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Riflessioni sul referendum catalano

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di Marco Rossano, sociologo

Sono 15 anni che vivo a Barcellona e non ho la presunzione di sapere cosa è giusto o sbagliato. So che esiste una “questione catalana” che affonda le sue radici nel tempo e che è molto più complessa di quello che molti politici e mezzi di comunicazione stanno dando in queste ultime ore. Non si può paragonare alla Scozia o al Sud Italia, ogni contesto ha le sue peculiarità e le sue cause. Non è questa la sede per un’analisi dettagliata delle ragioni storico culturali della “questione catalana”. Voglio però riflettere sulla giornata di oggi 1 ottobre 2017, giorno del referendum. Si è arrivati a uno scontro frontale, a un muro contro muro che non porterà a nessuna soluzione e probabilmente la aggraverà. In questo contesto non esistono buoni o cattivi, oppressi ed oppressori, vittime e carnefici. Tutte le parti in causa hanno la loro dose di responsabilità in questa situazione che si è radicalizzata e polarizzata. O sei con me o sei contro di me, o sei mio amico o mio nemico. Le misure giudiziarie e di polizia delle ultime settimane, gli interventi repressivi della giornata di oggi sono eccessivi e antidemocratici, ma sono anche una risposta (che non giustifico e condanno) alla violazione di leggi e regole fondamentali da parte del governo catalano.

Non c’è dubbio che esiste una “questione catalana” che la politica spagnola ha in più occasioni negato e che ha trovato il suo culmine nella incostituzionalità dello Statuto Catalano nel 2010. Da allora, con il ritorno del Partido Popular (partito di centrodestra) al governo nazionale, le posizioni si sono radicalizzate e l’atteggiamento di rifiuto e di mancanza di riconoscimento da parte delle istituzioni spagnole ha di fatto avuto un ruolo importante nella crescita del movimento indipendentista catalano e la fine di ogni tipo di dialogo fino all’escalation odierna.

Sicuramente uno dei responsabili della situazione attuale è il PP e il suo leader Mariano Rajoy. Dall’altro lato non vanno dimenticate le responsabilità del governo catalano e dei suoi rappresentanti. Nel 2015 durante le ultime elezioni al parlamento catalano, i partiti indipendentisti hanno totalizzato meno del 48% anche se hanno ottenuto la maggioranza parlamentaria. Il governo catalano ha interpretato questo voto come un mandato a procedere sulla via dell’indipendenza. Il sociologo Peter Wagner, professore all’Università di Barcellona, ricorda che tra le cose fatte, il Govern ha riscritto le procedure del parlamento catalano, non tenendo conto della consulenza legale dei propri esperti . Ha proposto, attraverso il parlamento, una legge per un referendum e una cosiddetta legge di rottura, equivalente a una dichiarazione di indipendenza unilaterale. Il passaggio di queste leggi viola la costituzione catalana – l’Estatut – fino ad allora visto orgogliosamente come espressione dell’autodeterminazione catalana. In questo processo, ai partiti dell’opposizione sono stati negati il diritto di dibattito e di proporre emendamenti. Wagner addirittura afferma che “queste leggi assomigliano alla legge di abilitazione (Ermächtigungsgesetz) al Parlamento di Weimar del 1933, anche se il governo catalano non si è preoccupato nemmeno di assicurare la maggioranza dei due terzi”.

In questo clima di scontro, il governo catalano cerca di dare l’impressione che esiste una doppia legalità, una spagnola e una catalana, la prima imposta e la seconda liberamente autodeterminata. Il governo catalano trasmette l’idea, investendo anche una quantità notevole di fondi, di portare avanti la volontà della società catalana con la consapevolezza che l’indipendenza non è mai stata scelta dalla maggioranza dei catalani. Ma nonostante tutto il Govern giustifica la violazione delle leggi e della Costituzione esistente in virtù di una volontà indipendentista della Catalogna. La propaganda catalana degli ultimi anni riversa sullo stato spagnolo le colpe di tutto. Uno stato che i catalani dimenticano di aver partecipato – liberamente – a creare durante la difficile fase della “transizione” dalla dittatura fascista e che ha portato ingenti investimenti sul territorio tra cui le Olimpiadi del 1992 che hanno cambiato il volto di Barcellona portandola alla ricchezza e allo sviluppo attuale e che non avrebbero certo ottenuto con una Catalogna indipendente.

Un dato è certo. L’autoritarismo del governo Rajoy ha portato a una radicalizzazione dello scontro. La grande maggioranza dei catalani vuole un referendum, vuole poter decidere il proprio futuro. Ma, a mio avviso, il referendum di cui ci sarebbe bisogno non è questo organizzato dal governo catalano in violazione della legge e dei principi democratici. La democrazia e la libertà non si esercitano solo nella possibilità di votare, sacrosanta e legittima, ma anche nel rispetto dello stato di diritto e delle minoranze che tanto minoranze non sono. Il muro contro muro non serve a nessuno e porterà solo a un vicolo cieco. L’unica via è quella del dialogo che né il governo spagnolo né quello catalano sembrano voler perseguire.

Dal mezzogiorno, un tranquillo ma convinto no al referendum costituzionale

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Pubblichiamo integralmente l’appello per il no lanciato dal prof. Gianfranco Viesti e firmato da molti illustri figli del Sud tra cui Pino Aprile, Maurizio De Giovanni, Marco Esposito, Isaia Sales.

