Minori che delinquono
di Antonio Lombardi
Proprio in questo anno appena cominciato, ricorrerà il trentennale dell’approvazione del Codice di procedura penale per i minorenni (D.P.R. n. 448 del 22/9/1988). L’occasione è buona per riflettere un po’ sulla risposta dello Stato in presenza di reati commessi da minori, considerando che gli ultimi episodi di cronaca, a Nord come a Sud, rilanciano fortemente il tema.
I nodi problematici sono molteplici, ne introduciamo alcuni che sembrano fondamentali e che necessiterebbero di un approfondimento e di un eventuale intervento da parte del legislatore. In effetti, questo è un tema scarsamente, o per nulla, affrontato nel corso delle campagne elettorali, ma il Parlamento che si insedierà con le prossime elezioni politiche dovrà probabilmente mettere mano ad una riforma del suddetto codice, partendo dai 30 anni di esperienza sviluppatisi.
In Italia chi non ha compiuto 14 anni al momento in cui ha commesso il reato non è imputabile (art. 97 c.p.). Ciò significa che non può essere processato; verso costui o costei possono essere solo assunti provvedimenti di carattere civile o amministrativo, al fine di facilitare interventi educativi ed eventualmente allontanarlo/la dalla famiglia. In ambito penale, agli infraquattordicenni può al massimo essere applicata una misura di sicurezza, fintantoché perdura la sua eventuale pericolosità sociale: le prescrizioni, cioè delle limitazioni alla libertà (ad esempio: la sera rientrare a casa entro una certa ora, non utilizzare motorini, ecc.) o il collocamento in una comunità educativa, se fugge dalla quale (basta aprire la porta e andarsene) non risponde del reato di evasione, ma certo ne prolunga la durata in ragione del fatto che ancora non si mostra affidabile.
Questo dell’età nella quale si diventa imputabili è un tema delicato e fondamentale, perché in tensione tra due poli: da un lato la consapevolezza che un minore non sempre è pienamente responsabile dei suoi agiti (induzione da parte degli adulti, modelli educativi negativi, ecc.) dall’altro il diritto della collettività ad essere tutelata da giovanissimi che delinquono e, talora, lo fanno in maniera estremamente violenta.
È il caso del tredicenne che nel veronese ha ucciso un senza fissa dimora dandogli fuoco: non imputabile.
Forse è giunto il momento di valutare se abbassare la soglia dell’imputabilità (che, tra l’altro, per effetto dell’art. 98 c.p. potrebbe anche non essere riconosciuta tra i 14 ed i 18 anni se, nel momento in cui ha commesso il fatto, il minore non aveva capacità d’intendere e di volere). Come ci si regola all’estero? Il discorso sarebbe in realtà complesso, perché andrebbe articolato con i differenti sistemi giudiziari e sanzionatori, ma comunque, semplificando, facciamo qualche esempio. In Svizzera e in Grecia si diventa imputabili a 7 anni; in Scozia ad 8, in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord a 10; in Portogallo ed in Olanda a 12 anni; in Germania la soglia dell’imputabilità è fissata a 14 anni come in Italia, in Finlandia è elevata a 15. Negli Stati Uniti l’età imputabile varia da stato a stato, fino ad un limite minimo di 7 anni. Si badi bene che le statistiche non rivelano alcuna correlazione tra bassa soglia di imputabilità e diminuzione dei reati commessi dai minori: questa precisazione serve a comprendere che un eventuale abbassamento in Italia non va concepito come azione di prevenzione, ma semplicemente (e comunque non è poco) come misura di contenimento finalizzata alla protezione della comunità e all’attivazione di una risposta sanzionatoria –e in quanto tale educativa- nei confronti del minore.
Uno degli istituti cui si fa sovente ricorso nei procedimenti penali a carico di imputati minorenni è la cosiddetta “messa alla prova” (art. 28 D.P.R. 448/88), talvolta anche per gravi reati. In pratica il processo viene sospeso e il minore deve impegnarsi in un progetto educativo che preveda attività di formazione, socializzazione, riparazione, attraverso l’intervento dei servizi sociali.
