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Governo Gentiloni: perchè non cambia niente per il Sud.

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Di Flavia Sorrentino

Che il neo governo di Paolo Gentiloni abbia un Ministro ad hoc per il Mezzogiorno, il professore Claudio De Vincenti, già sottosegretario di Stato, non basta a rassicurare i cittadini meridionali che il 4 Dicembre hanno sonoramente bocciato la riforma costituzionale, divenuta per l’eccessiva personalizzazione, un banco di prova e fiducia popolare verso l’operato politico dell’esecutivo Renzi. Il nuovo governo infatti, è di fatto un Renzi-bis che conferma 12 ministri su 18 incaricati e addirittura promuove ai piani alti di Palazzo Chigi Maria Elena Boschi, che pur declamandosi esempio di classe dirigente non attaccata alla poltrona, ha accettato senza riserve il prestigioso ruolo di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio sacrificando la coerenza sull’altare dell’arroganza: il cortocircuito di chi si definisce rottamatore e si rivela restauratore. Due sono invece le new entry tra i Ministri a capo di un dicastero, Marco Minniti subentrato ad Angelino Alfano andato agli Esteri e Valeria Fedeli che prende il ruolo di Stefania Giannini, sostituita dopo i risultati della “Buona Scuola.”

Per il resto vengono riconfermati tutti: Orlando alla Giustizia, Pinotti alla Difesa, Padoan all’Economia, Calenda allo Sviluppo economico, Martina all’Agricoltura, Galletti all’Ambiente, Poletti al Lavoro, Franceschini alla Cultura, Lorenzin alla Salute e Delrio alle Infrastrutture. Cosa debba aspettarsi di diverso il Sud dalla squadra di Governo che in tre anni ha aggravato pesantemente le differenze territoriali nel paese, è la domanda a cui dobbiamo realisticamente provare a rispondere. Cambierà forse la legge leghista sulla sanità che assegna meno fondi alle Regioni in cui l’aspettativa di vita media è più bassa? Il ministro della Salute resta Beatrice Lorenzin che definisce i morti di cancro nella terra dei fuochi il risultato dei cattivi stili di vita in Campania e non la conseguenza di decenni di criminale affarismo politico-imprenditoriale irrobustito da indifferenza ed accondiscendenza di Stato. Resta al suo posto anche Graziano Delrio, che sarà ricordato dai posteri per aver rinviato ai “prossimi riparti” le storture sul calcolo dei fabbisogni standard della rete di servizi Welfare del Mezzogiorno (asili nido ed Istruzione) e per non aver investito nelle infrastrutture ferroviarie per colpa delle rocce al Sud.

L’esecutivo Gentiloni è lo stesso delle soglie di povertà calcolate in modo che risultassero più alte nel settentrione d’Italia, riservando il 45% dei sussidi al meridione e il 55% dei sussidi al Nord; è il governo dei 7 miliardi e 5 milioni al centro-nord e 4 milioni al sud per i progetti europei fino al 2020; è il governo dei voucher e dei 2 miliardi di euro del Sud del Piano di Azione e Coesione utilizzati per incoraggiare 536.000 nuove assunzioni al Nord, mentre i dati Istat sulla povertà, l’esclusione sociale e la disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno raggelano il sangue per drammaticità e continuità nel tempo. 

Ma questa volta-si dirà- è stato incaricato un Ministro senza portafoglio (ma dai!) per affrontare la questione meridionale, di matrice risorgimentale, mai risolta. A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina: il Sud che comincia a reagire e ha votato in maggioranza per il NO al referendum, se non può essere fermato quanto meno deve essere imbonito, lusingato e controllato. Così Claudio De Vincenti, che fino a ieri ha partecipato a tutti i tavoli di concertazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e quindi alle decisioni discriminatorie contro il Sud, è diventato la garanzia e la promessa per la ripresa e lo sviluppo meridionale. “Il nostro Paese-ha dichiarato- ha bisogno per il suo sviluppo che il Mezzogiorno prenda in mano il suo destino e dia il suo contributo.”

Quale altro contributo? C’è da chiedersi. Quanti contributi deve ancora dare la colonia Sud prima di vedersi riconosciuti giustizia sociale, dignità lavorativa, pari diritti, condizioni ed opportunità? Un territorio con grandi sacche di disoccupazione può competere e crescere solo se le politiche di governo sono concentrate sulla definizione di una strategia di sviluppo strutturale (che preveda magari una fiscalità di vantaggio per le imprese che investono e assumono al Sud) e sull’adeguata ripartizione dei finanziamenti. Invece per dirne un’altra, il governo Renzi ha ridotto ad un terzo la programmazione dei fondi europei 2014-2020 in Campania, Puglia e Sicilia e ha utilizzato il reddito delle famiglie come indicatore di “merito” per stabilire tetti al turnover dei docenti universitari, favorendo di fatto lo spostamento di 700 ricercatori al Nord e un calo di iscrizioni negli atenei del Sud. De Vincenti questo lo sa, c’era anche lui quando drenavano risorse favorendo emigrazione e desertificazione industriale. Ed era sempre lui ad affermare che «non è scontato che sia un bene introdurre una decontribuzione differenziata ad hoc per il Mezzogiorno» così come era lui a definire <<strumentalizzazioni per coprire l’inadeguatezza del servizio sanitario pugliese>> le proteste dei tarantini dopo dietrofront del governo sui 50 milioni di euro da destinare ai bambini vittime del mostro Ilva tenuto in piedi a colpi di decreti di Stato.

Ci dicono che dobbiamo rimboccarci le maniche, ma ci fendono le braccia. Dobbiamo imparare a correre e ci spezzano le gambe. Smettetela con questo vittimismo, dicono i carnefici. Eppure su una cosa hanno ragione: dobbiamo cogliere ancora di più e con più convinzione l’invito a fare bene da soli, in autonomia. Per il Sud imperversano tempi bui e di peggiori se ne prospettano se non sapremo cogliere la richiesta di rappresentanza che viene dai territori e delle fasce più deboli della società. Tutta la sfiducia e la refrattarietà alle promesse dei partiti italiani, compresi quelli di opposizione che ora fanno la voce grossa ma in Parlamento si adeguano per fregare il Sud, è emersa con il voto sulla riforma Costituzionale. La Carta Costituzionale è salva, per niente lo sono i diritti che contiene. A partire dall’equità e dall’ uguaglianza che per troppo tempo ci sono apparse come concessioni straordinarie e che ora dobbiamo rivendicare come espressione di ritrovato orgoglio e dignità.

