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Separiamoci: ci conviene?

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Il seguente passaggio è tratto dal libro Separiamoci di Marco Esposito

I numeri chiave sui quali ragionare sono in fondo elementari. Nel Sud (qui riferito per comodità di ripartizione statistica a 8 Regioni, isole comprese) vive il 34% degli italiani, circa un terzo. La ricchezza prodotta, per le note ragioni, è solo il 24%, ovvero circa un quarto del totale. Le tasse versate nella cassa comune – nonostante si dica che il Sud sia il regno dell’evasione – sono appunto circa un quarto del totale nazionale. In base al principio che ciascuno dà in proporzione alle proprie possibilità e riceve in proporzione ai propri bisogni, il Sud dà (e in effetti dà) il 24% e dovrebbe ricevere il 34%, ovvero una quota vicina al numero di bambini, anziani, persone cui assegnare servizi sociali. In realtà lo Stato, fino al 2010, svolgeva un effetto di parziale riequilibrio nella distribuzione delle risorse, sia pure decrescente nel tempo (la spesa complessiva in conto capitale, cioè per investimenti, destinata al Mezzogiorno è scesa dal 40% del 2001 al 34% del 2010). Tuttavia, dopo le manovre finanziarie del 2011-2012, tale effetto si è attenuato o si è addirittura ribaltato e ormai destina al Sud un valore vicino al 24% come spesa corrente (stipendi e pensioni, in primo luogo) comprensiva degli interessi sul debito; mentre spende un po’ di più, il 30%, come quota di investimenti. Il beneficio degli investimenti è solo in apparenza dovuto alla volontà dello Stato italiano, in quanto è legato per oltre metà al flusso di fondi europei, per cui il bonus rispetto alla quota di tasse versate dal Sud proviene da Bruxelles e non da Roma. Senza il contributo di Bruxelles, la quota di investimenti ordinari destinata al Mezzogiorno è scesa dal 2010 al 2011 di quasi 7 punti, dal 25,5% al 18,8%, e ancora non sappiamo con precisione cosa sia accaduto nel 2012, se non che la tendenza si è confermata. Fatto sta che, per la prima volta da quando esistono le statistiche, nel 2011 non è stato il Nord ricco a dare qualcosa al Sud, ma il Sud povero a girare qualcosa al Nord. Purtroppo non è una sciocchezza o una provocazione dire che con le proprie tasse i contribuenti del Sud contribuiscono ad aumentare il divario con il Nord, visto che dal 2011 ricevono una quota di investimenti pubblici vistosamente più bassa rispetto allo sforzo fiscale. Ed ecco perché parlare oggi di separazione non è più un esercizio intellettuale o una provocazione, bensì una delle possibili risposte alla rottura di fatto dei principi cardine di uno Stato: l’Italia ha smesso di credere che le persone hanno diritti in quanto individui e non in base alla ricchezza personale.

Le classifiche 

Con 14 milioni e 500.000 residenti, Mediterranea – il Mezzogiorno senza la Sicilia e la Sardegna, ma con gli ex distretti di Gaeta, Sora e Cittaducale – sarebbe uno Stato europeo di media grandezza e tra i 27 della UE – a quel punto 28, se non di più – si posizionerebbe al 9° posto, subito dopo l’Olanda e prima della Grecia, del Portogallo, del Belgio, della Repubblica Ceca, dell’Ungheria, della Svezia, dell’Austria, della Bulgaria, della Danimarca, della Slovacchia, della Finlandia e di altri 7 Stati ancora più piccoli. In base alla superficie, con i suoi 75.000 chilometri quadrati, sarebbe soltanto 16a, in quanto più piccola della Repubblica Ceca e un po’ sopra l’Irlanda. Se dalla Spagna si dovesse staccare la Catalogna, quest’ultima avrebbe la metà degli abitanti e della superficie di Mediterranea. In termini demografici, la capitale, Napoli, non sfigurerebbe, visto che è la settima area urbana europea per popolazione, a pari quota con Barcellona. Nella classifica per ricchezza complessiva, Mediterranea si farebbe scavalcare da Paesi meno abitati e non propriamente ricchi come la Grecia, mentre supererebbe Stati più popolosi, ma anche meno agiati come la Romania. In tutte le classifiche europee, in pratica, Mediterranea sarebbe uno Stato non troppo diverso da tanti altri, con risorse e problemi, potenzialità di crescita e rischi. Ma stavolta il suo destino dipenderebbe soltanto da se stesso e dalla capacità di far squadra insieme agli altri.