Se l’esito è positivo il reato viene estinto (in pratica cancellato, senza lasciare alcuna traccia nella vita del minore); viceversa, se l’andamento è negativo, si riprende il processo fino alla sua naturale conclusione. La messa alla prova è stata introdotta in Italia proprio con il nuovo codice di procedura penale per i minorenni e rientra in quella filosofia della “giustizia riparativa” (ti sollecito a riparare il danno che hai fatto, per riabilitarti) che dovrebbe sostituire la “giustizia retributiva” (hai fatto un danno e ti punisco) che, non c’è dubbio, almeno formalmente è un elemento di progresso giuridico. Il problema, dunque, non si pone sul piano ideale, ma su quello sostanziale di un ricorso a tale istituto forse troppo esteso.
Il legislatore potrebbe prevedere, ad esempio, limiti alla sua applicabilità con riferimento a tipologie di reato e/o alle circostanze in cui esso è stato commesso, per dare un segnale educativo forte di condanna del gesto compiuto e al fine di prevenire un pericoloso senso di impunità che il minore potrebbe percepire, in tal caso con una possibile ricaduta sullo sviluppo della sua personalità in senso antisociale.
Il carcere, che attualmente risulta un’ipotesi residuale sia in fase cautelare che esecutiva, potrebbe essere rivalutato nella sua funzione di tutela della comunità, senza naturalmente rinunciare ad un suo orientamento educativo e non meramente contenitivo.
Subire un reato è già di per sé una sventura; subirlo da un minore è una sventura più grande. In generale la vittima del reato è troppo assente nella giustizia in Italia. Esistono servizi pubblici che si prendono specificamente cura dei colpevoli (ed è una buona cosa) ma non delle loro vittime (ed è una pessima cosa), le quali difficilmente possono accedere a qualche forma di aiuto che non sia solo di natura economica.
E comunque, anche in quest’ultimo caso, se a commettere il reato è stato un minorenne, la vittima non può neppure costituirsi parte civile nel procedimento penale a carico di costui “per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato” (art 10 D.P.R. 448/88): uno sbilanciamento in favore dell’imputato minore che può suonare come una sorta di vessazione sulla vittima del reato. Questa norma andrebbe forse cancellata. Con le parti civili presenti ed operanti nel procedimento, infatti, la responsabilità del minore verrebbe maggiormente enfatizzata e la risposta dello Stato potrebbe essere, non tanto più sanzionatoria, quanto più esigente sul piano riparativo (e dunque educativo).
Non dimentichiamo che anche una collettività può essere vittima di un reato. Immaginiamo un gruppo di tifosi minorenni che insultano e cantano cori razzisti e violenti (Oh Vesuvio, lavali col fuoco! Napoletani colerosi!); immaginiamo che finalmente vengano identificati e denunciati: il Comune -che rappresenta i napoletani- non può costituirsi parte civile nel procedimento penale a loro carico per ottenere un risarcimento del danno, ma deve eventualmente avviare una causa civile separatamente: spese, tempi lunghi e minore incisività del processo penale stesso sui minori imputati. Tanto più, poi, se parliamo di uno stupro o di una rapina o di un omicidio.
È evidente che queste minime riflessioni lasciano tranquillamente il tempo che trovano se lo Stato non si impegna nell’operazione più importante ed urgente: l’educazione delle comunità all’esercizio della responsabilità educativa. Educare ad educare. Urgono percorsi per l’apprendimento della pratica competente e responsabile della genitorialità, servizi ed iniziative sul territorio tesi a sottrarre i bambini e gli adolescenti agli influssi nefasti degli adulti maldestri o malevoli nel dare il buon esempio e trasmettere valori positivi, e ogni altra azione creativa, seria e ben organizzata, finalizzata a rendere le comunità locali delle comunità educanti. E dove non arriva la buona volontà degli adulti deve arrivare lo Stato a escludere quegli adulti stessi –senza troppe cerimonie- dal contatto con i minori a rischio.
L’ipergarantismo degli adulti e in particolare dei genitori, nel settore della tutela dei minori, può rappresentare un duro colpo al diritto di crescita costruttiva di questi ultimi e, alla fine, rivelarsi una ferita inferta alla maggioranza onesta ed inerme dei cittadini.