 

 

Botricello (CZ) – Noi ci unimmo per lottare per respingere l’attacco del padrone

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La soddisfazione che il circolo Unione Mediterranea – A. Scopelliti  – manifesta per il risultato referendario la esprime non solo  citando questo breve ma significativo passo della nota canzone di Bertoli ma soprattutto dicendo GRAZIE a chi ha sposato da subito la causa del No al referendum sulla Costituzione. Grazie a chi ha meditato e nel corso della discussione ha deciso per il NO. Grazie a chi ha scelto all’ultimo minuto la strada del NO
Grazie al nostro paese Botricello e alla Calabria
Partendo dal nostro circolo, plauso e frutti raccolti anche grazie all’unica manifestazione pro No ad opera dello stesso che ha visto la partecipazione nella discussione dell’ On. Nico Stumpo  (Pd per il No), della Dott.ssa Emanuela Altilia (Fondazione della libertà e del bene comune), dell’Avv. Salvatore Iannone ( società civile), del Sig, Giuseppe Marino (circolo UM) e di Franco Falbo coordinatore del circolo stesso.
Le nostre riflessione a caldo:
a Botricello, il NO ha superato la media nazionale attestandosi al 67.88% (dati Viminale)
– il risultato schiacciante del No assume valenza politica a livello comunale perchè con tale vittoria si è voluto anche penalizzare fortemente i due schieramenti politici locali quasi tutti per il Si
– la nomenclatura politica locale è stata di fatto surclassata dal voto libero dei cittadini che hanno responsabilmente detto NO
– da ultimo e non per importanza e considerando tale risultato non un punto di arrivo ma  un punto di partenza , ci proponiamo di continuare come circolo UM, su questa strada di opera politica e civile al fine di confermare e rafforzare tale risultato nel futuro prossimo del nostro paese.
Grazie

Voti No? Sei populista

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Nel torpore di una notte troppo breve passata a seguire exit poll e proiezioni, sono inavvertitamente passato davanti allo specchio. Non saprei descrivere il fastidio che ho provato nel rendermi conto conto che lì, a pochi centimetri da me, si trovava l’immagine di qualcuno che, senza possibilità di errore, rifletteva in tutto e per tutto i caratteri morfologici del populista.

Accendo il computer, ricontrollo i dati. Non c’è dubbio: i populisti hanno vinto il referendum con percentuali di 60 a 40 a livello nazionale, e addirittura 70 a 30 nelle principali regioni del Sud (poco oltre il 70 per il No in Sicilia e Sardegna).

Perché è chiaro che io, in quanto votante per il No, come del resto altri 19 milioni di cittadini italiani, sono un populista.

Questo, almeno, è stato uno degli argomenti forti della campagna per il Sì: “Non votate No, perché Salvini e Grillo votano No. Grillo e Salvini sono populisti. Quindi chi vota No è populista”. Ogni tanto si aggiungeva, in ambienti di sinistra filogovernativa, che anche Casapound aveva dato indicazioni per il No, e che quindi qualcuno che si professasse di sinistra avrebbe dovuto votare Sì. Argomento che ricorda la battuta secondo cui, poiché Hitler aveva un naso, allora chi era contro Hitler non poteva avere un naso, altrimenti sarebbe stato come Hitler.

Una trovata geniale, quella dell’argumentum ad personam contro Grillo e Salvini, che però si è rivoltata contro chi l’aveva partorita, ermettendo ai due personaggi di avere un risalto mediatico molto maggiore del dovuto. Grillo e Salvini, per inciso, ringraziano: oggi, approfittando dell’assist fornito dalla campagna per il Sì, si dichiarano i vincitori assoluti del referendum. È un circolo vizioso che quasi nessuno sembra interessato a spezzare: del resto ci guadagnano tanto il PD, che in qualche modo può appellarsi al populismo innato della maggioranza italiani per giustificare la sconfitta, tanto Lega e M5S, che avranno per un po’ gli onori della cronaca.

Solo che in questa narrativa c’è un problema. E il problema – serio – nasce dal fatto che, oltre ai 5 Stelle e alla Lega, un buon numero di altri movimenti e partiti, fosse per il No. Lo siamo stati noi di MO; lo è stata tutta la sinistra a sinistra del PD – e anche la sinistra interna al PD; lo è stato la già citata destra sociale. Lo è stato il centrodestra berlusconiano. Del resto l’aveva riconosciuto lo stesso (ormai ex) premier, quando aveva parlato di un’ ‘accozzaglia’ per definire la schiera di istanze politiche contro cui si sarebbe dovuto battere. Un’accozzaglia irriducibile ai due spauracchi populisti. Qualcuno ha fatto menzione di quest’accozzaglia? Sì, ma con scarso risalto mediatico. Del resto, dati Agcom alla mano, è evidente in che direzione siano andati i media televisivi durante la campagna. Eppure diversi osservatori esteri hanno ben chiaro che molti di coloro che hanno votato No non hanno nulla a che fare né con Salvini né con Grillo, e che non li voterebbero in caso di elezioni politiche, come sottolinea per esempio il britannico The Guardian.

Sembra quasi superfluo ricordare – ma, alla luce di quanto detto, giova invece farlo – che, in primo luogo, gli argomenti in favore del No sono stati molto più variegati e complessi di quanto la campagna per il Sì abbia tentato di far credere (altri articoli su questo blog li hanno esaminati a dovere). E che in secondo luogo noi, in quanto meridionalisti, molto difficilmente potremmo condividere le basi ideologiche della posizione di un Salvini, che dichiara come suo primo nemico il Meridione.

Ma al di là dei programmi ideologici, uno sguardo ai dati mostra per esempio come a Napoli, tutt’altro che una roccaforte leghista o pentastellata, le percentuali di No abbiano raggiunto livelli di molto al di sopra della media nazionale. Idem dicasi per Bari, Palermo (anche se, nel caso della Sicilia, va detto che il M5S locale è uno dei più agguerriti a livello nazionale) e Cagliari. Un altro dato interessante? Nella Parma fiore all’occhiello dei 5 Stelle e del sindaco pentastellato Pizzarotti, ha vinto il Sì (i dati disaggregati comune per comune li trovate qui).