 

Più di ogni classifica, conterà la percezione che avremo di noi stessi. Non più periferia di qualcosa, ma centro.

Attualizzare la questione meridionale – Uno sforzo unitario per evitare la deriva astoricizzante

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di Massimo Mastruzzo

25 settembre 2017

Prendiamo atto di due diagnosi: l’intervento di Angelo Sposato, segretario regionale CGIL della Calabria, ai microfoni di Italia parla[1] e l’articolo di Paolo Macry sul Corriere del mezzogiorno. Queste disamine ripropongono la solita triste prognosi: la Calabria sembra essere un  territorio dimenticato che solo i rapporti della Svimez  e dell’Istat riportano brevemente all’attenzione dei mass media. Attenzione fugace, distratta. Un vago lamento che dirige meccanicamente lo sguardo sull’ammalato cronico. Una crudele cronicità che dura da 156, con buona pace dei teorici dell’unità salvifica.

Una regione dimenticata, un territorio in abbandono, dove mancano le risorse anche per gli interventi ordinari e nessuno più investe. È questa la Calabria descritta da Sposato: “Quella che manca è una visione generale delle cose da fare – ha spiegato il dirigente sindacale –. Anche la recente iniziativa ‘Cantiere Calabria’, che ha visto la partecipazione di quattro ministri all’università di Cosenza rischia di restare sulla carta, perché nessuno dei rappresentanti dello Stato ha preso un impegno concreto sui fondi ordinari per la nostra Regione. Noi abbiamo chiesto un cambiamento di strategia a livello nazionale, con un riequilibrio nella redistribuzione delle risorse che il governo destina quasi esclusivamente alle regioni del Centro-Nord ”.

Sorge il dubbio che Sposato sabbia virato verso il Meridionalismo. Affermazioni del genere lo candidano fortemente ad una tessera onoraria in qualsiasi realtà a noi affine.

Il dubbio si fa quasi certezza, quando il sindacalista rilancia con : “Nel pubblico impiego in Calabria la situazione è ancora più emergenziale, perché il calo demografico dovuto allo spopolamento del territorio con la fuga dei giovani mette in forse la stessa sopravvivenza di molte pubbliche amministrazioni. Un caso limite è quello di Vibo Valentia, il cui comune è al collasso, non paga i dipendenti da mesi e vi sono 5.000 Lsu-Lpu da stabilizzare e contrattualizzare. Per non parlare di vertenze come Call and call di Locri, che purtroppo sono l’emblema delle politiche pubbliche fatte di bonus, decontribuzioni e incentivi che si sono dimostrate fallimentari nel corso del tempo”, e ancora : “Attualmente, è  come se le grandi reti si fermassero ai confini della nostra regione: penso alla statale 106 jonica, la cui ristrutturazione è ferma ai confini con la Basilicata; all’Alta velocità ferroviaria, che non va oltre Salerno; al porto di Gioia Tauro, che rischia di rimanere uno scatolone vuoto, se non s’investe sull’area retroportuale. Oltretutto, con la sparizione delle province, abbiamo anche problemi di collegamenti interni, perché la manutenzione delle strade ordinarie non la fa più nessuno. Per non parlare della messa in sicurezza del territorio, che si ripropone ogni volta che piove o c’è il mare mosso”.

Naturalmente le ragioni di questa “sbandata” sui nostri temi può essere frutto di ragioni più ovvie. Purtroppo. Non serve il polso da meridionalista per rimanere sgomenti difronte alle cifre fornite dalla Svimez e relative al rischio desertificazoine demografica del meridione.

Paolo Macry riporta, nel suo articolo, il giudizio disincantato di Angelo Panebianco, secondo il quale è ormai illusorio pensare ad un superamento del gap tra Nord e Sud, e che ha ormai riaperto il dibattito sulla «quistione». impossibile bollare il tema come “déjà-vu“,a nche a giudicare dal dibattito aperto sulle pagine del corriere.

Era prevedibile, per esempio, rispondendo a Panebianco due economisti di differente ascendenza scientifica e politica come Adriano Giannola e Massimo Lo Cicero esprimessero diagnosi piuttosto antitetiche. Il primo, convinto che il Nord non vada da nessuna parte senza il Sud. Il secondo, più pessimista, che il Paese sia già meridionalizzato. Ma è invece significativo che, per il resto, i due dicano cose simili, esprimendo giudizi molto critici sulle regioni meridionali e sul loro ceto politico e proponendo, in sostanza, la stessa ricetta: neocentralismo.