Ad avviso delle firmatarie e dei firmatari di questo documento, il 4 dicembre è opportuno votare NO se si hanno a cuore le prospettive di sviluppo di lungo periodo dell’Italia e del Mezzogiorno in particolare.
Il progetto di riforma costituzionale è complesso. Già questo ne rende difficile la valutazione da parte dell’elettore.
Alcune modifiche sono apprezzabili, come sottolineato nel documento dei 50 costituzionalisti per il No (in cui ci riconosciamo ampiamente), a partire dal superamento del bicameralismo perfetto. Tuttavia, come gli stessi costituzionalisti sottolineano: “questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici”.
Due sono a nostro avviso particolarmente rilevanti.In primo luogo, la forte concentrazione e personalizzazione del potere esecutivo; che, fra l’altro, disporrà di una corsia preferenziale nel nuovo processo legislativo. Un processo affidato in gran parte ad una sola Camera saldamente controllata dal Premier, grazie alla nuova legge elettorale (per la quale gli annunciati propositi di cambiamento, oltre a essere poco credibili in caso di vittoria del Sì, non mutano in maniera sostanziale questo dato).
Siamo convinti, invece, che in un sistema democratico ben rappresentativo e ben funzionante debbano esservi più forti meccanismi di“controllo ed equilibrio” e un ruolo più rilevante per il Legislativo.
La capacità di governo non è minata oggi da fattori istituzionali, ma dalle debolezze della politica.
In secondo luogo, il forte accentramento nell’esecutivo nazionale dei poteri di governo del paese, a danno delle Regioni. Una forma di accentramento confusa e incoerente. Gli ingiustificati privilegi per le regioni a statuto speciale vengono lasciati intatti; mentre per le regioni più ricche, con i bilanci più sani, vi è la possibilità di tornare ad acquisire rilevanti competenze. Certo, le regioni non hanno dato buona prova (specie al Sud – anche se non sempre e non solo).
Ma, di nuovo, questo è un problema più politico che istituzionale. I Ministeri, del resto, non hanno dato miglior prova delle regioni. Una società articolata e multiforme,come la nostra, non si governa per decreti da Roma, ma attraverso un’indispensabile collaborazione fra livelli di governo e rendendo i cittadini partecipi delle scelte.
Il Sud è nel pieno della peggiore crisi della storia unitaria. Presenta tendenze assai preoccupanti. Per il suo futuro, e quindi per il futuro dell’intero paese, è indispensabile tanta buona politica e tante buone politiche:un forte rilancio degli investimenti e un ridisegno dei grandi servizi pubblici che ne accresca qualità, efficienza e sostenibilità economica. Occorre assicurare che i diritti di cittadinanza siano riconosciuti per tutte le italiane egli italiani, e che i
servizi ai cittadini (soprattutto in materia sociale) siano di livello elevato e il più possibile omogeneo in tutto il paese.
Ma la logica di “ricentralizzazione” che ispira la riforma non garantisce in alcun modo questo obiettivo: provvede solo a dare al Governo centrale la possibilità d’imporre ai territori le sue scelte, anche quelle potenzialmente dannose. Ciò è ancora più rilevante perché le scelte politiche già compiute negli ultimi anni – promosse dagli esecutivi senza un sufficiente dibattito parlamentare – stanno rendendo diritti e servizi diseguali, sempre più dipendenti dalla ricchezza dei territori; stanno accrescendo di più la pressione fiscale in quelli più deboli, concentrando i pochi investimenti nelle aree più forti del paese, ridisegnando sanità, scuola, welfare in misura diseguale, a danno del Sud. Specie con l’attuale esecutivo, ha preso forma ad esempio una profonda trasformazione e concentrazione del sistema universitario che avrà effetti gravissimi sul futuro civile ed economico del Sud.
Pensiamo che in Italia, specie al Sud, ci sia tanto da cambiare, da innovare. E in fretta. E, specie al Sud, facendo tesoro anche dei propri errori. Ma siamo fermamente convinti che nella nostra società le vere riforme – quelle che servono e poi funzionano davvero – possano nascere solo da un profondo confronto democratico, anche con un’attenta rappresentazione e composizione delle diverse esigenze territoriali; e dall’interazione tra più saperi, conoscenze, culture politiche. Il Principe illuminato – come frutto della riforma costituzionale – che guarisce un paese indebolito con le sue infinite conoscenze e le sue rapide azioni è, a nostro avviso, solo una pericolosa illusione.

Gianfranco Viesti e Onofrio Romano (Università di Bari). Aderiscono: Pino Aprile (saggista), Franco Arminio (paesologo), Piero Bevilacqua (storico), Nando Blasi (Popu) (musicista), Nicola Costantino (ex rettore Politecnico Bari), Maurizio De Giovanni (scrittore), Carmine Di Pietrangelo (Left, Brindisi), Marco Esposito (giornalista), Dino Falconio (Paradox, Napoli), Andrea Gargiulo (direttore orchestra), Enzo Lavarra (ex europarlamentare), Piero Lacorazza
(Consigliere Regionale Basilicata), Oronzo Martucci (giornalista), Luigi Masella (Fond Gramsci Puglia), Eugenio Mazzarella (ex parlamentare) Leonardo Palmisano (saggista), Ferdinando Pappalardo (ANPI Puglia), Corrado Petrocelli (ex rettore Univ Bari), Isaia Sales (saggista, ex sottosegretario), Antonio Stornaiolo (attore), Alessio Viola (scrittore), Alberto Baccini (Università di Siena), Ugo Ascoli (Università Politecnica delle Marche), Anna Simone (Università di Roma Tre), Giovanni Cerchia, Michele Della Morte, Alberto Tarozzi (Università del Molise), Melina Cappelli, Davide De
Caro, Paola De Vivo, Pompea Del Vecchio, Nicola Durante, Giuliano Laccetti, Alberto Lucarelli, Enrica Morlicchio, Fabio Murena (Università Federico II di Napoli), Maurizio Migliaccio (Università di Napoli-Parthenope), Giso Amendola, Davide Bubbico, Mimmo Maddaloni, Raffaele Rauty, Maria Antonietta Selvaggio (Università di Salerno), Paolo Fanti, Fara Favia (Università della Basilicata), Marco Barbieri, Aldo Ligustro, Irene Strazzeri (Università di Foggia), Giuseppe Campesi, Michele Capriati, Franco Chiarello, NicolaColonna, Tiziana Drago, Lea Durante, Fabrizio Fiume, Lidia Greco,
Raffaele Licinio, Isidoro Mortellaro, Luigi Pannarale, Ivan Pupolizio, Francesco Prota, Francesca Recchia Luciani, Stefania Santelia, Mario Spagnoletti, Carlo Spagnolo, Roberto Voza (Università di Bari), Giampaolo Arachi, Mario Castellana, Valentina Cremonesini, Stefano Cristante, Fabio De Nardis, Antonio Donno, Guglielmo Forges Davanzati, Nicola Grasso, Angelo Salento, Luigi Spedicato, Ferdinando Spina (Università del Salento), Domenico Cersosimo, Piero Fantozzi, Sonia Fiorani, Guido Liguori, (Università della Calabria), Ignazia Maria Bartholini (Università di Palermo), Fabio Mostaccio, Tonino Perna (Università di Messina), Maurizio Caserta (Università di Catania), Marco Pitzalis, Giuseppe Puggioni, Marco Zurru (Università di Cagliari), Antonio Moretti (CNR Bari), Angelo Gallo (dirigente scolastico, Napoli), Patrizia Perrone (insegnante, Napoli), Gioia Costa (Esplor/azioni Roma).

