di Flavia Sorrentino
“Altro che denaro pubblico, spesa assistenziale, sussidi e incentivi, e tutta la litania di doglianze e richieste che un sudismo d’accatto, quando non accattone, snocciola di continuo da convegni, simposi e pagine di giornali.” Così Antonio Polito commenta, con un editoriale uscito su “Il Corriere della Sera”, l’investimento fatto dalla Apple a Napoli, dove sarà aperto il primo centro di formazione per lo sviluppo e la ricerca di App in Europa. Per il vice direttore del quotidiano milanese, la richiesta di diritti da parte dei cittadini del Sud e la consapevolezza di vivere in un Paese fortemente diseguale, è da considerarsi una “litania di doglianze” , un fritto misto di elemosina e furbizia marpiona, che da qualche tempo invece interessa il dibattito sociale, culturale e per fortuna, politico.
Per Polito infatti, il futuro di Napoli deve superare l’affannosa e vana rincorsa del divario storico accumulato nel passato senza perder tempo a guardarsi indietro. Bisgona andare avanti, certo. Ma in che modo? La notizia che il colosso Apple investe nel capoluogo partenopeo è senza dubbio una opportunità di formazione straordinaria per i nostri giovani, vero incentivo di investimento per l’azienda di Cupertino che ad essi riconosce creatività e preparazione professionale di qualità. Ma ancora una volta la città di Napoli riceve un riconoscimento da chi la osserva con la lente di ingrandimento delle chances, non con lo sguardo distorto e distante dell’Italia, che punta all’annientamento delle sue potenzialità, attraverso un federalismo truccato (che ha drenato risorse agli enti territoriali più poveri), aggravato da una riduzione scandalosa dell’intervento pubblico statale, tutto proteso a favore del Centronord.
Serve avere capitale umano di prim’ordine in uno Stato che lo sacrifica, penalizza e sminuisce? Ma soprattutto, è possibile prescindere dal contesto in cui operano le aziende? L’investimento dei privati non dipende da esclusive ragioni di volontà, ma da molteplicità di fattori che rispondono anche a logiche di convenienza e profitto che un territorio più sviluppato e meglio collegato, con una buona copertura infrastrutturale, più garantire. Un territorio con grandi sacche di disoccupazione può competere e crescere solo se le politiche di governo sono concentrate sulla definizione di una strategia di sviluppo strutturale e sull’ adeguata ripartizione dei finanziamenti. Invece per dirne una, l’esecutivo, ha ridotto ad un terzo la programmazione dei fondi europei 2014-2020 in Campania, Puglia e Sicilia e ha utilizzato il reddito delle famiglie come indicatore di “merito” per stabilire tetti al turnover dei docenti universitari, favorendo di fatto lo spostamento di 700 ricercatori al Nord e un calo di iscrizioni negli atenei del Sud: se non si cambiano le regole, i validi e creativi giovani di Napoli cui Polito fa riferimento, potrebbero non formarsi più e abbandonare l’università, complici i costi e le rette da pagare, visto che anche le borse di studio per i meridionali sono sempre più saltuarie.
Ecco perchè definire “risibile, autarchica e provinciale una classe politica che vuole governare Napoli con la presunzione del fai-da te”, dimostra tutta la miopia di un pensiero caricato di pregiudizio, incapace di comprendere il processo di rinnovamento che il capoluogo partenopeo sta vivendo, dissetato culturalmente dalla riscoperta dell’identità e rappresentato politicamente dall’autonomia. Di pensiero e di azione. Che porta in sé l’audacia del cambiamento e la determinazione del riscatto di chi si assume il coraggio e la responsabilità di tornare a pensare in grande. Napoli porta stampata addosso da sempre, l’etichetta di città assistita. Ma dal 2010 al 2015 i trasferimenti statali sono stati decurtati del 60% con una perdita complessiva di circa 400 milioni di euro per la città, con il risultato che i servizi che riceve può pagarseli da sola. La Costituzione, nelle parti in cui disciplina i principi di coesione e solidarietà sociale atti a rimuovere gli squilibri territoriali, è stata puntualmente violata. Chiedere a quest’ Italia di comportarsi da Nazione sarebbe una richiesta oggettivamente eccessiva, ma dinanzi ad una evidente sperequazione e disomogeneità nella distribuzione delle risorse non si può pretendere che il Sud non decida di fare da sè.
Per decenni ci hanno convinto che con un’invasione armata “vennero a liberarci”. Di sicuro i giornali del Nord e i loro direttori, talvolta meridionali solo di nascita, continueranno nell’opera italiana di persuasione alla minorità. Toccherà a noi essere pronti: mo sappiamo che la nostra liberazione non può dirsi realmente libera, se non parte da qui. Da Napoli. Dalle nostre terre. Da Sud per il Sud.