Dibattito che potrebbe anche essere interessante, se non fosse che i problemi irrisolti del Mezzogiorno, prima ancora che dall’alternativa tra centralismo e decentramento, sono oramai sintetizzabili nei  dati che illustrano una disomogeneità nazionale unica nel panorama europeo.

Centralismo o regionalismo o federalismo che dir si voglia, dibattuti come argomenti nazionali, sembra,  per non voler affrontare il vero storico problema di una irrisolta Questione Meridionale denunciata a cominciare dall’immediato post unitario, una crescente iniquità in ogni campo, dall’economico  al sociale all’infrastrutturale, a discapito della popolazione meridionale. E non sto ad elencare personoaggi che da Francesco Saverio Nitti ad Antonio Gramsci  fino al più recente Nicola Zitara hanno denunciato le modalità in cui è avvenuta l’unificazione. E’ inutile continuare a discutere di un problema contemporaneo se si fatica a coglierne i nessi causali. Si continua a discutere sulle basi di una sociologia “non-generata”, come se l’oggetto dello studio non avesse un’origine e la situazione attuale fosse da considerarsi innata. Astoricizzare il concetto per giustificare la mitologia del (mica tanto) buon selvaggio terrone e colpevole.

Quale la soluzione, allora?

Al momento la nascita di nuove realtà meridionaliste sembra essere più una reazione all’indignazione. Vedere morire il proprio territorio ed emigrare i propri cari, sta generando via via un moto di rivalsa. Ma per ora non possiamo dire di trovarci difronte ad una vera e propria azione articolata che punti ad affrontare la Questione. Nella stragrande maggioranza dei casi questa reazione è puramente d’opinione, e non ne consegue alcun impegno politico. Nei casi in cui questo impegno viene “quagliato” ci si imbatte nel sistema di rivoli ideologici che frastagliano il meridionalismo: si va dagli indipendestisti, agli autonomisti, ai macroregionalisti e così via.

MO – Unione Mediterranea nasce per cercare di riunire queste  realtà che nella loro apparente diversità hanno un minimo comune denominatore: salvare il proprio territorio dalla ineluttabile indistricabilità della Questione Meridionale. Il nostro compito, nel proporre soluzioni, dovrà tenere conto dello scopo, e creare aggregazione. L’unione fa la forza, e l’apparente banalità di questa locuzione non può nasconderne l’efficacia.