La risposta alla domanda se la modalità comunicativa della campagna per il Sì abbia pagato è sotto gli occhi di tutti. La strategia deliberata di riduzione della complessità discorsiva (voti No  sei un populista), al fine di costruire dei facili uomini di paglia contro i quali focalizzare l’attenzione degli elettori, è stata devastante per il Sì. E, a dirla tutta, non ha neanche denotato una grande onestà intellettuale. Nonostante la presunzione di cavalcare il caro vecchio sistema clientelare tricolore, guardando i risultati, è stata una strategia che non sembra aver influenzato minimamente il voto degli elettori meridionali. Forse le fritture di pesce sono diventate indigeste.

di Roberto Cantoni

Analisi meridionale del referendum

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Il risultato del referendum costituzionale è inequivocabile: è no, e a dirlo con più forza sono coloro che hanno pagato in misura maggiore i danni provocati dalle scelte fallimentari del mai passato per le urne governo Renzi. Dice no la fascia più giovane degli elettori, quella dai 18 ai 34 anni, dove l’opposizione al quesito raggiunge la soglia plebiscitaria dell’81%: è evidente che la mancata crescita, il fallimento del Jobs Act e l’aumento dell’emigrazione sia interna che verso l’estero, tanto per citare alcuni tra gli esempi più eclatanti, non hanno giovato molto alle pretese di grandezza del guitto fiorentino.

Dice no il Sud, con un risultato che si attesta mediamente intorno al 70%, ovvero dieci punti percentuali ed oltre rispetto a quanto fatto registrare nelle regioni del centro – nord, ed è fin troppo facile ricordare che stiamo parlando di uno dei governi, quello del duo Renzi – Delrio, più antimeridionale di sempre, a partire dagli investimenti nelle infrastrutture destinati in percentuali bulgare al settentrione e passando per lo svilimento dei diritti sociali, della sanità e delle università del Mezzogiorno. Sembrava difficile far passare la denuncia del regionalismo differenziato, ovvero la nostra terra colonia interna per costituzione, nel marasma della propaganda nazionale, e tuttavia se si analizzano i risultati di alcune realtà come Taranto o Napoli viene anche da pensare che alcuni errori madornali, commessi a ridosso della tornata consultiva, come i 50 milioni per il caso ILVA scomparsi nel nulla oppure i 308 milioni per Napoli spacciati per panacea di tutti i mali, salvo poi destinarne più del doppio alla città metropolitana di Firenze, che ha un terzo dei residenti rispetto ala realtà partenopea, abbiano contribuito a scavare la fossa al premier uscente.

Accanto alla questione dell’articolo 116 ve ne era un’altra non meno importante, ovvero quella dell’articolo 117 e della subordinazione della carta costituzionale ai vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea, cosa che avrebbe aperto la strada a due tasselli fondamentali dell’agenda neoliberista, ossia unione bancaria e armonizzazione fiscale. Non è in discussione la geografia o l’antropologia, ovvero l’Europa e i suoi popoli, ma l’impianto ultra-neoliberista dei trattati europei che si traduce in una serie di sigle per lo più ignorate dalla stampa ufficiale, come TTIP, CETA, MES, ma la cui interpretazione è alquanto semplice: favorire gli interessi di grandi banche e multinazionali. Quando tali direttive si trasformano in scelte concrete, diventano altrettanti rulli compressori contro qualsivoglia velleità di autonomia, identità e realtà economiche locali, basti pensare agli agrumi siciliani o all’olio pugliese sacrificati sull’altare di accordi internazionali che non hanno tenuto in alcun conto le esigenze e le specificità del Mezzogiorno.
Tornando al risultato referendario nella nostra terra, è abbastanza evidente che esso è la risultante di diverse componenti che si sono ritrovate assieme contro ciò che è stato di comune accordo percepito come minaccia: si va dalle associazioni e gruppi presenti sul territorio alle varie anime del pensiero meridionalista, passando per gli attivisti pentastellati e l’esperienza di Napoli Autonoma e DEMA fino ad autentici “picchi”, come la spaccature tutta interna al Pd, ovvero la netta contrapposizione tra De Luca e Emiliano, oppure l’inaspettato “outing” di Caldoro.

In sostanza è evidente che anche esponenti politici non chiaramente ascrivibili alla corrente meridionalista o facenti parte di partiti nazionali sono stati costretti dalla forza dei fatti, dall’innegabile trattamento da colonia interna della nostra terra e dalla minaccia rappresentata dal regionalismo differenziato (ossia la perdita di autonomia in base a quanto si è più o meno ricchi), a portare avanti battaglie meridionaliste o ad assumerne almeno in parte il linguaggio e la chiave di lettura.

Il dato politico è abbastanza chiaro: siamo stati capaci di dire cosa non vogliamo, adesso il punto per il mondo meridionalista è avere progetti, proposte ed organizzazione per dire, ed anche per pretendere, ciò che vogliamo. L’altro aspetto interessante della questione sarà osservare fino a che punto gli esponenti dei partiti tradizionali potranno ancora provare a conciliare gli interessi della propria terra con le direttive padanocentriche dei gruppi politici di riferimento, oppure se si raggiungerà un “punto di non ritorno”, al di là del quale le priorità dell’agenda politica saranno dettate dagli interessi del Mezzogiorno. In sintesi questa è la sfida per l’immediato futuro, anche se almeno per le prossime ore è cosa buona e giusta concedersi il lusso di godersi questo scampato pericolo per la nostra terra.

Il rottamatore è stato rottamato…dal Sud.

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Il popolo ha rifiutato nel merito una riforma pasticciata e neo centralista, un rifiuto politico che delegittima il governo più anti-meridionale di sempre. Il rottamatore è stato rottamato. Soprattutto al Sud con picchi di sfiducia nelle isole. La Sicilia e la Sardegna si attestano capitali del NO insieme alla Campania. In Calabria, Puglia e Basilicata le percentuali superano il 65% e la provincia di Napoli raggiunge punte del 70%. Il No ha vinto ovunque tranne che in Toscana, Emilia Romagna e nella provincia autonoma di Bolzano.

