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Cinque anni dopo – Una riflessione di Antonio Lombardi

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L’8 settembre del 2012, cinque anni or sono, ci riunimmo a Bari, nella sala del Consiglio Comunale, ospiti del Sindaco Emiliano, per dare inizio ad un processo di costruzione di un soggetto unitario che potesse –con voce forte e chiara- proporre le istanze politiche di quello che, dopo essere stato spogliato anche del proprio nome, veniva e viene detto “Mezzogiorno”.

L’iniziativa nasceva da quanto accaduto un paio di mesi prima: il 14 luglio, a Monte Sant’Angelo (FG), Marco Esposito aveva consegnato un appello (“Schietti, orgogliosi, allegri, mediterranei”) a Pino Aprile, registrante numerosi sottoscrittori, con il quale gli si proponeva la guida di un ampio movimento unitario meridionalista. Quell’8 Settembre ci si era riuniti, appunto, per ascoltarne, dopo il tempo di riflessione, la risposta. Come è noto, Pino manifestò il suo proposito di non assumere tale ruolo, ma di continuare a tempo pieno il lavoro che –così fruttuosamente- era impegnato a portare avanti: scrivere della nostra terra e per la nostra terra.

A quell’appuntamento arrivammo in tanti e, soprattutto, provenienti da esperienze diverse: c’erano veterani del meridionalismo e neofiti (se non nel sentimento magari nella pratica, come il sottoscritto).

Anche se non ebbe un riscontro immediato nei termini desiderati, comunque quell’incontro di Bari sottolineò e sollecitò l’esigenza di un meridionalismo più inclusivo e meglio organizzato che, per quanto riguarda MO – Unione Mediterranea, avrebbe portato a distanza di due mesi alla sua fondazione in assemblea a Napoli (24 novembre).

Cinque anni dopo, che cosa ci racconta, oggi, quell’esperienza? Ecco un modesto spunto. Bari non risultò l’occasione per riunire tutte le anime del meridionalismo contemporaneo. Alcune formazioni già esistenti continuarono il loro percorso, altre nuove ne nacquero. La frammentazione è uno degli elementi caratteristici del mondo meridionalista ed è vista come uno dei suoi principali limiti se non, addirittura, l’ostacolo maggiore ad un successo più consistente della causa. C’è del vero in tali affermazioni, che spesso si ascoltano frequentando i nostri ambienti e, sovente, ci si interroga su questa tendenza alla moltiplicazione come effetto della divisione. Tuttavia quelle valutazioni non vanno assolutizzate.

Bisogna anzitutto farsi una ragione del fatto che il meridionalismo non è un pensiero unico e non può esserlo. Questo, tuttavia, non è detto che sia solo un limite, perché lo pone in grado di raggiungere ambienti e persone con sensibilità differenti: può dunque essere anche un’opportunità. Di fatto, però, diventa tale solo se la diversità non è vissuta in termini di rivalità. La logica del “gioco a somma zero” (io vinco se tu perdi, ho bisogno della tua sconfitta per affermarmi: logica escludente) forse è ancora troppo la chiave utilizzata per proporsi sulla scena politica e talora anche culturale. Occorre comprendere che la logica che deve informare le relazioni tra le varie componenti, tra i vari soggetti del meridionalismo politico e culturale, è quella del “gioco a somma positiva” (io vinco se tu vinci, la tua vittoria è condizione per la mia vittoria: logica inclusiva).

Che cosa significa assumere questa prospettiva costruttiva? Tante cose.

Per esempio, riconoscere la piena legittimità di percorsi diversi e la loro utilità in vista di una causa che è, comunque, comune se non nei dettagli almeno in alcuni grandi obiettivi di fondo. Ma non è solo una questione di riconoscimento e legittimazione. La partita è del tutto più ampia, perché la logica inclusiva esprime la consapevolezza che se io non ti ostacolo, se non entro in competizione con te, ma sostengo il tuo impegno e ricevo il tuo sostegno in spirito cooperativo, ciò aiuta a dissodare un terreno che per tutti è difficile, duro, faticoso da rendere accogliente, un terreno nel quale, poi, ciascuno, anche con finalità e mezzi diversi, potrà gettare semi che saranno comunque della stessa natura e le cui pianticelle un giorno potranno rinforzarsi a vicenda.

Cooperare, non competere.