Regionalismo differenziato: la trappola nascosta per il sud

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Del perché il sud deve votare no al referendum ne abbiamo già parlato. Creare un’Italia a due velocità, che selezioni chi può avere scuola, turismo e ambiente di serie A e chi di serie B è l’obiettivo della nuova costituzione Renzi-Boschi.
La riforma toglie molti poteri alle Regioni, ma ne restituisce altrettanti alle sole Regioni ricche, cioè quelle che possono far quadrare il bilancio. In questo modo tutto il Nord ricco e perciò virtuoso, potrà decidere in autonomia che fare della scuola, del territorio, come tutelare l’ambiente, i beni culturali, promuovere il turismo, il lavoro e il commercio con l’estero. Il Sud povero invece, dovrà arrangiarsi con quel che passa la mensa dei servizi minimi nazionali. Si introduce così un “regionalismo differenziato” che nega alle popolazioni meridionali il diritto di scegliere per il proprio futuro privandole delle autonomie locali.
A proposito di questo, è bene entrare nel merito di alcune osservazioni fuorvianti che abbiamo letto in giro.
Il “regionalismo differenziato” è giusto, perché è giusto premiare chi ha i conti in ordine e punire chi i conti in ordine non li ha.
NO! Non lo è per due ragioni. In primo luogo perché non è corretto introdurre nella costituzione una norma che determina delle differenze tra i cittadini di quella che si suppone essere una stessa nazione.
In secondo luogo c’è una ragione più tecnica, ma fondamentale: le regioni del sud non possono raggiungere il pareggio di bilancio. Questo avviene perché l’imposta principale che viene trattenuta sul territorio è l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive). Si tratta dell’imposta distribuita in maniera meno uniforme sul territorio italiano, molto bassa al sud, molto alta al nord. Questo vuol dire il gettito a disposizione delle regioni del sud per far quadrare i propri bilanci è molto più basso di quelle del centro-nord. Ad esempio la Calabria ha a disposizione 310 euro per ciascun abitante della Regione, il Veneto 652. La Campania circa 371, la Lombardia 862.
In pratica la quota necessaria per garantire i servizi minimi è superiore alle entrate delle Regioni del mezzogiorno ordinario (più l’Umbria).
Vi opponete ad una cosa che va contro la Lega.
È vero che l’attuale assetto del titolo V della costituzione è voluto da Calderoli, ma il punto è che con questa riforma non si torna ad una situazione precedente la modifica leghista del 2001. Piuttosto la si annulla per le sole regioni meridionali e lo si fa sulla base di principi voluti dagli stessi leghisti.
In altre parole se vincesse il sì le regioni del mezzogiorno perderebbero sovranità, ma lo Stato non risparmierebbe un solo euro. Le regioni del centro-nord, invece, potrebbero continuare a legiferare.
E allora perché la Lega vota no?
Lo fa per due ragioni: la prima è di natura squisitamente politica. Salvini vuole che Renzi perda per potersi proporre come premier del centrodestra. La seconda è che, qualunque sia l’esito, loro vincono lo stesso!
Se vincesse il no, allora le cose resterebbero come stanno. Se vincesse il sì, le regioni del nord conserverebbero comunque la propria autonomia.

la “clausola di supremazia”

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L’ art.116 della Costituzione prevede che le 15 regioni a Statuto ordinario possano accedere a maggiori forme di autonomia solo nei campi indicati dalla norma. Si tratta di un ambito circoscritto alle materie di “legislazione concorrente” previste dall’art.117 a cui si aggiungono l’organizzazione della giustizia limitatamente ai giudici di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Ciò più avvenire con un procedimento negoziato tra lo Stato e ciascuna singola Regione che lo richieda, mediante una legge ordinaria votata a maggioranza assoluta.

Le regioni sono fortissime per i poteri che hanno, tant’è che nessuna ha mai richiesto poteri aggiuntivi. Con la riforma Renzi-Boschi tutte le regioni a statuto ordinario perdono poteri. Diventa perciò fondamentale per il Nord riprendersi, con il trucco dei conti in ordine, ben tredici poteri strategici. L’articolo 116 infatti sarà modificato in modo che solo le Regioni in equilibrio di bilancio tra entrate e spese potranno chiedere maggiore autonomia legislativa su materie quali: organizzazione della giustizia di pace; disposizioni generali e comuni per le politiche sociali; disposizioni generali e comuni sull’istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica; politiche attive del lavoro; istruzione e formazione professionale; commercio con l’estero; tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo; governo del territorio.
Resta invariato il vaglio delle Camere ma viene eliminato il quorum della maggioranza assoluta dei componenti per l’approvazione delle leggi che concedono autonomia. E quindi diventa fondamentale per il Nord riprendersi, con il trucco dei bilanci, 13 poteri fondamentali. E prendersi il vantaggio competitivo che loro potranno agire per esempio in materia di turismo o commercio con l’estero e noi no.