La risposta negativa al Sud è stata netta e ha fatto la differenza. Solo chi è legato o orientato dai partiti nazionali può affermare che questo risultato non rappresenti un segnale di grande insofferenza sociale verso politiche discriminatorie e nord-centriste che hanno condannato, mai come in questi anni, i territori meridionali a subalternità politica ed economica. L’esecutivo Renzi ha sbagliato tutto con il Mezzogiorno: non accorgersene riduce la dialettica politica contingente ad una versione di favore di chi non non tiene conto (o non sa interpretare) il sentimento di rabbia e ribellione che sta montando al Sud.

In questi anni di attività legislativa il Governo ha incrementato profondamente le differenze tra Nord e Sud, provando finanche ad introdurle in Costituzione con la riforma appena bocciata dagli elettori. Stiamo al merito:

-Nell’aggiornamento del contratto di programma 2012-2016 con le Ferrovie grazie alle risorse della legge Stabilità 2015 e dello Sblocca Italia, il governo ha previsto investimenti per 8.971 milioni. Destinati al Sud solo 474 milioni, al Nord tutto il resto (8.497 milioni).

-Per finanziare l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, sono state drenate risorse dai bilanci dei Ministeri, per complessivi 700 Milioni, ma soprattutto dai fondi che le Regioni avrebbero dovuto spendere in base al Piano di azione e Coesione che gestisce gli stanziamenti europei. ll bonus fiscale, che ha reso possibile le assunzioni, si è configurato come un massiccio trasferimento di risorse dal Sud al Nord del Paese. Quasi 2 Miliardi di euro sono stati prelevati in Campania, Sicilia, Puglia e Calabria che sono serviti ad incentivare circa 538mila nuovi contratti di lavoro nelle regioni del Nord e 255mila in quelle del Centro.

-Il piano “Connecting Europe Facility“ (Meccanismo per collegare l’Europa), contenuto in un allegato al DEF 2015 contiene 7 miliardi e 9 milioni di euro per i progetti UE fino al 2020. Ecco come sono stati ripartiti: 7 miliardi e 5 milioni al centro-nord e 4 milioni al sud. L’Italia investe al sud lo 0,05% e al centro-nord il 99,95%.

-Il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) ha previsto investimenti per 2 miliardi di euro solo al Nord. In particolare ha finanziato l’ultima tranche del MOSE per 1.2 miliardi; ha contribuito allo sblocco di opere infrastrutturali, interventi di bonifica e reindustrializzazione a Piombino e Fidenza; finanziato i contratti di filiera nel settore agricolo per 130 milioni e i progetti di sviluppo e promozione economica per i territori per un totale di 21 mln euro. Il governo inoltre ha varato un piano complessivo per il Made in Italy di 260 milioni di euro. Interessate le sole città di Milano, Firenze e Roma. Zero al Sud.

-Il governo, limitatamente ai fondi nazionali destinati al Sud e ai fondi regionali di Campania, Calabria e Sicilia, ha ridotto a un terzo il cofinanziamento italiano dei fondi europei 2014-2020. Le tre regioni meridionali hanno perso complessivamente 7,4 miliardi di euro di investimenti.

Soglie di povertà assoluta: il governo le ha calcolate in modo che risultassero più alte nel settentrione d’Italia riservando il 45% dei sussidi al Sud e il 55% dei sussidi al Nord. In tal modo è stata esaudita la richiesta delle soglie territoriali previste dalla Lega Nord nel 2005.

-Le formule sui fabbisogni standard sono state tutte pensate in modo da danneggiare i Comuni del Mezzogiorno. In particolare, per gli asili nido e l’istruzione sono stati dirottati 700 milioni di euro dal Sud al Nord. Le risorse sono state ripartite sul calcolo della spesa storica senza tenere conto dei livelli di prestazioni sociali omogenei sul territorio nazionale.

Sulla sanità sono stati attuati parametri di assegnazione dei fondi togliendo risorse ai territori meridionali dove la speranza di vita è più bassa. Il blocco del turnover nelle Università è stato intensificato al Sud poichè il merito degli atenei è stato calcolato sui redditi delle famiglie, più alti al Nord. Inoltre, per finanziare le strade provinciali e le città metropolitane è stato inserito tra i parametri il numero di occupati sul territorio, il quale è notoriamente più alto nelle zone ricche.

-Nel «Piano strategico nazionale della portualità e della logistica» in vista del raddoppio del Canale di Suez, il governo ha solo annunciato la necessità di creare le condizioni per il transito di treni porta container da 750 metri in su per i porti di Gioia Tauro, Taranto e Napoli-Salerno. Ma nessun  investimento è stato previsto a sud di Livorno entro il 2020. Diversa sorte per il traffico merci su ferro che coinvolge Genova, i porti del Nord Adriatico e il tratto Torino-Trieste.

Tra i governi più anti-meridionali della storia quello di Matteo Renzi gareggia per il primo posto, insieme ad opposizioni fantasma in Parlamento che a parte qualche colpo di tosse per facile reperimento del consenso a scadenza elettorale, non hanno saputo difendere nè contrastare il compimento e l’evoluzione trasversale del disegno leghista riassunto nello slogan “Prima il Nord“.

Il referendum costituzionale era il banco di prova per il futuro indirizzo politico del Governo. Il SI lo avrebbe reso imbattibile ed incontrastabile; il NO lo ha esautorato.

La Costituzione non può mai essere uno strumento di affermazione del potere nè un’arma di ricatto sociale. Chi è in grado di attuarla ora che il popolo si è pronunciato? Il dopo Renzi è quasi più temibile di Renzi se si osserva il panorama partitico italiano.

Il voto del 4 Dicembre segna il punto di partenza di un nuovo protagonismo collettivo in grado di rimettere al centro dei processi decisionali gli interessi delle persone e dei territori, la loro autodeterminazione e sovranità. Se c’è ancora una speranza, coincide con una visione meridiana del cambiamento, fatta di donne e uomini liberi proiettati in direzione ostinata e contraria alla deriva leghista, populista e corrotta dell’Italia di ieri e di oggi.

Il riconoscimento dei diritti della nostra terra è lotta popolare per la dignità. Attenzione perciò a non accostare o sminuire il segnale politico di resistenza che arriva dai territori meridionali alla vittoria di propaganda dei partiti nazionali: la battuta d’arresto del Governo è risposta di riscatto e autonomia dopo decenni di umiliazioni e depauperamenti.

