporti commerciali con l’estero e così via. La Calabria invece, maglia nera di povertà tra le regioni italiane, su materie come energia, attività turistiche, tutela dell’ambiente, dipenderà in tutto e per tutto dalle scelte dello Stato Centrale.

Si consuma in tal modo il disegno monopolista dei commissariamenti e delle ricette nord-centriste applicate ai territori meridionali. Ciò che si cela dietro millantate applicazioni di meritocrazia amministrativa, coincide con l’interpretazione punitiva e non perequativa delle autonomie locali previste e disciplinate della Costituzione. La supremazia decisionista del potere politico di Roma è uno dei veri e più insidiosi pericoli di questa riforma. Non stupisce, ma deve far riflettere, il totale disinteresse degli organi di informazione sulla modifica del titolo V. Imbarazzante, il totale disinteresse dei politici meridionali di maggioranza e di opposizione, eterodiretti dai propri partiti di riferimento.

Le disquisizioni sul Senato delle Regioni, sul numero dei parlamentari o sul Cnel sono tutte interessanti, peccato che qui si stia decidendo altrove il futuro della parte più debole e sacrificata del paese. Sappiamo quanto ci sia da preoccuparsi quando l’Italia sceglie al posto nostro, ma soprattutto quanto sia importante difendere le autonomie locali in riferimento ad argomenti che non possono essere affrontati senza tener conto della volontà delle popolazioni e dei territori. Il 4 Dicembre andiamo a votare il potere di forza della nostra autodeterminazione. Sottovalutare questa occasione rappresenterebbe un peccato imperdonabile per chi vuole fare dell’autonomia la costruzione di un modello coraggioso di autogoverno, che metta al centro dei processi decisionali il volere del popolo sovrano, non solo con il fascino delle parole ma attraverso l’audacia e la forza concreta dei fatti.

Nuova Costituzione, qualche ciliegina e molta panna marcia

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Perché al referendum è necessario votare un secco NO

Con 49 articoli cambiati su 139 la  riforma della Costituzione firmata Renzi-Boschi è una vera e propria riscrittura della Carta  Costituzionale entrata in vigore nel 1948 e riformata in misura considerevole una prima volta nel 2001. Sul testo Renzi-Boschi, approvato dal Parlamento con numerosi emendamenti, sarà indispensabile il voto finale degli italiani, il quale si terrà nell’autunno 2016. Ci sono due precedenti di referendum su cambiamenti della Costituzione: nel 2001 gli elettori approvarono la riforma del Centrosinistra, che dava più poteri alle Regioni e introduceva il federalismo fiscale solidale; mentre nel 2006 fu bocciata quella scritta da Berlusconi e Bossi. Il referendum costituzionale, quindi, è un passaggio fondamentale e, visto che non è necessario il quorum perché la consultazione sia valida, ogni singolo voto può essere quello decisivo. Ecco perché informarsi è necessario. Proviamo a dividere l’analisi in quattro parti: quello che c’è di buono, quello che in apparenza è positivo ma in sostanza ha poco peso, quello che ci si poteva aspettare e non c’è, quello che c’è e appare dannoso in particolare per la nostra terra meridionale. In un referendum naturalmente la riforma va proposta o respinta in blocco, non è possibile pescare solo le parti che piacciono. A nostro parere la riforma appare una torta con tanta panna marcia e qualche ciliegina.

Quello che c’è di buono: le ciliegine

  • Camera e Senato non sono più un doppione.
  • Viene eliminato il Cnel, il Consiglio nazionale economia e lavoro.
  • C’è un tetto alla retribuzione dei consiglieri regionali.
  • C’è una valutazione preventiva di legittimità delle leggi elettorali.

Quello che appare positivo ma in sostanza pesa poco o funziona male:

  • La cancellazione della parola Provincia.
  • L’azzeramento dell’indennità dei senatori.
  • La semplificazione dell’iter legislativo.
  • La rappresentanza in Senato degli enti territoriali.

Quello che ci poteva essere e non c’è:

  • La riduzione del numero di deputati: restano 630.
  • L’accorpamento delle Regioni più piccole: restano 19 più due Province autonome.