[1]. Intervento di Angelo Sposato su RadioArticolo1

Mezzogiorno: prospettive e sviluppo posticipate al 2020

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Lo scorso 10 Dicembre, in un articolo di Andrea Del Monaco pubblicato dalla Gazzetta del Mezzogiorno, l’esperto di Fondi Europei ha denunciato l’ultimo schiaffo italico alle prospettive del Sud: la manovra 2017, colpo di coda renziano, ha deciso la ripartizione dei 46 miliardi di investimenti previsti per il periodo 2014-2020 del Fondo di sviluppo e coesione.
Il Fondo di sviluppo e coesione, così denominato nel 2011, è finalizzato a dare unità programmatica e finanziaria all’insieme degli interventi aggiuntivi a finanziamento nazionale, che sono rivolti al riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese. Una nobile intenzione, come forse era quella del governo Letta che, nel 2014, aveva destinato l’80% del fondo al Mezzogiorno.
Cosa ha stabilito la manovra? I miliardi del fondo sono stati ripartiti in modo da rimandare l’investimento di più del 75% del Fondo al 2020. Più precisamente è stato disposto che, in termini di cassa, le autorizzazioni di spesa saranno pari a 2,6 miliardi per il 2017, a 3,5 miliardi per il 2018 e a 3,8 miliardi per il 2019. Il resto, più di 35 miliardi, è stato lasciato ai “posteri”, coloro che disporranno del Fondo tra quattro anni.
Nessun taglio al Fondo, e allora che c’è di male?
C’è di male che al Mezzogiorno sono numerose le opere infrastrutturali che rimarranno quantomeno incomplete nei prossimi anni. Nell’articolo emerge che la posticipazione degli investimenti implica “che non ci sono i soldi per concludere le dorsali ferroviarie Napoli- Bari- Lecce- Taranto, Salerno- Reggio- Calabra, Messina- Catania- Palermo, oppure l’autostrada Sassari Ogliastra”.
Del Monaco imputa tanta scelleratezza all’austerità della cancelliera Merkel e al suo Ministro dell’economia, Schauble, i quali avrebbero imposto di azzerare il deficit strutturale di bilancio nel 2019 ma, che la colpa sia di Renzi o dei diktat, ciò che rimane al Mezzogiorno è una condizione di sottosviluppo infrastrutturale imperdonabile. Mentre al centro-nord crescono i treni ad alta velocità, a Sud si subisce giorno per giorno un vistoso calo dell’offerta: non solo l’alta velocità resta un miraggio, ma negli ultimi sei anni regionali e intercity hanno visto una riduzione dei servizi del 6,5% per i primi e del 19,7% per i secondi.
Com’è possibile immaginare sviluppo dove un turista, uno studente o un prodotto impiegano il triplo per spostarsi rispetto a un nord Italia ben collegato, o rispetto a un’Europa dotata di corridoi ferroviari velocissimi e treni merci lunghi due o anche tre volte tanto? E se anche il debito fosse zero, cosa investirebbe il governo per creare opportunità a Sud?
Era meno di un anno fa che il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio, dichiarava di voler “recuperare il ritardo di decenni per le infrastrutture al Sud”, sempre omettendo che allo sviluppo ferroviario del Mezzogiorno sarebbe stato destinato solo l’ 1,2 % degli stanziamenti dello Sblocca Italia e della legge di Stabilità.
I rapporti Svimez, l’atteso (e disatteso) proposito di un Masterplan per il Sud, l’orribile scontro fra treni sul binario unico del luglio scorso, con le sue 23 vittime, le opportunità offerte dalla rinnovata centralità del Mediterraneo nelle rotte commerciali intercontentali: nulla sembra essere abbastanza convincente da incoraggiare gli investimenti a Sud.
Eppure forse c’è speranza: due meridionali su tre hanno votato NO al referendum, segno inequivocabile che la classe dirigente non gode più della fiducia del Mezzogiorno, e forse sta perdendo un treno che non passerà mai più.

Governo Gentiloni: perchè non cambia niente per il Sud.

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Di Flavia Sorrentino

Che il neo governo di Paolo Gentiloni abbia un Ministro ad hoc per il Mezzogiorno, il professore Claudio De Vincenti, già sottosegretario di Stato, non basta a rassicurare i cittadini meridionali che il 4 Dicembre hanno sonoramente bocciato la riforma costituzionale, divenuta per l’eccessiva personalizzazione, un banco di prova e fiducia popolare verso l’operato politico dell’esecutivo Renzi. Il nuovo governo infatti, è di fatto un Renzi-bis che conferma 12 ministri su 18 incaricati e addirittura promuove ai piani alti di Palazzo Chigi Maria Elena Boschi, che pur declamandosi esempio di classe dirigente non attaccata alla poltrona, ha accettato senza riserve il prestigioso ruolo di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio sacrificando la coerenza sull’altare dell’arroganza: il cortocircuito di chi si definisce rottamatore e si rivela restauratore. Due sono invece le new entry tra i Ministri a capo di un dicastero, Marco Minniti subentrato ad Angelino Alfano andato agli Esteri e Valeria Fedeli che prende il ruolo di Stefania Giannini, sostituita dopo i risultati della “Buona Scuola.”

Per il resto vengono riconfermati tutti: Orlando alla Giustizia, Pinotti alla Difesa, Padoan all’Economia, Calenda allo Sviluppo economico, Martina all’Agricoltura, Galletti all’Ambiente, Poletti al Lavoro, Franceschini alla Cultura, Lorenzin alla Salute e Delrio alle Infrastrutture. Cosa debba aspettarsi di diverso il Sud dalla squadra di Governo che in tre anni ha aggravato pesantemente le differenze territoriali nel paese, è la domanda a cui dobbiamo realisticamente provare a rispondere. Cambierà forse la legge leghista sulla sanità che assegna meno fondi alle Regioni in cui l’aspettativa di vita media è più bassa? Il ministro della Salute resta Beatrice Lorenzin che definisce i morti di cancro nella terra dei fuochi il risultato dei cattivi stili di vita in Campania e non la conseguenza di decenni di criminale affarismo politico-imprenditoriale irrobustito da indifferenza ed accondiscendenza di Stato. Resta al suo posto anche Graziano Delrio, che sarà ricordato dai posteri per aver rinviato ai “prossimi riparti” le storture sul calcolo dei fabbisogni standard della rete di servizi Welfare del Mezzogiorno (asili nido ed Istruzione) e per non aver investito nelle infrastrutture ferroviarie per colpa delle rocce al Sud.