La virtuosità di un territorio non può dipendere dalla sua ricchezza, nè gli errori amministrativi da parte di alcune regioni del Sud possono coincidere con la privazione di autodeterminazone, soprattutto in ragione del fatto che la capacità contributiva è bassa e il pareggio di bilancio, rebus sic stantibus, è praticamente impossibile da raggiungere. E’ inaccettabile che la cosiddetta “clausola di supremazia” prevista dalla riforma, permetterà ad una Regione del Nord di decidere, ad esempio, se ospitare un sito di stoccaggio di score nucleari o opporsi, mentre la Calabria, la Campania, la Basilicata o la Puglia saranno costrette a diventare siti strategici nazionali e a subire esclusivamente le scelte dello Stato centrale. La riforma la guardo da Sud. Possiamo domandarci se è tutta sbagliata o se ci sono delle parti condivisibili, ma modificandola in questo modo diventa l’ennesimo trabocchetto anti-meridionale a danno dei nostri diritti.
Flavia Sorrentino

La sanità differenziata

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I sostenitori del “Sì” tra le argomentazioni adottate nella campagna referendaria, focalizzano l’attenzione sulle maggiori garanzie che deriverebbero in materia di salute, nel caso in cui la riforma dovesse divenire legge. Ma procediamo per ordine.
Con la Riforma del Titolo V, diversi sono stati i contenziosi tra Stato e Regioni. Le modifiche del 2001 hanno dato vita ad un Federalismo Fiscale non solidale ma asimmetrico; le regioni avrebbero dovuto colmare le diversità sul territorio e ledere gli ostacoli alla fruizione dei diritti.
Sarebbe stato compito del Fondo Perequativo, come quanto disposto dall’art. 119 della Costituzione, “rimuovere gli equilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti alla persona”, e tra questi, anche quello alla salute. Tale norma costituzionale non ha trovato applicazione, il fondo non è mai stato adeguatamente finanziato, i cittadini non si sono visti riconoscere un’uguaglianza dei servizi e delle prestazioni sanitarie, a prescindere dalla regione di appartenenza.
Un vizio originario contenuto nel Titolo V, a cui si è tentato di sopperire, con la Riforma Renzi- Boschi, aggirando il problema. L’attuale riforma che modifica l’articolo 117, non garantisce la fruizione del diritto equamente su tutto il territorio, non scioglie il nodo : con la Riforma non si inciderà sulle risorse, e quindi sul reale e originario problema; lo Stato determinerà solo i livelli essenziali. Come disciplina il 119 modificato: “Con legge dello Stato sono definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni”.
Compare sempre la parola “efficienza”, non equità, ergo, la prestazione e fruibilità dei servizi non dipenderà dai bisogni dei cittadini, ma sarà condizionata dalle risorse disponibili sul territorio.
La riforma costituzionale, ancora una volta, si rivela uno specchietto per le allodole, anche in materia di salute. Il binomio dicotomico regioni virtuose- inefficienti, segnerà una volta per tutte la costituzionalizzazione di una linea politica discriminante tra regioni ricche e regioni povere. La salvaguardia e la tutela dei diritti sociali escono pesantemente inficiati nella loro ragion d’essere; stiamo assistendo al dispiegamento di una riforma non perequativa ma discriminante, volta ad istituire una graduatoria tra cittadini meritevoli e no, sulla base di un criterio avente per ratio la ricchezza che sta a monte in ogni singola regione.
Carmen Altilia

La riforma costituzionale vista da SUD

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Ecco perché votereMO NO!

La chiamano “ Riforma delle riforme”, il proseguo di un cammino politico iniziato con ciò che  potrebbe essere definito  ‘presa al potere’ del Premier Matteo Renzi. Non esiste  espressione più adatta per la modalità  in cui Matteo Renzi è divenuto capo del Governo. Così, con un premier privo di un’ampia  base di consensi , sostenuto dai poteri forti nazionali, nominato da un parlamento scarsamente rappresentativo ed eletto attraverso una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale, il  giorno 4 dicembre saremo chiamati a esprimerci sulla riforma costituzionale.

Ma procediamo per piccoli passi,  e spieghiamo perché MO! Unione Mediterranea milita tra le file del NO.

In questi mesi siamo stati bombardati mediaticamente da parole come “semplificazione”, “risparmio”, “virtuose”, inserite all’interno di   un linguaggio creato per adattarsi al volere del potente di turno. Le false dichiarazioni e mezze verità, però,  facilmente possono essere smentite.

Si fa passare, ad esempio, il concetto di semplificazione legislativa come salvezza da tutti i mali del sistema parlamentare italiano. In realtà,  se  si semplifica  nel senso indicato dai sostenitori del sì, con la fine del bicameralismo perfetto,  si ridurranno soltanto i tempi per  controllare su cosa si sta legiferando.

Risparmio. Non verranno ridotti i costi della politica, poiché ad essere depennate saranno solamente le indennità, mentre ben sappiamo che le spese politiche gravose, dipendono soprattutto dalla gestione degli immobili, dei servizi, del personale. Il risparmio, tanto sbandierato da Renzi e i suoi,  è stato quantificato dalla Ragioneria di Stato in 50 milioni di Euro all’anno. Meno di un caffè annuale per ogni italiano. Per questa cifra irrisoria, tolgono un pezzo di democrazia: i senatori, che continueranno ad avere comunque una voce importante su determinate leggi, quali ad esempio quelle di conversione dei decreti europei, non saranno più eletti dal popolo, ma – non si sa bene come – saranno scelti tra consiglieri regionali e sindaci dei comuni capoluogo. Il risparmio che ci vendono è in realtà una contrazione di diritti democratici.

Ancora di più si perderanno contrappesi democratici se i deputati dell’unica Camera saranno eletti con un sistema come l’Italicum, in cui la rappresentanza viene del tutto svilita, mortificata, con un premio di maggioranza abnorme in un sistema tripolare quale è l’Italia e i capilista bloccati scelti dalle segreterie di partito. La semplificazione sbandierata dai sostenitori del sì sarà in realtà una maggiore concentrazione di potere in mano al capo del partito di maggioranza relativa (molto relativa) che sceglierà il 55% dei seggi con percentuali che potranno, al primo turno, essere anche inferiori al 30%, mentre al ballottaggio si correrà il rischio di avere un’altissima percentuale di astenuti, se a quelli oramai fisiologici delle democrazie occidentali si aggiungeranno gli elettori della forza politica arrivata terza al primo turno.

Bisogna inoltre sottolineare che tra le modifiche proposte vi è l’innalzamento del numero di firme necessario per presentare una legge di iniziativa popolare che passa da 50.000 a 150.000. Si conferma che l’iniziativa popolare è temuta e se ne triplica la soglia come se frenare uno strumento democratico fosse un bene. Diverso sarebbe stato se si fossero introdotti principi di democrazia diretta digitale con la possibilità di raccogliere le firme online in modo certificato. Una modifica di pari spirito riguarda i referendum: si abbassa il quorum per la loro validità a patto che le firme salgano da 500mila a 800mila.