Questo non significa annullare le diversità, ma rispettarle, valorizzarle e tenerle insieme in modo che non collidano distruttivamente ma, per quanto possibile, si contaminino costruttivamente. È difficile? Sì, è difficile. Ma non è impossibile. L’unità del mondo meridionalista oggi non si gioca tanto sulla fusione delle aggregazioni, ma sull’intelligenza di liberarsi dall’ansia del successo particolare, facendo del successo complessivo del nostro popolo e della nostra terra il vero motore che spinge a sacrificare talvolta qualcosa di sé e a guardare con apprezzamento gli uni alle iniziative degli altri. Senza che nessuna aggregazione e nessun soggetto all’interno di ciascuna di esse possa tranquillamente sentirsi come un atleta, pronto al “via!”, in una corsa che deve incoronare il campione.

Cinque anni dopo, mi sembra che quel pomeriggio di Bari possa insegnarci questo.

Nella foto: un momento di quell’8 settembre 2012.

Antonio Lombardi

Sud 2.0 – Due chiacchiere con Pino Aprile

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Il progetto Sud 2.0, architettato dallo scrittore meridionalista Pino Aprile è ormai sulla rampa di lancio. Sud 2.0 è un progetto sociale che mira al lancio di start up innovative meridionali, giovanili e non, da finanziare e assistere allo scopo di favorire il rilancio economico del Mezzogiorno, facendo da sé, senza più aspettare e senza nulla chiedere. Insieme, Sud 2.0 si propone di fare informazione slegata dagli stereotipi e dai pregiudizi sul Mezzogiorno diffusi dai media nazionali. Sull’iniziativa, che sarà lanciata ufficialmente il 27 maggio a Campobasso, cui seguiranno altre presentazioni pubbliche nelle maggiori città, abbiamo intervistato Pino Aprile.


Ciao Pino. Raccontaci cos’è Sud 2.0

«Uno strumento per creare una rete di giovani imprenditori al Sud. Lanceremo una raccolta fondi (crowdfunding) per un milione di euro e con quei soldi (dipenderà dalla somma raccolta) faremo incubatori per aziende innovative di giovani del Sud (a regime, uno in ogni regione) e un quotidiano online che sostenga diritti e ragioni del Mezzogiorno. Su www.sud2-0.it c’è tutto. I giovani le cui idee saranno selezionate e finanziate, dovranno impegnarsi a non de-localizzare l’azienda, né a cederla ad altri, per almeno cinque anni, e ad avere intrecci societari, anche minimi, con le altre start up che nasceranno e con Sud 2.0. In modo da avviare una rete che si radichi nel territorio. I giovani aspiranti imprenditori riceveranno un finanziamento metà in servizi (ufficio, segreteria, assistenza legale, commerciale, bancaria e ogni consulenza necessaria, tutoraggio) e metà in soldi.  Il nostro intento è rafforzare la comunità meridionale e per questo c’è bisogno delle condizioni economiche per fermare l’esodo dei giovani e offrire una alternativa a chi volesse tornare. Capito che l’Italia non darà mai al Sud le stesse infrastrutture e opportunità che al Nord, il cui benessere si regge sulla subordinazione imposta al Mezzogiorno, l’unica strada per uscirne è far da soli».

Ma non è tutto qui. Parlaci del giornale. Qual è il suo scopo principale?

«Sud 2.0 è concepito per ricostruire la comunità meridionale che ha bisogno di lavoro (altrimenti i giovani se ne vanno), ma soprattutto di sapere e capire perché è desiderabile restare o tornare al Sud. E per questo, è necessario riscoprire i valori della nostra storia, della nostra terra, delle sue diversità, dei legami con gli altri.»

L’obiettivo finale di Sud 2.0? Qual è?