Flavia Sorrentino

Il NO vince e stravince solo grazie al sud che s’è svegliato e mette l’Italia sull’attenti

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La ripartizione territoriale del voto è da farsi meglio, ma una cosa appare chiara e inequivocabile, il No a Renzi ha stravinto solo grazie al Sud, al quale oggi possiamo felicemente aggiungere il Basso Lazio, storicamente meridionale, e la Sardegna, vittima anch’essa, ancor prima delle ex Due Sicilie, della politica coloniale del Nord. Queste regioni, insieme, hanno una corpo elettorale di circa 20 milioni, di questi sono andati a votare circa il 60%, una dozzina di milioni, i quali hanno detto No per il 70% , oltre 8 milioni. Se il Sud avesse votato come il Nord, avrebbe dato al Sì 2 o 3 milioni di voti in più, determinandone forse la vittoria.
Oggi l’Italia democratica deve dire grazie al Sud se la Costituzione è salva dagli insulti autoritari del potere renziano che, proponendo il “regionalismo differenziato”, con questo referendum ha provato a legalizzare lo status del Mezzogiorno, quale colonia interna, cui pure è stato ridotto di fatto.

Quel Sud che ha sofferto nella povertà e ha lottato nel silenzio dei media per salvare il salvabile della sua economia, l’agricoltura e il turismo, anch’essi pesantemente minacciati, dopo la distruzione del tessuto industriale, scientemente operata dal nord paraleghista negli ultimi trent’anni. Il Sud rinasceva e lottava con forza, nella Terra dei fuochi contro lo Stato-rifiuti&camorra, in Basilicata contro lo Stato-petrolio, in Puglia contro lo Stato-gas-carbone&xylella, in Calabria e Sicilia contro lo Stato-mafia. Tutto ciò mentre il Nord gonfio e tronfio di soldi pubblici e ricchezze private si corrompeva, mettendo da parte i valori di democrazia e di solidarietà, attribuendo al Sud colpe che non gli appartengono, poiché il degrado sociale della nostra terra, ha un solo responsabile: lo stato italiano fondato sullo sfruttamento, l’impoverimento e l’emarginazione del Mezzogiorno.

Un Sud oggi rinato anche culturalmente, con i suoi mille comitati popolari, i nuovi movimenti meridionalisti, i sindaci indipendenti alla De Magistris, il M5S prima forza politica e lo stesso PD spaccato dalle sacrosante emergenze del Sud, istituzionalmente rappresentate da Emiliano. Un Sud che ha accolto a calci nel sedere sia Renzi che la sua finta alternativa, quel Salvini capo di un partito intollerante, razzista e antimeridionale. Non sono bastati i giornali di potere a fregare ancora una volta il Sud, non sono bastati i soldi distribuiti a pioggia, ma ancora una volta più al Nord, per convincere i meridionali a vendersi per una frittura di pesce, versione opulenta del piatto di lenticchie.

Quella del Sud è innanzitutto una vittoria popolare e culturale, sganciata dal potere politico. Tutte le regioni meridionali sono in mano al Pd-Ncd, che nonostante abbia messo in moto la sua capillare macchina clientelare s’è dovuto fermare al 25-30% . Anche nella stessa “isola felice” salernitana, saldamente controllata dall’impresentabile Vincenzo De Luca, istigatore alla corruzione di 300 sindaci, per il Sì è stata una débâcle.
Di questa vittoria popolare il Sud può essere fiero, è la vera avanguardia progressista del paese, e possiamo andarne fieri anche noi che, grazie all’azione mediatica concessaci dal web e dalle pubblicazioni editoriali, abbiamo dato un grande contributo al suo risveglio culturale. La nostra pagina Terroni ha raggiunto con i suoi post oltre un milione di persone a settimana, e con noi pagine più importanti, come Briganti e altre.
Il Sud s’è svegliato, e mo’ sono cazzi per il potere finanziario e mediatico tosco-padano che lo schiaccia da 155 anni. Qualunque nuovo governo s’insedi, ora deve i conti con questo Sud che esiste e resiste. Un Sud che tuttavia deve trasformare il risveglio culturale in organizzazione politica, intesa nel senso migliore, quello della ricerca del benessere dei propri cittadini, e ciò si potrà fare solo con la consapevolezza che è il momento di dire basta allo status di cittadini di serie B, cui lo stato italiano, da oltre un secolo e mezzo, dà il 40% in meno che a un cittadino del Centronord, in termini di investimenti, di lavoro, di ferrovie, aeroporti, istruzione e quant’altro profonde ai “felici” cittadini del Nord.

di Raffaele Vescera

Referendum: la clausola di supremazia che ci incatena tutti

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Il nuovo art. 117, comma 4 stabilisce che “su proposta del governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.

Traduzione: il governo può intervenire liberamente anche nelle materie legislative dedicate alle Regioni se lo ritiene in qualche maniera necessario per la tutela dell’interesse nazionale.
Provvedimenti come quello dello sblocca italia, ovvero atti di forza giustificati con la formula “di interesse nazionale”, diventeranno più semplici.

Ad esempio se una trivella è interesse nazionale, si fa come decide il governo.
Un sito di stoccaggio scorie di interesse nazionale, si fa come decide il governo.

Nell’art. 70 si afferma che nel merito di quanto scritto sopra può esprimersi il Senato “nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.”

Cosa significa? Che il Senato “delle autonomie” scavalca le Regioni e deve esprimersi in tempi rapidissimi, forse fantascientifici per la burocrazia italiana: 10 giorni! Ma la immaginate tutta questa efficienza? Io no.
Ma questo è il meno.
L’altro aspetto più preoccupante è che alla fine la Camera può anche decidere di non conformarsi alle decisioni del senato.

Immaginiamo uno scenario: il governo decide che è necessario fare un certo tipo di intervento di forte impatto sul territorio. I cittadini devono eventualmente trovare il modo di orientare il senato (e non più la Regione). Se pure riescono a farlo il senato deve esprimersi nel merito in 10 giorni. Se pure riesce a farlo la camera può fregarsene.

di Pierluigi Peperoni

Dal mezzogiorno, un tranquillo ma convinto no al referendum costituzionale

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Pubblichiamo integralmente l’appello per il no lanciato dal prof. Gianfranco Viesti e firmato da molti illustri figli del Sud tra cui Pino Aprile, Maurizio De Giovanni, Marco Esposito, Isaia Sales.