L’esecutivo Gentiloni è lo stesso delle soglie di povertà calcolate in modo che risultassero più alte nel settentrione d’Italia, riservando il 45% dei sussidi al meridione e il 55% dei sussidi al Nord; è il governo dei 7 miliardi e 5 milioni al centro-nord e 4 milioni al sud per i progetti europei fino al 2020; è il governo dei voucher e dei 2 miliardi di euro del Sud del Piano di Azione e Coesione utilizzati per incoraggiare 536.000 nuove assunzioni al Nord, mentre i dati Istat sulla povertà, l’esclusione sociale e la disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno raggelano il sangue per drammaticità e continuità nel tempo. 

Ma questa volta-si dirà- è stato incaricato un Ministro senza portafoglio (ma dai!) per affrontare la questione meridionale, di matrice risorgimentale, mai risolta. A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina: il Sud che comincia a reagire e ha votato in maggioranza per il NO al referendum, se non può essere fermato quanto meno deve essere imbonito, lusingato e controllato. Così Claudio De Vincenti, che fino a ieri ha partecipato a tutti i tavoli di concertazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e quindi alle decisioni discriminatorie contro il Sud, è diventato la garanzia e la promessa per la ripresa e lo sviluppo meridionale. “Il nostro Paese-ha dichiarato- ha bisogno per il suo sviluppo che il Mezzogiorno prenda in mano il suo destino e dia il suo contributo.”

Quale altro contributo? C’è da chiedersi. Quanti contributi deve ancora dare la colonia Sud prima di vedersi riconosciuti giustizia sociale, dignità lavorativa, pari diritti, condizioni ed opportunità? Un territorio con grandi sacche di disoccupazione può competere e crescere solo se le politiche di governo sono concentrate sulla definizione di una strategia di sviluppo strutturale (che preveda magari una fiscalità di vantaggio per le imprese che investono e assumono al Sud) e sull’adeguata ripartizione dei finanziamenti. Invece per dirne un’altra, il governo Renzi ha ridotto ad un terzo la programmazione dei fondi europei 2014-2020 in Campania, Puglia e Sicilia e ha utilizzato il reddito delle famiglie come indicatore di “merito” per stabilire tetti al turnover dei docenti universitari, favorendo di fatto lo spostamento di 700 ricercatori al Nord e un calo di iscrizioni negli atenei del Sud. De Vincenti questo lo sa, c’era anche lui quando drenavano risorse favorendo emigrazione e desertificazione industriale. Ed era sempre lui ad affermare che «non è scontato che sia un bene introdurre una decontribuzione differenziata ad hoc per il Mezzogiorno» così come era lui a definire <<strumentalizzazioni per coprire l’inadeguatezza del servizio sanitario pugliese>> le proteste dei tarantini dopo dietrofront del governo sui 50 milioni di euro da destinare ai bambini vittime del mostro Ilva tenuto in piedi a colpi di decreti di Stato.

Ci dicono che dobbiamo rimboccarci le maniche, ma ci fendono le braccia. Dobbiamo imparare a correre e ci spezzano le gambe. Smettetela con questo vittimismo, dicono i carnefici. Eppure su una cosa hanno ragione: dobbiamo cogliere ancora di più e con più convinzione l’invito a fare bene da soli, in autonomia. Per il Sud imperversano tempi bui e di peggiori se ne prospettano se non sapremo cogliere la richiesta di rappresentanza che viene dai territori e delle fasce più deboli della società. Tutta la sfiducia e la refrattarietà alle promesse dei partiti italiani, compresi quelli di opposizione che ora fanno la voce grossa ma in Parlamento si adeguano per fregare il Sud, è emersa con il voto sulla riforma Costituzionale. La Carta Costituzionale è salva, per niente lo sono i diritti che contiene. A partire dall’equità e dall’ uguaglianza che per troppo tempo ci sono apparse come concessioni straordinarie e che ora dobbiamo rivendicare come espressione di ritrovato orgoglio e dignità.

 

 

Il capitalismo e il suo rapporto di dominio con il Sud Italia e i Sud del mondo.