Quello che appare dannoso, in particolare per il Sud:

  • Il meccanismo dei poteri differenziati per le Regioni: maggiori negli enti ricchi.
  • L’accentramento nelle mani del governo di poteri su materie delicate per le popolazioni e i territori, come l’energia e le trivellazioni.
  • L’aumento da 50mila a 150mila delle firme per una legge d’iniziativa popolare.

 

Entriamo nel dettaglio. Quello che c’è di buono.

 

Camera e Senato non sono più un doppione.

Solo la Camera vota la fiducia al governo e solo i deputati rappresentano la Nazione mentre i senatori rappresentano gli Enti territoriali. Si torna in pratica allo spirito originario della Costituzione che tendeva appunto a differenziare le funzioni. In particolare in origine il Senato restava in carica sei anni, quindi uno in più della Camera. Adesso il Senato diventa un organo a rinnovo parziale perché il rinnovo dei senatori è legato a quello delle Regioni, che non votano in modo simultaneo.

 

Viene eliminato il Cnel, il Consiglio nazionale economia e lavoro.

Il Cnel fu introdotto nella Costituzione per dare un ruolo alle rappresentanze sociali, tuttavia la funzione del Cnel è stata sempre residuale – studi, pareri, qualche proposta di legge –  a fronte di costi non trascurabili: 19 milioni l’anno. Il personale del Cnel viene ricollocato presso la Corte dei Conti.

 

C’è un tetto alla retribuzione dei consiglieri regionali.

Non potranno guadagnare più del sindaco del Comune capoluogo di Regione. Oggi le indennità sono agganciate a quelle dei parlamentari. In pratica la retribuzione dei consiglieri regionali viene dimezzata.

 

C’è una valutazione preventiva di legittimità delle leggi elettorali.

Non sarà più possibile approvare una legge Porcellum. La riforma si applica all’Italicum, che riproduce le candidature bloccate per tutti i capilista, se ci sarà la richiesta di un quarto dei deputati o di un terzo dei senatori.

 

Quello che appare positivo ma in sostanza pesa poco o funziona male

 

La cancellazione della parola Provincia.

Nel nuovo articolo 114 si elencano gli enti costitutivi della Repubblica: Regioni, Comuni e Città metropolitane. Sparisce la parola Provincia ma, in riferimento alle loro funzioni, si parla di “enti di area vasta”. Per cui la sostanza non cambia. Va sottolineato che le Città metropolitane, nonostante la conferma del riconoscimento istituzionale, sono escluse dalla rappresentanza nel nuovo Senato.

 

L’azzeramento dell’indennità dei senatori.

In tempi di antipolitica sembra che ogni centesimo dato a un politico sia denaro buttato. In realtà un politico a reddito molto basso o addirittura zero è una persona che vive di qualcos’altro. Per i senatori sarebbe stato corretto che non cumulassero le indennità di sindaco o di consigliere regionale con quella appunto di senatore, stabilendo un tetto massimo. La scelta della indennità zero porterà all’assurdo di senatori pagati poche centinaia di euro al mese (come i sindaci di piccoli comuni, che pure dovranno essere rappresentati) fino alla vergogna di senatori di nomina presidenziale in carica sette anni a indennità zero. Si dirà che il presidente della Repubblica è tenuto a nominare persone che hanno dato lustro al paese e che quindi si presume abbiano un reddito elevato. Ma perché si deve associare sempre la qualità delle persone al proprio reddito? Alex Zanotelli è una persona di straordinarie qualità: se come merita sarà nominato senatore dovrà pagarsi ogni volta il treno per Roma e l’albergo?

 

La semplificazione dell’iter legislativo.

Non è vero che le leggi di interesse generale sono approvate solo dalla Camera, senza più il doppio passaggio parlamentare. Il Senato infatti su qualsiasi materia può chiedere (basta un terzo dei componenti) di esaminare i disegni di legge approvati dalla Camera e fare entro 30 giorni le sue proposte di modifica, che la Camera è tenuta a discutere, approvare o respingere. In pratica si replica quanto accade già oggi con i passaggi parlamentari che sono di fatto ricondotti a tre: prima approvazione alla Camera o al Senato, approvazione con modifiche dall’altro ramo del parlamento, terza lettura e approvazione definitiva senza modifiche. L’unica novità è che adesso sarebbe obbligatorio partire dalla Camera e che le modifiche introdotte dal Senato non sarebbero vincolanti.