L’impatto della riforma sui territori del mezzogiorno

MO! Unione Mediterranea, vuol però dare, con tale  documento, una panoramica da Sud. Quali quindi gli effetti che si presenteranno  come particolarmente dannosi per le regioni meridionali? In particolare cosa succederebbe se dovesse passare la riforma e quindi venisse approvata  la modifica del Titolo V della Carta Costituzionale?

La riforma, con la  modifica del titolo V della Costituzione, riporta tutta una serie di materie  sotto l’egida esclusiva dello Stato, e toglie la possibilità per le regioni di legiferare in autonomia su tali materie.
L’art. 116 del Titolo V, modificato tra l’altro da Calderoli, prevede la possibilità per le Regioni ”virtuose” di poter ancora legiferare su alcuni temi importanti.
Cosa significa in realtà “virtuose”? Virtuose significa ricche, nell’attuale vocabolario del linguaggio politico. Vengono infatti definite virtuose le regioni che riescono a raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio.

Di seguito uno specchietto riepilogativo delle materie di competenza.

Materie di competenza delle sole regioni “virtuose” Materie di competenza regionale Materie di competenza statale
• organizzazione della giustizia di pace;
• politiche sociali;
• istruzione;
• ordinamento scolastico;
• istruzione universitaria e ricerca scientifica e tecnologica;
• politiche attive del lavoro;
• istruzione e formazione professionale;
• commercio con l’estero;
• tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici;
• ambiente ed ecosistema;
• ordinamento sportivo;
• attività culturali e turismo;
• governo del territorio.
• rappresentanza delle minoranze linguistiche;
• pianificazione del territorio regionale e mobilità al
suo interno;
• dotazione infrastrutturale;
• programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali
• promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale;
• fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, servizi scolastici, di promozione
del diritto allo studio, anche
universitario;
• per quanto di interesse regionale, attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo, di regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica, nonché in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato.
• rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni;
• tutela e sicurezza del lavoro (per la parte non rientrante nelle politiche attive del lavoro);
• professioni;
• sostegno all’innovazione per i settori produttivi;
• tutela della salute;
• alimentazione;
• protezione civile;
• porti e aeroporti civili;
• grandi reti di trasporto e di navigazione;
• ordinamento della comunicazione;
• produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia;
• previdenza complementare e integrativa;
• coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
• casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale;
• enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Va notato che da questa ripartizione vanno escluse le regioni a Statuto Speciale che mantengono tutti i poteri a loro attribuiti.

Il problema che si pone per le regioni del mezzogiorno è che, dato l’impianto normativo in vigore e gli squilibri economici cui sono sottoposte, l’obiettivo del pareggio di bilancio non è raggiungibile se non privando i cittadini dei servizi sociali che spetterebbero loro di diritto.

Quali rischi corrono le regioni non virtuose? Pensiamo, ad esempio, al caso in cui il Governo si trovi costretto a scegliere un sito dove stoccare scorie radioattive di vecchie centrali nucleari dismesse: quale sito sceglierà? Quello di una regione ricca in pareggio di bilancio che avrà potuto legiferare in autonomia che sul proprio territorio non si stoccano scorie radioattive, o quello di una Regione povera che non avrà potuto farlo? Quali saranno i cittadini che avranno meno voce, meno autonomia di scelta?

Con tale riforma, dunque,  verrà attuato un regionalismo differenziato discriminante, ai danni di tutte le regioni del mezzogiorno ordinario che non avranno poteri decisionali in molti ambiti cruciali. Il nuovo testo modifica profondamente l’articolo 116 della costituzione definendo quindi 13 materie di competenza regionale differenziata disponendo quanto segue: le Regioni in equilibrio di bilancio tra entrate e spese avranno maggiore autonomia legislativa, per tutte le altre tali materie tornano ad essere di competenza esclusiva dello Stato. Un “regionalismo differenziato”,  cui traduzione in termini di colonialismo interno è semplice: le regioni più ricche, ovvero quelle del nord, avranno notevole potere decisionale anche su temi cruciali, per quelle più povere deciderà invece lo stato centrale..

Già di per sé riconoscere diritti differenti, seppure su base regionale, a cittadini che in teoria dovrebbero appartenere allo stesso stato, in base a criteri meramente economici, rappresenta un inaccettabile passo indietro rispetto al concetto stesso di civiltà giuridica, tuttavia la questione diventa paradossale se si considera che le regioni più ricche, quelle in cui le entrate tributarie sono maggiori, godono di tale status anche a spese del sud.

Basti pensare a tutte le  riforme che strutturalmente, giorno per giorno, sottraggono risorse al Mezzogiorno. Solo per citarne alcune: il trasferimento al nord della proprietà di quasi tutte le banche meridionali, iniziato con la legge Amato 218/1990, il federalismo energetico (D.Lgs. 185/2008), grazie al quale produciamo più energia di quella che consumiamo, ne smistiamo l’eccesso al Nord ed in cambio paghiamo bollette più salate. Negli ultimi 10 anni le regioni meridionali hanno dovuto, inoltre, sopportare la vergognosa applicazione del federalismo fiscale che con trucchi come gli 0 per gli asili nido (700 milioni sottratti ai comuni del sud), meno fondi alla sanità nelle regioni dove l’aspettativa di vita è più bassa, meno fondi per la manutenzione stradale dove ci sono più disoccupati…

La “Compartecipazione regionale all’IVA” è stata istituita col D.Lgs. 56 del 18 Febbraio 2000, recante disposizioni in materia di federalismo fiscale. All’articolo 2 si legge: “E’ istituita una compartecipazione delle regioni a statuto ordinario all’IVA.” Alle regioni va il 52,89% del gettito, come stabilito dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 18 Gennaio 2013, cui va aggiunta un’ulteriore quota del 2% che va ai comuni, in base al DPCM del 17 Giugno 2011.