«Non c’è: è una linea spostata sempre più avanti. Abbiamo idea di dove si può arrivare; anzi, dove vogliamo arrivare, ma non ha senso parlarne ora. Quanto lontano andare dipenderà dalle adesioni al progetto (quindi aderite, aderite, aderite). Io avevo paura: la mia competenza è altra e il mio solo patrimonio è quel pizzico di credibilità conquistata in quasi mezzo secolo fra giornali e libri. La reputazione è come la verginità: si perde una volta sola e per sempre. Alla fine, mi hanno convinto: la tua bella faccia, lucida e al sicuro in un cassetto non è utile a nessuno. I soldi che raccoglieremo saranno restituiti al territorio nel modo che ho detto. Altre risorse ed eventuali guadagni, per statuto, saranno tutti reinvestiti. Dopo tre anni, si avrà un’idea di quanto vale Sud 2.0 e si metterà in vendita almeno metà delle quote, mirando a un azionariato popolare. Ma per altri due anni, tutti gli introiti saranno essere usati per creare lavoro, ricerca, sviluppo. Sud 2.0 e quel che ne deriverà deve esser “conveniente” o non servirà ad attrarre i giovani e generare futuro. Tutti devono esser pagati per quel che fanno, al meglio che si può (il volontariato se lo può permettere chi ha comunque un reddito). Chi scrive per il giornale avrà compensi decorosi, non i tre euro ad articolo che umiliano tanti ragazzi colpevoli di voler diventare giornalisti. Sud 2.0 è un progetto che poggia sulla fiducia in se stessi e negli altri. La campagna di crowdfunding parte il 15 giugno»

Dopo l’aeroporto di Crotone chiude anche quello di Reggio Calabria?

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di Pino Aprile (dalla pagina Terroni di Pino Aprile)

Nella regione più povera e abbandonata, nell’Italia impazzita di un Fanfarone allo sbando, e con il governo più anti-meridionale di sempre (dopo quelli che mandarono i Cialdini, i Pinelli, i Pallavicini, i Milon e altri carnefici a sterminare i terroni), si lascia che chiuda l’aeroporto di Crotone, che pure aveva fatto registrare incrementi lusinghieri e mostrato la sua necessità di esistere, specie dove muoversi è un’impresa spesso impossibile (niente treni, salvo la linea tirrenica; la Salerno-Reggio Calabria dichiarata “finita” da Renzi-il-Bugiardo, nonostante 50 chilometri, i peggiori, ancora da rifare; voli a tariffe fra le più alte d’Italia, visto che il biglietto Reggio-Milano costa più del Reggio-New York, a patto di trovare ancora un aeroporto, perché adesso rischia la chiusura anche lo scalo di Reggio Calabria.

Ora i “meridionalisti evoluti” diranno che “è colpa della classe dirigente locale”, che di sicuro è colpevole. Sindaco della città metropolitana di Reggio, presidente della Provincia e presidente della Regione avrebbero dovuto agire meglio e per tempo, con maggiore consonanza e lungimiranza. Non ci piove. E c’è il sospetto che alcuni facciano il tifo per altri gestori, a cui far cedere lo scalo a prezzi di liquidazione. Vero o no, diamo pure per scontato che “la classe dirigente locale” sia inadeguata. Non esiste una “classe dirigente nazionale”? E come mai questo governo di malfattori (nel senso tecnico di chi “fa male” e lo fa coscientemente) ha sabotato l’Agenzia messa a punto dai precedenti ministri Trigilia e Barca, grazie alla quale le inadempienze locali sarebbero state affidate a una struttura nazionale, per rispettare impegni di tempo e di spesa nell’esecuzione di opere e progetti?

Forse perché i soldi della cassa della Coesione servivano ad altro, tipo i 3,5 miliardi rubati al Sud da Renzi-Delrio e usati per incrementare l’occupazione al Nord, a spese dell’area europea con la più alta disoccupazione, insieme alla Grecia? E come mai quando “la classe dirigente locale” genera mostri come la Brebemi, l’autostrada-deserto costata il doppio a chilometro, della Salerno-Reggio, la soluzione e i soldi si trovano? E quando gli enti locali lombardi partoriscono una Expo che fa un flop inconfessabile e un deficit abissale, il governo interviene riempendo di soldi Milano per il dopo-Expo? E Reggio Calabria no?

La “classe dirigente locale” è un alibi. La cosa che emerge ormai in modo clamoroso è una sospetta comunanza di interessi fra governi nord-centrici e criminalità che è ormai improprio definire “meridionale”, visto che fa i suoi affari al Nord, dall’Expo alla Tav, con la complicità di politici, enti, manager e imprenditori-prestanome del Nord.

Quale settimana fa, la SWG, un importante istituto di ricerche sociali di Trieste, lanciò un allarme che avrebbe dovuto togliere il sonno a chiunque diriga qualcosa, in questo Paese: la situazione al Sud, scrisse, è ormai al limite, per rabbia e abbandono, e il clima è pre-insurrezionale.