Ad avviso delle firmatarie e dei firmatari di questo documento, il 4 dicembre è opportuno votare NO se si hanno a cuore le prospettive di sviluppo di lungo periodo dell’Italia e del Mezzogiorno in particolare.
Il progetto di riforma costituzionale è complesso. Già questo ne rende difficile la valutazione da parte dell’elettore.
Alcune modifiche sono apprezzabili, come sottolineato nel documento dei 50 costituzionalisti per il No (in cui ci riconosciamo ampiamente), a partire dal superamento del bicameralismo perfetto. Tuttavia, come gli stessi costituzionalisti sottolineano: “questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici”.
Due sono a nostro avviso particolarmente rilevanti.In primo luogo, la forte concentrazione e personalizzazione del potere esecutivo; che, fra l’altro, disporrà di una corsia preferenziale nel nuovo processo legislativo. Un processo affidato in gran parte ad una sola Camera saldamente controllata dal Premier, grazie alla nuova legge elettorale (per la quale gli annunciati propositi di cambiamento, oltre a essere poco credibili in caso di vittoria del Sì, non mutano in maniera sostanziale questo dato).
Siamo convinti, invece, che in un sistema democratico ben rappresentativo e ben funzionante debbano esservi più forti meccanismi di“controllo ed equilibrio” e un ruolo più rilevante per il Legislativo.
La capacità di governo non è minata oggi da fattori istituzionali, ma dalle debolezze della politica.
In secondo luogo, il forte accentramento nell’esecutivo nazionale dei poteri di governo del paese, a danno delle Regioni. Una forma di accentramento confusa e incoerente. Gli ingiustificati privilegi per le regioni a statuto speciale vengono lasciati intatti; mentre per le regioni più ricche, con i bilanci più sani, vi è la possibilità di tornare ad acquisire rilevanti competenze. Certo, le regioni non hanno dato buona prova (specie al Sud – anche se non sempre e non solo).
Ma, di nuovo, questo è un problema più politico che istituzionale. I Ministeri, del resto, non hanno dato miglior prova delle regioni. Una società articolata e multiforme,come la nostra, non si governa per decreti da Roma, ma attraverso un’indispensabile collaborazione fra livelli di governo e rendendo i cittadini partecipi delle scelte.
Il Sud è nel pieno della peggiore crisi della storia unitaria. Presenta tendenze assai preoccupanti. Per il suo futuro, e quindi per il futuro dell’intero paese, è indispensabile tanta buona politica e tante buone politiche:un forte rilancio degli investimenti e un ridisegno dei grandi servizi pubblici che ne accresca qualità, efficienza e sostenibilità economica. Occorre assicurare che i diritti di cittadinanza siano riconosciuti per tutte le italiane egli italiani, e che i
servizi ai cittadini (soprattutto in materia sociale) siano di livello elevato e il più possibile omogeneo in tutto il paese.
Ma la logica di “ricentralizzazione” che ispira la riforma non garantisce in alcun modo questo obiettivo: provvede solo a dare al Governo centrale la possibilità d’imporre ai territori le sue scelte, anche quelle potenzialmente dannose. Ciò è ancora più rilevante perché le scelte politiche già compiute negli ultimi anni – promosse dagli esecutivi senza un sufficiente dibattito parlamentare – stanno rendendo diritti e servizi diseguali, sempre più dipendenti dalla ricchezza dei territori; stanno accrescendo di più la pressione fiscale in quelli più deboli, concentrando i pochi investimenti nelle aree più forti del paese, ridisegnando sanità, scuola, welfare in misura diseguale, a danno del Sud. Specie con l’attuale esecutivo, ha preso forma ad esempio una profonda trasformazione e concentrazione del sistema universitario che avrà effetti gravissimi sul futuro civile ed economico del Sud.
Pensiamo che in Italia, specie al Sud, ci sia tanto da cambiare, da innovare. E in fretta. E, specie al Sud, facendo tesoro anche dei propri errori. Ma siamo fermamente convinti che nella nostra società le vere riforme – quelle che servono e poi funzionano davvero – possano nascere solo da un profondo confronto democratico, anche con un’attenta rappresentazione e composizione delle diverse esigenze territoriali; e dall’interazione tra più saperi, conoscenze, culture politiche. Il Principe illuminato – come frutto della riforma costituzionale – che guarisce un paese indebolito con le sue infinite conoscenze e le sue rapide azioni è, a nostro avviso, solo una pericolosa illusione.

Gianfranco Viesti e Onofrio Romano (Università di Bari). Aderiscono: Pino Aprile (saggista), Franco Arminio (paesologo), Piero Bevilacqua (storico), Nando Blasi (Popu) (musicista), Nicola Costantino (ex rettore Politecnico Bari), Maurizio De Giovanni (scrittore), Carmine Di Pietrangelo (Left, Brindisi), Marco Esposito (giornalista), Dino Falconio (Paradox, Napoli), Andrea Gargiulo (direttore orchestra), Enzo Lavarra (ex europarlamentare), Piero Lacorazza
(Consigliere Regionale Basilicata), Oronzo Martucci (giornalista), Luigi Masella (Fond Gramsci Puglia), Eugenio Mazzarella (ex parlamentare) Leonardo Palmisano (saggista), Ferdinando Pappalardo (ANPI Puglia), Corrado Petrocelli (ex rettore Univ Bari), Isaia Sales (saggista, ex sottosegretario), Antonio Stornaiolo (attore), Alessio Viola (scrittore), Alberto Baccini (Università di Siena), Ugo Ascoli (Università Politecnica delle Marche), Anna Simone (Università di Roma Tre), Giovanni Cerchia, Michele Della Morte, Alberto Tarozzi (Università del Molise), Melina Cappelli, Davide De
Caro, Paola De Vivo, Pompea Del Vecchio, Nicola Durante, Giuliano Laccetti, Alberto Lucarelli, Enrica Morlicchio, Fabio Murena (Università Federico II di Napoli), Maurizio Migliaccio (Università di Napoli-Parthenope), Giso Amendola, Davide Bubbico, Mimmo Maddaloni, Raffaele Rauty, Maria Antonietta Selvaggio (Università di Salerno), Paolo Fanti, Fara Favia (Università della Basilicata), Marco Barbieri, Aldo Ligustro, Irene Strazzeri (Università di Foggia), Giuseppe Campesi, Michele Capriati, Franco Chiarello, NicolaColonna, Tiziana Drago, Lea Durante, Fabrizio Fiume, Lidia Greco,
Raffaele Licinio, Isidoro Mortellaro, Luigi Pannarale, Ivan Pupolizio, Francesco Prota, Francesca Recchia Luciani, Stefania Santelia, Mario Spagnoletti, Carlo Spagnolo, Roberto Voza (Università di Bari), Giampaolo Arachi, Mario Castellana, Valentina Cremonesini, Stefano Cristante, Fabio De Nardis, Antonio Donno, Guglielmo Forges Davanzati, Nicola Grasso, Angelo Salento, Luigi Spedicato, Ferdinando Spina (Università del Salento), Domenico Cersosimo, Piero Fantozzi, Sonia Fiorani, Guido Liguori, (Università della Calabria), Ignazia Maria Bartholini (Università di Palermo), Fabio Mostaccio, Tonino Perna (Università di Messina), Maurizio Caserta (Università di Catania), Marco Pitzalis, Giuseppe Puggioni, Marco Zurru (Università di Cagliari), Antonio Moretti (CNR Bari), Angelo Gallo (dirigente scolastico, Napoli), Patrizia Perrone (insegnante, Napoli), Gioia Costa (Esplor/azioni Roma).