 

La rappresentanza in Senato degli enti territoriali.

Il Senato è ridotto da 315 a 95 membri (più cinque senatori di nomina presidenziale, non più a vita ma con incarico settennale). I senatori non hanno più indennità parlamentare. Il Senato ha il potere di approvare alcune tipologie di leggi (in concorso con la Camera), di svolgere funzioni di raccordo tra lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni nonché di verificare l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Tuttavia il Senato è monco nella rappresentanza (non sono previsti rappresentanti delle Città metropolitane ma solo di Regioni – 74 senatori – e Comuni – 21 senatori) e non ha il potere di “controllo sull’operato del governo”, che è funzione attribuita alla sola Camera dei deputati. Il suo potere legislativo limitato a poche materie tra le quali sono incredibilmente escluse alcune delicatissime proprio per i territori: la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale (art. 117), i tributi locali, il fondo di perequazione, i costi e fabbisogni degli enti locali (art. 119). In pratica il governo con la “sua” maggioranza alla Camera può approvare leggi di immediato interesse per Regioni, Comuni e Città metropolitane senza che il Senato, dove questi enti sono rappresentati, abbia potere legislativo.

 

Quello che ci poteva essere e non c’è

 

La riduzione del numero di deputati: restano 630.

Nella campagna elettorale delle primarie, un manifesto di Matteo Renzi prometteva: “se vince Renzi dimezziamo i parlamentari”.

 

L’accorpamento delle Regioni più piccole: restano 19 più due Province autonome.

La frammentazione del mezzogiorno è tra le cause della sua debolezza.

 

Quello che appare dannoso, in particolare per il Sud

 

Il meccanismo dei poteri differenziati per le Regioni: maggiori negli enti ricchi.

Con il nuovo articolo 116 si specifica che solo le Regioni in equilibrio tra entrate e spese del proprio bilancio (quindi sono favorite le Regioni ricche, che hanno entrate proprie maggiori) possono ottenere maggiori poteri legislativi su materie non secondarie quali: istruzione, ordinamento scolastico, istruzione universitaria; programmazione strategica della ricerca e tecnologica; politiche attive del lavoro e istruzione e formazione professionale; commercio con l’estero; beni culturali e paesaggistici; ambiente e ecosistema; ordinamento sportivo; attività culturali; turismo; governo del territorio. In pratica la Lombardia e il Veneto potranno avere proprie leggi sul commercio con l’estero, potranno tutelare il proprio ambiente dalle trivellazioni, potranno organizzare l’istruzione anche superiore nell’interesse dei soli residenti mentre Campania, Puglia e Calabria dipenderanno in tutto e per tutto dalle volontà del governo centrale. Nella ripartizione delle materie ci sono aspetti curiosi per esempio sul turismo. La nuova Costituzione attribuisce allo Stato le “disposizioni generali e comuni sul turismo” e alle Regioni quelle “di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo”. Ma una Regione che si avvale dei maggiori poteri in materia di turismo cosa potrà fare di più senza entrare in conflitto con lo Stato o con le altre Regioni?

 

L’accentramento nelle mani del governo di poteri su materie delicate per le popolazioni e i territori, come l’energia e le trivellazioni.

Con la Costituzione in vigore le Regioni perdono poteri su materie delicate per i territori come l’energia. Produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia diventano infatti di competenza esclusiva dello Stato, così come i porti e gli aeroporti. Le Regioni ricche potranno recuperare i poteri attuali grazie al “regionalismo differenziato” (si chiama proprio così). Le popolazioni dei territori “differentemente ricchi” invece non potranno metter becco su questioni delicate come lo sfruttamento energetico: trivellazioni, gasdotti, centrali a carbone. L’ambiente non è più nelle mani delle popolazioni locali.

 

L’aumento da 50mila a 150mila delle firme per una legge d’iniziativa popolare.

A conferma che l’iniziativa popolare è temuta, si triplica la soglia come se frenare uno strumento democratico fosse un bene. Diverso sarebbe stato se si fossero introdotti principi di e-democracy con la possibilità di raccogliere le firme online in modo certificato. Una modifica di pari spirito riguarda i referendum: si abbassa il quorum per la loro validità a patto che le firme salgano da 500mila a 800mila.