E manco a farlo apposta, la banda di malfattori che si è impossessata del governo, con l’intervento di un presidente della repubblica iscritto a una loggia statunitense da quasi quarant’anni (Giorgio Napolitano era “ministro degli esteri” del Pci), ha incrementato le azioni a danno del Mezzogiorno, che sta perdendo le sue università (hanno messo per iscritto, in un decreto, che non deve averne); vogliono far passare una “riforma” che renda “costituzionale” il trasferimento di fondi e diritti solo alle Regioni del Nord, inventando il “federalismo differenziato”, ovvero l’apartheid, riducendo quelle meridionali a “colonia interna”, non solo di fatto, ma per legge fondamentale del Paese; e la Commissione interparlamentare ha appena stabilito che i soldi per i trasporti locali vadano solo a chi li ha: soltanto dopo le proteste si è intervenuti per “aggiustare”, promettendo (seeee…) che alle città del Sud cui erano stati destinati zero euro (avete letto bene: zero), daranno “qualcosa”, magari si rovineranno con uno zerovirgola; e norme altrettanto “uguali per tutti” stabiliscono che la salute di un arzillo 85enne che vive al Nord può valere sino a cinque volte quella di una ragazza di vent’anni che muore di cancro nella Terra dei fuochi.

Quindi, cosa volete che gliene importi alla banda di malfattori se due aeroporti su tre chiudono in una regione già irraggiungibile, a parte un’autostrada incompleta e in rifacimento da mezzo secolo e la linea ferroviaria tirrenica?

Trasporti, salute, istruzione, diritti… cos’altro devono rubarci? Ed è esagerato pensare che lo facciano proprio per indurre il Sud ad andarsene per i fatti suoi dopo averlo svuotato, se non accetta lo stato di subordinazione “costituzionale”? L’errore politico è considerare tutti questi episodi e i tanti altri che non citiamo per non ripeterci troppo, come slegati, isolati, locali. Quante coincidenze ancora servono per dimostrare che si tratta di una strategia; anzi: di una aggressione che continua da un secolo e mezzo, anche se con altri mezzi?

Laboratorio Napoli: i fiori del Sud.

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Una delle foto più emblematiche di questa campagna elettorale per le Amministrative è senz’altro quella scattata mercoledì 4 maggio all’Agora demA, durante la presentazione del nuovo libro di Pino Aprile, ‘Carnefici’. Oltre all’autore, sul palco c’erano Eugenio Bennato, la nostra Flavia Sorrentino, Luigi de Magistris ed Isaia Sales.

Un quadro intergenerazionale, un misto di esperienze e percorsi diversi, eppure legati insieme da un invisibile fil rouge: il Sud. C’è chi l’ha raccontato in tutte le sue tragedie, come Pino, chi l’ha cantato, chi ne ha studiato a fondo il cancro mafioso che lo affligge, e chi si appresta ad amministrarne per i prossimi 5 anni la sua città più importante, Napoli.

Sgombriamo il campo dagli equivoci. Su quel palco non tutti erano d’accordo su tutto, ed è pressoché impossibile che sarà così, anche in futuro. Ma quel palco può rappresentare davvero un inizio, un laboratorio meridionale che si oppone ai modelli attualmente dominanti, in Italia ed in Europa, modelli politici, istituzionali e culturali assolutamente nordcentrici.

Potrà essere un inizio se verrà tessuta la tela dei valori comuni, che pure quelle personalità hanno passionalmente trasmesso, durante la serata.

Il Sud potrà rappresentare un vero “soggetto di pensiero”, opponendosi al destino di “oggetto di potere”, se diventerà il terreno di incontro politico di quelle forze che non si rassegnano alle logiche di imposizione dall’alto (intendendo come ‘alto’ anche il senso geografico del termine, il Nord italico ed europeo), e che vogliono invece sviluppare un modello alternativo, che abbia come riferimenti i valori mediterranei dell’inclusione sociale, della salvaguardia dei beni comuni, della riscoperta democratica del confronto pubblico, dell’autonomia contrapposta ai diktat. E ciò potrà essere più semplice se il Sud saprà riconoscere e ricostruire l’ orgoglio di una storia e una cultura antichissima e nobilissima, a patto che questa riscoperta di sé non faccia del mezzogiorno terra di sterile rivendicazionismo.

La sfida è lanciata: per questo il progetto di Napoli Autonoma rappresenta oggi un punto di snodo fondamentale. L’autonomia è la richiesta di chi ha ritrovato la  voce e non vuole più perderla, perché ha deciso di parlare con le proprie parole, non con quelle messegli in bocca da altri.