Riforma Renzi-Boschi: l’obiettivo è incrementare le differenze tra Nord e Sud.

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In un momento storico-politico nel quale lo scollamento tra rappresentanza partitica e bisogni dei cittadini aumenta in maniera preoccupante, il confronto democratico e la partecipazione alla vita pubblica, determinano il ruolo di ciascuno di noi nei processi decisionali da cui dipendono i nostri diritti e quelli delle nostre terre.

La consultazione del 4 Dicembre non è una consultazione elettorale come le altre: si vota sulla modifica della Legge fondamentale dello Stato e su una riforma che cambia 47 articoli della Costituzione, incidendo profondamente sull’assetto ordinamentale istituzionale. E’ dovere di ciascun cittadino responsabile informarsi ed informare affinchè non prevalgano astensionismo e bandiere di appartenenza.

Se in questi decenni la Costituzione l’avessero applicata e non umiliata oggi non staremmo ad interrogarci sul perchè viviamo in un’Italia che corre a due velocità, con cittadini di serie A e cittadini di serie B e perchè il principio di eguaglianza formale e sostanziale disciplinato non trova riscontro effettivo nelle opportunità di sviluppo e nelle condizioni economiche, sociali e culturali del paese ma al contrario sono garantite in maniera profondamente difforme sul territorio nazionale. Se la Costituzione fosse rispettata e considerata un faro di garanzia per l’effettivo esercizio dei diritti della persona, sarebbe assecondato e non solo declamato l’art. 1 che definisce l’Italia una Repubblica fondata sul lavoro (salvo poi applicare politiche di indirizzo governativo che fanno macelleria sociale dei  diritti e delle tutele per i lavoratori); si riconoscerebbe l’importanza della scuola pubblica come bene comune di crescita e progresso della collettività; sarebbe protetta  e assicurata la sanità pubblica e tutelato l’ambiente. Se la Costituzione fosse applicata e non solo annunciata oggi sarebbero rispettate le autonomie locali e la sovranità, che appartiene al popolo.

La riforma Renzi-Boschi- si dirà, sbagliando – non modifica la prima parte della Costituzione. I diritti fondamentali e le procedure istituzionali sono legate da un rapporto di inscindibilità: le azioni politiche dei governi che decidono sui diritti, si generano e modellano nelle istituzioni: cambiando le procedure e le istituzioni disciplinate nella seconda parte della Costituzione, si modificano le priorità politiche di intervento e con esse il livello di garanzia dei diritti.

Ecco perchè la Carta Costituzionale non può diventare in nessun modo l’ennesimo strumento di divisione di un paese unito, di fatto, solo nella retorica delle celebrazioni formali ma privo di qualunque elemento di solidarietà nazionale e senso di appartenenza comune. Ed ecco perchè preoccupa il modo in cui si modifica il Titolo V.

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Con la riforma costituzionale Renzi-Boschi i cittadini non saranno più uguali. Anche oggi non lo sono, ma mai si era arrivati a mettere nero su bianco l’obiettivo di incrementare le differenze tra Nord e Sud. La riforma infatti toglie molti poteri alle Regioni, ma ne restituisce altrettanti alle Regioni ricche, cioè quelle che possono far quadrare i conti. L’articolo 116 infatti, qualora vincesse il Sì, prevederà che solo le Regioni in equilibrio di bilancio tra entrate e spese potranno chiedere maggiore autonomia legislativa su 13 materie delicate e strategiche per il governo del territorio:

1.  organizzazione della giustizia di pace

2.  disposizioni generali e comuni per le politiche sociali

3.  disposizioni generali e comuni sull’istruzione

4.  ordinamento scolastico

5.  istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica

6.  politiche attive del lavoro

7.  istruzione e formazione professionale

8.  commercio con l’estero

9.  tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici

10.   ambiente ed ecosistema

11.   ordinamento sportivo

12.   disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo

13.   governo del territorio.

Semplificando: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, potranno scegliere come proteggere il proprio patrimonio paesaggistico; se consentire trivellazioni; prenderanno decisioni proprie su come organizzare l’istruzione scolastica, il turismo, i rapporti commerciali con l’estero e così via. La Calabria invece, maglia nera di povertà tra le regioni italiane, la Campania, la Puglia, la Basilicata su materie come energia, attività turistiche, tutela dell’ambiente, dipenderanno in tutto e per tutto dalle scelte dello Stato Centrale. Nel caso in cui il Governo si trovi costretto a scegliere un sito dove stoccare scorie radioattive quale sito sceglierà? Quello di una Regione in pareggio di bilancio che avrà potuto legiferare in autonomia o quello di una Regione povera che non avrà potuto farlo?

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Lo illustrano bene i Consiglieri regionali del Pd dell’Emilia Romagna in un documento approvato a fine settembre: “Viene dato vita in sostanza ad un federalismo differenziato, selettivo e meritocratico, che punta a premiare le Regioni più virtuose”.