La sottrazione di risorse fiscali è particolarmente rilevante se si considera che mediamente oltre il 90% dei prodotti acquistati nel Mezzogiorno provengono da aziende con sede al nord e che in base a dati Bankitalia (anno 2012), ben il 96% delle aziende settentrionali ha come mercato di riferimento la nostra terra. A ciò va aggiunto che se per quanto riguarda il cosiddetto carrello della spesa possiamo contare ancora su una seppur minima possibilità di scelta, per tutta una serie di servizi irrinunciabili siamo invece pressoché costretti a comprare da aziende con sede legale al nord, dato che Enel, Eni, Snam Gas, Poste Italiane e Trenitalia, ma anche banche, assicurazioni, Tv e compagnie telefoniche non hanno mai la sede legale più a sud di Roma. Il regionalismo differenziato è già di per sé aberrante, in quanto sembra riproporre  su base regionale l’arcaico concetto di partecipazione alla democrazia in base al censo, tuttavia letto nel quadro complessivo rappresentato da federalismo energetico e fiscale e dall’assetto proprietario di banche, assicurazioni, grande distribuzione e altre grandi aziende del paese, esso significa per il Mezzogiorno essere condannato alla condizione di colonia interna “per costituzione”.

Si consuma in tal modo il disegno monopolistico dei commissariamenti e delle ricette nord- centriste applicate ai territori meridionali, ciò che si cela dietro millantate applicazioni di meritocrazia amministrativa, coincide con l’interpretazione punitiva e non perequativa delle autonomie locali previste e disciplinate dalla Costituzione. Dopo 156 anni di mala unità, l’attuale governo, di fatto, sta tentando di costituzionalizzare il colonialismo interno.

Depauperamento di risorse, sfruttamento e differenzazione nella distribuzione di servizi socio-sanitari ci hanno messo in ginocchio con il volto chino di chi vien considerato inferiore dalla storia del passato e del presente; ora stanno cercando con ogni mezzo di non farci rialzare, di far affievolire l’impeto del riscatto.

Il 4 dicembre saremo chiamati ad esprime la scelta. Questa volta però l’astensionismo e la disinformazione potrebbero portare ad un esito rovinoso per il sud Italia; il voto dei cittadini viene contemplato dall’articolo 48 della Costituzione come un dovere civico, ma questo non basta. Il voto è in realtà, un potere, una delle poche forme di potere decisionale rimasteci .

AndiaMo a votare NO, consapevoli di quanto sia importante difendere le autonomie locali perché i nostri territori non si faranno governare senza tener conto della volontà delle popolazioni. VotiaMo No  per noi stessi e per la nostra terra,  per il   nostro diritto ad essere liberi ed a trascinare sul banco degli imputati le classi dirigenti corrotte dei partiti politici nazionali.

Perché la riforma Renzi-Boschi costituzionalizza il colonialismo interno

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di Flavia Sorrentino

Con la modifica della Carta Costituzionale numerose “materie concorrenti” tornano ad essere di competenza esclusiva dello Stato. Tra queste: ambiente, tecnologia, istruzione, gestione di porti e aeroporti, trasporti e navigazione, produzione e distribuzione dell’energia, politiche per l’occupazione, sicurezza sul lavoro, ordinamento delle professioni. Ciononostante, le Regioni più ricche, in equilibrio di bilancio tra entrate e spese, su tali materie avranno maggiore autonomia legislativa secondo il cosiddetto “regionalismo differenziato” con cui si attribuiscono formalmente per qualità e quantità poteri diversi alle regioni ordinarie (art.116). Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, potranno scegliere come proteggere il proprio patrimonio paesaggistico; se consentire trivellazioni; prenderanno decisioni proprie su come organizzare l’istruzione scolastica, il turismo, i rapporti commerciali con l’estero e così via. La Calabria invece, maglia nera di povertà tra le regioni italiane, su materie come energia, attività turistiche, tutela dell’ambiente, dipenderà in tutto e per tutto dalle scelte dello Stato Centrale.

Si consuma in tal modo il disegno monopolista dei commissariamenti e delle ricette nord-centriste applicate ai territori meridionali. Ciò che si cela dietro millantate applicazioni di meritocrazia amministrativa, coincide con l’interpretazione punitiva e non perequativa delle autonomie locali previste e disciplinate della Costituzione. La supremazia decisionista del potere politico di Roma è uno dei veri e più insidiosi pericoli di questa riforma. Non stupisce, ma deve far riflettere, il totale disinteresse degli organi di informazione sulla modifica del titolo V. Imbarazzante, il totale disinteresse dei politici meridionali di maggioranza e di opposizione, eterodiretti dai propri partiti di riferimento.

Le disquisizioni sul Senato delle Regioni, sul numero dei parlamentari o sul Cnel sono tutte interessanti, peccato che qui si stia decidendo altrove il futuro della parte più debole e sacrificata del paese. Sappiamo quanto ci sia da preoccuparsi quando l’Italia sceglie al posto nostro, ma soprattutto quanto sia importante difendere le autonomie locali in riferimento ad argomenti che non possono essere affrontati senza tener conto della volontà delle popolazioni e dei territori. Il 4 Dicembre andiamo a votare il potere di forza della nostra autodeterminazione. Sottovalutare questa occasione rappresenterebbe un peccato imperdonabile per chi vuole fare dell’autonomia la costruzione di un modello coraggioso di autogoverno, che metta al centro dei processi decisionali il volere del popolo sovrano, non solo con il fascino delle parole ma attraverso l’audacia e la forza concreta dei fatti.

Nuova Costituzione, qualche ciliegina e molta panna marcia

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Perché al referendum è necessario votare un secco NO

Con 49 articoli cambiati su 139 la  riforma della Costituzione firmata Renzi-Boschi è una vera e propria riscrittura della Carta  Costituzionale entrata in vigore nel 1948 e riformata in misura considerevole una prima volta nel 2001. Sul testo Renzi-Boschi, approvato dal Parlamento con numerosi emendamenti, sarà indispensabile il voto finale degli italiani, il quale si terrà nell’autunno 2016. Ci sono due precedenti di referendum su cambiamenti della Costituzione: nel 2001 gli elettori approvarono la riforma del Centrosinistra, che dava più poteri alle Regioni e introduceva il federalismo fiscale solidale; mentre nel 2006 fu bocciata quella scritta da Berlusconi e Bossi. Il referendum costituzionale, quindi, è un passaggio fondamentale e, visto che non è necessario il quorum perché la consultazione sia valida, ogni singolo voto può essere quello decisivo. Ecco perché informarsi è necessario. Proviamo a dividere l’analisi in quattro parti: quello che c’è di buono, quello che in apparenza è positivo ma in sostanza ha poco peso, quello che ci si poteva aspettare e non c’è, quello che c’è e appare dannoso in particolare per la nostra terra meridionale. In un referendum naturalmente la riforma va proposta o respinta in blocco, non è possibile pescare solo le parti che piacciono. A nostro parere la riforma appare una torta con tanta panna marcia e qualche ciliegina.