Il Sud non è un Nord ancora imperfetto: e questo concetto deve passare in Italia e in Europa. E’ qui che potrà nascere una classe dirigente che dirà un no definitivo alle connivenze col malaffare, è qui che si potranno sviluppare nuove forme democratiche e partecipative, anche nel tempo della contrazione democratica, è qui che gli spazi e i beni pubblici potranno essere liberati dagli affaristi, è qui che si riscoprirà il senso della Politica: perché è qui, al Sud, che potrà esserci la presa di coscienza di una nuova visione del mondo.

Per questo, le elezioni amministrative del prossimo giugno a Napoli potranno rappresentare l’incipit di un capitolo nuovo della nostra storia comune.

Se sapremo avere il coraggio collettivo di ascoltarci, di tessere assieme, avremo iniziato a scrivere le pagine più importanti del nostro futuro: quelle della rivoluzione mediterranea delle coscienze.

di Salvatore Legnante

Comprare sud e tifare sud fa bene al sud

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di Raffaele Vescera dalla pagina Terroni di Pino Aprile

Il 90% dei soldi spesi al Sud servono a comprare prodotti del Nord. Ogni anno per 70 miliardi di euro. Tutti i giorni, ogni meridionale spende in media dieci euro di prodotti made in Nord, di cui almeno la metà in prodotti alimentari, 3.500 euro l’anno, più di 10.000 a famiglia, con un reddito di poco superiore. Un assurdo nella terra del buon cibo, dei mille tipi di pane, il migliore al mondo, delle cento paste fatte come una volta, dei tanti ortaggi, frutta, mozzarelle e formaggi in cento specialità, oli d’oliva per il 90% prodotti al Sud ma per il 70% imbottigliati al Nord, i vini con la più alta produzione mondiale di uve, acque minerali di Basilicata, Calabria, Campania, Molise e Abruzzo in quantità.

Ci sono cittadini meridionali che preferiscono comprare mozzarelle di indicibile sapore di una nota azienda lombarda, molto pubblicizzata, anziché quelle buonissime fatte a due passi da casa loro, dove si fanno da secoli. Senza pensare ai maggiori costi di trasporto da pagare e al conseguente inquinamento della penisola: che senso ha acquistare un’acqua minerale alpina in Calabria e far viaggiare un tir per 3.000 km A/R? Siamo sicuri che sia migliore solo perché costa il doppio ed è pubblicizzata?

Eppure tant’è, si comprano e si consumano prodotti provenienti dal Nord. Difficoltà a fare impresa al Sud e martellante e ingannevole pubblicità delle più ricche e potenti aziende settentrionali, l’azione congiunta dei due fattori agiscono a tenaglia per convincere la popolazione meridionale a comprare Nord. E’ una morsa da cui dobbiamo liberarci se vogliamo la rinascita del Mezzogiorno.
Nicola Zitara diceva che il riscatto del Sud comincerà quando si farà, metaforicamente, rotolare nella scarpata un camion di galbanini.
Comprare Sud vuol dire creare per noi milioni di posti di lavoro, attivando produzione industriale e relativo terziario. Il nostro destino è nelle nostre mani. Gandhi educò gli indiani a non comprare i prodotti degli inglesi, vanificando la loro occupazione coloniale.

E’ utile tifare Sud anche nel calcio. Non è forse diventato questo solo un consumo milionario? Non si è forse trasformato in una forma di plusvalore economico, anche questo in gran parte goduto al Nord? Che cosa ha più a che fare con lo sport puro? Che senso ha tifare per Juve, Milan, Inter, se non consumare, anche in questo caso, un loro prodotto economico, solo finanziariamente più forte di quello nostro? Tifare Sud significa rafforzare l’autostima di un popolo colonizzato anche culturalmente.

Non abbiamo industrie, lavoro, banche, assicurazioni, siamo ridotti a un esercito di consumatori, pecore utili a brucare, a caro prezzo, l’erba del vicino. Possiamo riprenderci quanto ci spetta, con un solo gesto: fare attenzione alla provenienza dei prodotti che compriamo, e che tifiamo.

Catalogna: 5 domande a… Pino Aprile

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Abbiamo chiesto a vari esponenti del mondo meridionalista cosa ne pensano della recente elezione in Catalogna.