La virtuosità di un territorio non può dipendere dalla sua ricchezza, nè gli errori amministrativi da parte di alcune regioni del Sud possono coincidere con la privazione di autodeterminazone delle comunità locali. L’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) infatti è distribuita in maniera fortemente disomogena sul territorio italiano. Ad esempio: la Calabria ha a disposizione 310 euro per ciascun abitante della Regione, il Veneto 652; la Campania circa 371 mentre la la Lombardia 862. Raggiungere il pareggio di bilancio non è un merito, è un parametro di misurazione della ricchezza. Le Regioni settentrionali hanno un gettito fiscale alto e possono trovarsi più facilmente in condizione di equilibrio tra entrate e spese. Al Sud invece, il gettito fiscale non copre mai le risorse necessarie a garantire i servizi essenziali per i cittadini che hanno minore capacità contributiva. Con la modifica dell’art. 116 prende forma il regionalismo differenziato che sancisce autonomia decisionale su base economica.

Si consuma in tal modo il disegno monopolista dei commissariamenti e delle ricette nord-centriste applicate ai territori meridionali. Ciò che si cela dietro millantate applicazioni di meritocrazia amministrativa, coincide con l’interpretazione punitiva e non perequativa delle autonomie locali previste e disciplinate della Costituzione. La supremazia decisionista del potere politico di Roma è uno dei veri e più insidiosi pericoli di questa riforma. Le disquisizioni sul Senato, sul bicameralismo o sul Cnel sono tutte interessanti, ma qui si sta decidendo altrove il futuro della parte più debole e sacrificata del paese.

Il Mezzogiorno non viene messo in condizione di crescere quando bisogna prevedere investimenti e incentivi pubblici per lo sviluppo. Il Governo non ha mai individuato i Lep (livelli essenziali di prestazione concernenti diritti minimi civili e sociali); non ha mai stabilito la perequazione, finalizzata a distribuire finanziamenti utili per garantire servizi omogenei su tutto il territorio nazionale; i fabbisogni standard vogliono introdurli direttamente in Costituzione, ma per fregare il Sud hanno già attuato stratagemmi che calcolano il riparto dei fondi sulla base della spesa storica e non sulla base del reale bisogno della popolazione.

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Andrebbero applicati i principi di eguaglianza e di coesione sociale atti a rimuovere gli squilibri economici territoriali o va stabilita per legge fondamentale dello Stato, l’inferiorizzazione meridionale?

Il 4 Dicembre andiamo a votare il potere di forza della nostra autodeterminazione e l’opportunità di costruire un modello di autonomia responsabile che faccia dell’ autogoverno la vera sfida politica del Sud. Io voto NO.

Flavia Sorrentino.

Referendum Renzi-Boschi: un NO dal Sud.

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Non rappresenta una scelta casuale quella del presidente del consiglio Matteo Renzi, di svolgere la propria campagna referendaria soprattutto nel sud Italia. Matera, Foggia, Catania, Bari, non si è mai visto un Matteo così infuocato e passionale nelle sue rotte meridionali. Eppure il motivo c’è, i sondaggi parlano chiaro: il meridione d’Italia voterà compatto per il no alla riforma costituzionale.

Credevano di esserci riusciti, che il sillogismo “ragioni virtuose sì, ragioni virtuose no”, avrebbe ben mascherato l’intenzione del governo di privilegiare le regioni del nord Italia;  lo stato di assuefazione politica nella quale ci hanno relegato in questi anni, avrebbe mantenuto la situazione sotto controllo. Così, propagandare l’abbassamento del numero dei parlamentari, la riduzione dei costi della politica, avrebbe messo in una  condizione di subordinazione  l’attenzione sulla  modifica del Titolo V della Costituzione.

Il premier non aveva però fatto bene i suoi conti con un Sud sempre più sveglio, sempre più indignato e guardingo.

Le modifiche degli articoli 116 e 117, segnerebbero la costituzionalizzazione dello status di colonia interna delle regioni meridionali, la continuazione di un filo rosso a cui si è dato inizio 155 anni fa.   Così recita il testo della Riforma: “Condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle regioni […] in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. E’ questa una disposizione fuorviante e discriminante, poiché, di fatto, le regioni del sud Italia non sono messe in condizione di raggiungere il pareggio di bilancio. L’Imposta Regionale sulle Attività Produttive, meglio conosciuta come IRAP, ossia l’ imposta sul Reddito prodotto dalle attività professionali e produttive, rappresenta una tassa trattenuta dalle regioni, ma non uniforme sul territorio nazionale. Le regioni settentrionali possedendo un gettito fiscale più alto, possono raggiungere più facilmente una condizione di bilancio, differentemente dal meridione che,  con una minore capacità contributiva,  potrebbero raggiungerla  solamente privando i cittadini di quei servizi essenziali spettanti di diritto. Non si tratta quindi  di virtù regionale , ma di ricchezza storica.

La riforma introduce un regionalismo differenziato discriminante, in grado di danneggiare pesantemente il meridione, inficiandolo nella possibilità di scelta in ambiti vitali quali ambiente, istruzione e lavoro , turismo, governo del territorio, politiche sociali, ordinamento scolastico.  Come dire che la Toscana potrà promuovere il turismo locale, mentre la Calabria non avrà alcuna voce in capitolo; o che  l’Emilia Romagna potrà esprimere il proprio dissenso allo   stoccaggio di scorie radioattive sul proprio territorio, a differenza della Campania che dovrà  invece sottostare alle decisioni del governo centrale.

Se virtuoso (ricco), conti e  possiedi potere decisionale, mentre, se inefficiente (povero), dovrai accontentarti di ciò che lo Stato centrale deciderà al posto tuo:  questa la logica renziana.

I piani rischiano però di essere sfasati, e a farli “saltare” saranno proprio le regioni colpite, quelle ghettizzate, condannate da una politica che mira ad accrescere solo una parte del paese.

L’indignazione meridionale aleggia, si è resa tangibile: è un sud che ha deciso di alzare la testa e lottare.  Basta un “NO” per difendere i nostri diritti sociali, la nostra sovranità popolare; un “NO” per difendere il nostro diritto all’uguaglianza e alla crescita; un “No” per porre un freno alle spinte monopolistiche di un governo accentratore.

Carmen Altilia

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