Quello che c’è di buono: le ciliegine

  • Camera e Senato non sono più un doppione.
  • Viene eliminato il Cnel, il Consiglio nazionale economia e lavoro.
  • C’è un tetto alla retribuzione dei consiglieri regionali.
  • C’è una valutazione preventiva di legittimità delle leggi elettorali.

Quello che appare positivo ma in sostanza pesa poco o funziona male:

  • La cancellazione della parola Provincia.
  • L’azzeramento dell’indennità dei senatori.
  • La semplificazione dell’iter legislativo.
  • La rappresentanza in Senato degli enti territoriali.

Quello che ci poteva essere e non c’è:

  • La riduzione del numero di deputati: restano 630.
  • L’accorpamento delle Regioni più piccole: restano 19 più due Province autonome.

Quello che appare dannoso, in particolare per il Sud:

  • Il meccanismo dei poteri differenziati per le Regioni: maggiori negli enti ricchi.
  • L’accentramento nelle mani del governo di poteri su materie delicate per le popolazioni e i territori, come l’energia e le trivellazioni.
  • L’aumento da 50mila a 150mila delle firme per una legge d’iniziativa popolare.

 

Entriamo nel dettaglio. Quello che c’è di buono.

 

Camera e Senato non sono più un doppione.

Solo la Camera vota la fiducia al governo e solo i deputati rappresentano la Nazione mentre i senatori rappresentano gli Enti territoriali. Si torna in pratica allo spirito originario della Costituzione che tendeva appunto a differenziare le funzioni. In particolare in origine il Senato restava in carica sei anni, quindi uno in più della Camera. Adesso il Senato diventa un organo a rinnovo parziale perché il rinnovo dei senatori è legato a quello delle Regioni, che non votano in modo simultaneo.

 

Viene eliminato il Cnel, il Consiglio nazionale economia e lavoro.

Il Cnel fu introdotto nella Costituzione per dare un ruolo alle rappresentanze sociali, tuttavia la funzione del Cnel è stata sempre residuale – studi, pareri, qualche proposta di legge –  a fronte di costi non trascurabili: 19 milioni l’anno. Il personale del Cnel viene ricollocato presso la Corte dei Conti.

 

C’è un tetto alla retribuzione dei consiglieri regionali.

Non potranno guadagnare più del sindaco del Comune capoluogo di Regione. Oggi le indennità sono agganciate a quelle dei parlamentari. In pratica la retribuzione dei consiglieri regionali viene dimezzata.

 

C’è una valutazione preventiva di legittimità delle leggi elettorali.

Non sarà più possibile approvare una legge Porcellum. La riforma si applica all’Italicum, che riproduce le candidature bloccate per tutti i capilista, se ci sarà la richiesta di un quarto dei deputati o di un terzo dei senatori.

 

Quello che appare positivo ma in sostanza pesa poco o funziona male

 

La cancellazione della parola Provincia.

Nel nuovo articolo 114 si elencano gli enti costitutivi della Repubblica: Regioni, Comuni e Città metropolitane. Sparisce la parola Provincia ma, in riferimento alle loro funzioni, si parla di “enti di area vasta”. Per cui la sostanza non cambia. Va sottolineato che le Città metropolitane, nonostante la conferma del riconoscimento istituzionale, sono escluse dalla rappresentanza nel nuovo Senato.

 

L’azzeramento dell’indennità dei senatori.

In tempi di antipolitica sembra che ogni centesimo dato a un politico sia denaro buttato. In realtà un politico a reddito molto basso o addirittura zero è una persona che vive di qualcos’altro. Per i senatori sarebbe stato corretto che non cumulassero le indennità di sindaco o di consigliere regionale con quella appunto di senatore, stabilendo un tetto massimo. La scelta della indennità zero porterà all’assurdo di senatori pagati poche centinaia di euro al mese (come i sindaci di piccoli comuni, che pure dovranno essere rappresentati) fino alla vergogna di senatori di nomina presidenziale in carica sette anni a indennità zero. Si dirà che il presidente della Repubblica è tenuto a nominare persone che hanno dato lustro al paese e che quindi si presume abbiano un reddito elevato. Ma perché si deve associare sempre la qualità delle persone al proprio reddito? Alex Zanotelli è una persona di straordinarie qualità: se come merita sarà nominato senatore dovrà pagarsi ogni volta il treno per Roma e l’albergo?

 

La semplificazione dell’iter legislativo.

Non è vero che le leggi di interesse generale sono approvate solo dalla Camera, senza più il doppio passaggio parlamentare. Il Senato infatti su qualsiasi materia può chiedere (basta un terzo dei componenti) di esaminare i disegni di legge approvati dalla Camera e fare entro 30 giorni le sue proposte di modifica, che la Camera è tenuta a discutere, approvare o respingere. In pratica si replica quanto accade già oggi con i passaggi parlamentari che sono di fatto ricondotti a tre: prima approvazione alla Camera o al Senato, approvazione con modifiche dall’altro ramo del parlamento, terza lettura e approvazione definitiva senza modifiche. L’unica novità è che adesso sarebbe obbligatorio partire dalla Camera e che le modifiche introdotte dal Senato non sarebbero vincolanti.

 

La rappresentanza in Senato degli enti territoriali.