Stasera vi proponiamo il punto di vista di Pino Aprile, saggista, autore di libri di grandissimo successo quali Terroni, Giù al Sud, Mai Più Terroni, Il Sud Puzza, Terroni ‘ndernescional. Ha il grande merito di aver mostrato al grande pubblico quanto sia costata l’unità d’Italia ai meridionali.

1. Cosa ne pensa del percorso indipendentista catalano? È un modello riproducibile per il mezzogiorno d’Italia?

Un lungo percorso, con la minaccia dell’indipendenza per ottenere, finora, risorse, infrastrutture dal governo centrale. Può essere una politica a lungo termine (strappare il più possibile, poi andarsene con la dote), o solo un ricordare: se non mi ci fai star bene, me ne vado. Non so. Ma non è sicuramente riproducibile per il nostro Sud: ognuno vive con la sua storia, come gli uomini con il proprio carattere. Ognuno traccia la sua strada e poi deve dimostrarsene capace. Anche copiando alcune buone idee, il modo di attuarle risentirebbe delle differenze.

2. Quali sono i punti in comune tra il nostro sud e la Catalogna?

Pochi punti in comune, forse, solo la voglia di “mandare quegli altri al diavolo” e la solarità mediterranea; più un pezzettino, ma ino ino, di storia, con la Sardegna.

3. Quali sono, invece, le differenze?

La Catalogna ha saputo coltivare e ravvivare la sua identità; il Sud la vive inconsapevolmente e a volte la nasconde; solo di recente il fenomeno della riappropriazione culturale e storica ha assunto dimensioni di massa, virando verso i primi tentativi di buon uso politico di questi valori. Lo Stato centrale, in Spagna ha sempre corrisposto, per amore o per forza, poco importa, alle richieste della Catalogna, l’Italia mai a quelle del Sud; pur con tutte le frizioni campanilistiche del derby nazionale Barcellona-Madrid, il razzismo dei leghisti propriamente detti e di quelli non detti, nei riguardi dei meridionali non ha spazio in Spagna (e i Baschi, altri inquieti, usavano le armi…). La Catalogna è fra le aree più ricche del Paese, parla la sua lingua… Insomma, a parte un comune e forte sentire mediterraneo, c’è davvero poco in comune.

4. La differente solidità dell’economia di queste due macroregioni non impone riflessioni diverse sull’opportunità di una secessione?

A ragionare rasoterra, la secessione non conviene alla Catalogna, ma al Mezzogiorno italiano, dal momento che la prima, da Madrid acchiappa e se se ne va, non può farlo più; il secondo dal Nord, tramite e con Roma, viene fregato e, se se ne va, si libera di un ladro. Sul fatto che sia possibile, so una cosa sola: le volontà rendono possibili o no le cose.

5. L’UE come si comporterebbe di fronte ad una tale possibilità? In particolare accetterebbe il rientro tra i Paesi membri di una nuova nazione, già ex-regione?

Alla Ue non importerebbe nulla, basta stare nell’Unione, secondo le regole dell’Unione. E poco conta che la Scozia potesse entrarci del tutto, anche nell’euro, mentre il resto della Gran Bretagna si teneva la sua sterlina.

Salvini al Sud: ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?

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Il punto di vista di… Pino Aprile (dalla pagina “Terroni”)

C’è gente che farebbe qualsiasi cosa, pur di non lavorare: Matteo Salvini, per esempio, perseguita gli ultimi della Terra, a pro dei padroni della Terra (se lo fa consapevolmente, decidete voi cos’è; se lo fa inconsapevolmente, decidete voi cos’è; io non so dire quale delle due possibilità sia più umiliante).

Ora, il giustiziere dei poveri cristi opera in trasferta, in Calabria, a casa di quei terroni che, per anni (finché non gliene sono serviti i voti), da direttore di Radio Padania, ha ferocemente insultato e fatto insultare, fomentando i peggiori sentimenti. E cosa va a fare? A cercare dei titoli sui giornali di domani e dopodomani, con le sue inutili ma irritanti incursioni in un campo rom e in un centro di accoglienza: prima rompe le palle, perché “quelli” non li vogliono a casa loro, poi se li va a cercare dove stanno. Rom e immigrati in Terronia: tombola! (Qualche fascitello locale gli tiene la felpa).

Naturalmente, ci spiegherà che viva la ruspa e bisogna raderli al suolo; perché sono ladri, perché sporcano, perché rubano il lavoro e perché violentano le nostre donne.