Il Senato è ridotto da 315 a 95 membri (più cinque senatori di nomina presidenziale, non più a vita ma con incarico settennale). I senatori non hanno più indennità parlamentare. Il Senato ha il potere di approvare alcune tipologie di leggi (in concorso con la Camera), di svolgere funzioni di raccordo tra lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni nonché di verificare l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Tuttavia il Senato è monco nella rappresentanza (non sono previsti rappresentanti delle Città metropolitane ma solo di Regioni – 74 senatori – e Comuni – 21 senatori) e non ha il potere di “controllo sull’operato del governo”, che è funzione attribuita alla sola Camera dei deputati. Il suo potere legislativo limitato a poche materie tra le quali sono incredibilmente escluse alcune delicatissime proprio per i territori: la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale (art. 117), i tributi locali, il fondo di perequazione, i costi e fabbisogni degli enti locali (art. 119). In pratica il governo con la “sua” maggioranza alla Camera può approvare leggi di immediato interesse per Regioni, Comuni e Città metropolitane senza che il Senato, dove questi enti sono rappresentati, abbia potere legislativo.

 

Quello che ci poteva essere e non c’è

 

La riduzione del numero di deputati: restano 630.

Nella campagna elettorale delle primarie, un manifesto di Matteo Renzi prometteva: “se vince Renzi dimezziamo i parlamentari”.

 

L’accorpamento delle Regioni più piccole: restano 19 più due Province autonome.

La frammentazione del mezzogiorno è tra le cause della sua debolezza.

 

Quello che appare dannoso, in particolare per il Sud

 

Il meccanismo dei poteri differenziati per le Regioni: maggiori negli enti ricchi.

Con il nuovo articolo 116 si specifica che solo le Regioni in equilibrio tra entrate e spese del proprio bilancio (quindi sono favorite le Regioni ricche, che hanno entrate proprie maggiori) possono ottenere maggiori poteri legislativi su materie non secondarie quali: istruzione, ordinamento scolastico, istruzione universitaria; programmazione strategica della ricerca e tecnologica; politiche attive del lavoro e istruzione e formazione professionale; commercio con l’estero; beni culturali e paesaggistici; ambiente e ecosistema; ordinamento sportivo; attività culturali; turismo; governo del territorio. In pratica la Lombardia e il Veneto potranno avere proprie leggi sul commercio con l’estero, potranno tutelare il proprio ambiente dalle trivellazioni, potranno organizzare l’istruzione anche superiore nell’interesse dei soli residenti mentre Campania, Puglia e Calabria dipenderanno in tutto e per tutto dalle volontà del governo centrale. Nella ripartizione delle materie ci sono aspetti curiosi per esempio sul turismo. La nuova Costituzione attribuisce allo Stato le “disposizioni generali e comuni sul turismo” e alle Regioni quelle “di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo”. Ma una Regione che si avvale dei maggiori poteri in materia di turismo cosa potrà fare di più senza entrare in conflitto con lo Stato o con le altre Regioni?

 

L’accentramento nelle mani del governo di poteri su materie delicate per le popolazioni e i territori, come l’energia e le trivellazioni.

Con la Costituzione in vigore le Regioni perdono poteri su materie delicate per i territori come l’energia. Produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia diventano infatti di competenza esclusiva dello Stato, così come i porti e gli aeroporti. Le Regioni ricche potranno recuperare i poteri attuali grazie al “regionalismo differenziato” (si chiama proprio così). Le popolazioni dei territori “differentemente ricchi” invece non potranno metter becco su questioni delicate come lo sfruttamento energetico: trivellazioni, gasdotti, centrali a carbone. L’ambiente non è più nelle mani delle popolazioni locali.

 

L’aumento da 50mila a 150mila delle firme per una legge d’iniziativa popolare.

A conferma che l’iniziativa popolare è temuta, si triplica la soglia come se frenare uno strumento democratico fosse un bene. Diverso sarebbe stato se si fossero introdotti principi di e-democracy con la possibilità di raccogliere le firme online in modo certificato. Una modifica di pari spirito riguarda i referendum: si abbassa il quorum per la loro validità a patto che le firme salgano da 500mila a 800mila.

Consegnati i quesiti referendari contro le trivellazioni

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I quesiti referendari contro le trivellazioni, sostenuti e condivisi anche da Unione Mediterranea sono stati depositati questa mattina 30 settembre alla Corte di Cassazione a Roma  da una delegazione composta dai rappresentanti delle 10 Regioni di Italia che hanno detto NO alla trivellazione selvaggia lungo le nostre coste ed alla delegittimazione degli enti territoriali in tema energetico. La delegazione è stata accompagnata dal costituzionalista Enzo di Salvatore che ha lavorato alla stesure dei quesiti referendari. Ad aver votato all’unanimità la delibera referendaria sono state la Basilicata, la Puglia, Marche, Molise, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria ed infine la Campania e la Liguria, nelle delibere con le quali viene chiesto il referendum riguardano nello specifico l’abrogazione di una parte dell’articolo 38 del decreto “Sblocca Italia” che ridà potere decisionale alle Regioni in tema di energia e dell’articolo 35 del Decreto Sviluppo, perché venga esteso all’interno delle 12 miglia dalle coste di tutta Italia il divieto di trivellazioni, senza alcuna eccezione. Entro un mese circa dovrà pronunciarsi la Corte di Cassazione per la regolarità dei quesiti ed entro il 10 febbraio la Corte Costituzionale per l’ammissibilità degli stessi. I territori hanno quindi deciso di riprendersi la possibilità di decidere delle proprie sorti e di dare voce ai  cittadini contro gli strapoteri dei Governi e elle multinazionali del petrolio. Si apre quindi fin da subito una campagna referendaria che ci vedrà protagonisti con iniziative volte alla sensibilizzazione su temi difficili ed estremamente importanti.

Nelle delibere sono contenuti i 6 quesiti: rispettivamente, un quesito unico (sull’art. 35 del decreto sviluppo) e cinque quesiti (tre sullo Sblocca Italia, uno sul decreto semplificazioni del 2012 e uno sulla legge n. 239 del 2004, che allo Sblocca Italia comunque si ricollegano).

I quesiti quindi interesserebbero tutte le Regioni, pertanto dovrebbero esserci ampi margini di possibilità di raggiungere il quorum, considerato che si dovrebbe fare anche il referendum confermativo per la riforma della Costituzione, come previsto dalla normativa.

Rosella Cerra

Responsabile Ambiente UM per la Calabria

In foto la delegazione che la mattina del 30  settembre ha depositato alla Corte di CAssazione i quesiti referendari.

In foto la delegazione che la mattina del 30 settembre ha depositato alla Corte di CAssazione i quesiti referendari.