Nemmeno a me piace essere derubato, ma so che tutti i ladri rom ed extracomunitari messi insieme non fanno il danno di uno solo dei ladroni dell’Expo o del Mose (oggi un interessante articolo di Sergio Rizzo, sul Corriere della sera, segnala che i soli “collaudatori” del Mose, a botte di milioni e centinaia di migliaia di euro, sono 316!!!). Ma quelli, il Salvini, dimentica di andarli a provocare a Venezia e a Milano, con uso di ruspa o senza.

Sporcano i rom e gl’immigrati? Salvini (mi sono perso qualcosa?) non ha mai minacciato la ruspa contro chi ha fatto della sua Lombardia la regione più inquinata d’Italia e una delle più inquinate d’Europa; né ha mai minacciato la ruspa contro i suoi corregionali che scaricano illegalmente i rifiuti tossici industriali nella Terra dei Fuochi e in giro per l’Italia. Per dirla tutta, pur avendo così facilmente disponibilità di ruspe, l’uomo che per non perdere il pensiero unico se lo scrive sulla felpa, non si è mai offerto di usarle per bonificare quei terreni.

Il lavoro che “rubano” gli stranieri è, normalmente, quello che non fanno gli italiani. E tanti di coloro che arrivarono con un barcone, si sono integrati, hanno creato imprese che producono una quota importante della ricchezza nazionale; e danno lavoro anche a italiani.

Quanto agli stranieri stupratori, sono dei delinquenti come tutti gli altri delinquenti, ma in forte minoranza, perché quelli che “violentano le nostre donne” sono quasi sempre italiani e familiari di quelle donne (però… “nostre”?).

La questione dei migranti è colossale, ma non si risolve gridando contro di loro, istigando (cosa vuol dire “radere al suolo”?) e blaterando che la legge che fa schifo: l’ha fatta un leghista, primo firmatario, Umberto Bossi. Voi la fate, Maroni progetta la rete dei centri d’accoglienza e poi la colpa è degli altri?

Ma tutto questo schiamazzo non è inutile. Intanto, abbiamo un disoccupato in meno: Salvini. Poi, è facilmente spendibile un’accusa generica, contro chi non può difendersi e c’entra pure poco e niente. Ma rende dire che “bisognerebbe…” e fermarsi lì. Nessuno, come la Lega con Berlusconi, nella storia italiana (a parte il dittatore Mussolini) ha governato tanto tempo, con una maggioranza così grande. Chi avesse un minimo di pudore andrebbe a nascondersi per la vergogna, per non aver risolto le questioni per le quali oggi accusa gli altri (e che non intendo difendere).

Ma è così comodo creare un nemico su cui far sfogare la rabbia del popolo in difficoltà! Pensate se la gente, incazzata nera, se la prendesse con chi è davvero responsabile dei nostri disastri. Invece di assaltare la carrozza del re e del conte zio, si regalano scarpe chiodate al popolo, per prendere a calci i mendicanti, chi è già a terra.

Il razzismo non è mai gratis, ma sempre al servizio di una economia. Se si “dimostrava” che i neri erano più animali che esseri umani, era solo perché servivano “mandrie” di lavoratori gratis nei campi di cotone dei latifondisti americani; fino a che lo scontro armato fra due civiltà (quella industriale, nuova e dilagante negli Stati del Nord, e quella agricola degli Stati del Sud) recuperò i neri al genere umano. Tanto, da poter dire che se Satchmo Armstrong suonava la tromba da dio, non era perché si trattava di una specie di pappagallo o cane ben addestrato, ma perché era un genio; come quell’altro nero, pianista e cantante, considerato uno dei 10 più grandi artisti di tutti i tempi, Ray Charles, il pioniere del genere “soul”, che vuol dire “anima” e pare sia una dote umana (azz…, pure Salvini? Pensa quant’è stato bravo a non farsene accorgere!).

salone internazionale del libro 2012

IL NUOVO LIBRO DI PINO APRILE “TERRONI ‘NDERNASCIONAL, E FECERO TERRA BRUCIATA”, OVVERO COME SOTTOMETTERE E IMPOVERIRE I POPOLI LASCIANDO CREDERE LORO DI ESSERNE GLI UNICI COLPEVOLI.

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10814393_950897604937765_2069524597_n“Chi domina non vuole solo i beni dei subordinati, ma che essi rinuncino ai loro sogni”

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