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Il capitalismo  e il suo rapporto di dominio con i Sud del Mondo e con il nostro Meridione in particolare

“Le nazioni dell’Europa dovrebbero essere guidate verso il superstato senza che i loro popoli sappiano cosa sta accadendo. Ciò si può ottenere tramite passi successivi, ognuno mascherato da uno scopo economico, ma che porterà alla fine e irreversibilmente alla federazione” (Jean Monnet, fondatore dell’Unione Europea con George Murnane della Banca Monnet and Murnane § Co)

Totalitario è quel regime che non si accontenta di controllare la società ma pretende di trasformarla in nome di un’ideologia totalitaria appunto, che la pervada interamente attraverso un uso combinato del terrore e della propaganda.

Premessa

La prima domanda che ogni persona, che fa parte di movimenti meridionali, deve porre a se stessa è: quali sono le motivazioni che mi hanno spinto a far parte di un movimento  che si richiama alle istanze di ricerca di autonomia della soggettività meridionale? La risposta, che dovrebbe essere, almeno in parte, comune,  è decisiva al fine di creare  gruppi il più possibile omogenei e dialoganti. Certamente le risposte possono essere molte, ma se tra le possibili motivazioni mancasse una motivazione storico – politica e, soprattutto, culturale, che sia ricerca di senso e di identità, il tutto crollerebbe come un castello di sabbia;  non c’è, infatti, politica senza cultura, così come non c’è cultura senza politica, nel senso che esse sono  due momenti di un unico processo circolare: i due termini di teoria e prassi, se separati, creano alienazione e incapacità di orientamento in una società complessa come quella attuale, caratterizzata, tra l’altro, dalla liquidità dei valori e dalla disgregazione sociale. Ciò premesso,  ci permettiamo di fare,  in modo sintetico e schematico,  un’analisi della realtà attuale della quale  siamo convinti, della conseguente condizione il cui il sud si trova e delle possibili direzioni di ricerca e di lavoro che si possono seguire.

L’ analisi

Non si può pensare storicamente il nostro tempo, specie gli ultimi tre decenni, senza pensare al capitalismo finanziario come sistema di potere che oggi domina il mondo, e del quale, paradossalmente , poco si parla. E, se lo si fa, si è attraversati da uno strano senso di disagio perché esso è comunemente percepito come un “fenomeno naturale” della nostra vita quotidiana.  Un sistema de-eticizzato che sta distruggendo i luoghi  naturali della formazione etica dell’uomo: la famiglia, ormai in profonda crisi;  la scuola considerata un’azienda, il lavoro ridotto a merce.L’ individuo  è ridotto a puro atomo senza radicamento, precarizzato e senza futuro e i rapporti sociali improntati alla logica del contratto Un sistema che ha desacralizzato  il mondo riducendolo a pura utilità e che ha messo in congedo le religioni, che potrebbero costituire ancora una possibile alternativa o resistenza al capitalismo. Un sistema che coniuga scambio ed organizzazione tecnologica, caratterizzato dall’assolutizzazione dell’economico, dal monoteismo del mercato, dallo smantellamento della sovranità dello Stato nazionale  e della  sua egemonia politica sull’economia.

Andare all’ origine del Capitalismo, individuare le condizioni che lo hanno reso possibile, tracciare il lungo secolare percorso storico delle sue metamorfosi in questa  nota non sarebbe possibile. Qui ci limiteremo a fare, prima di entrare nel merito dei suoi rapporti di dominio dell’economia di mercato, una schematica sintesi del periodo che va dal secondo dopoguerra ai giorni nostri e che può essere diviso in due fasi:

la prima  va dalla conferenza di Bretton Woords  (1 – 22 luglio 1944 durante la quale, stante la completa fiducia nel sistema capitalistico da parte di tutti i 44 stati aderenti, si stabilì la convertibilità di tutte le valute in  dollari) alla fine degli anni settanta;

la seconda fase va dalla fine degli anni settanta  ai giorni nostri.Tale fase è caratterizzata, fin dall’inizio, dalla deregulation che ha dato il via alla globalizzazione  e finanziarizzazione dell’economia.

La prima fase,  che si può definire del capitalismo regolato,  si caratterizza in Occidente per l’eccezionale crescita della produzione, per la stabilità economica, per la riduzione delle disuguaglianze, per la creazione di un ceto medio e, soprattutto per una prevalenza della politica e delle sue capacità progettuali sull’economia. Un periodo unico nella storia, durante il quale, tra l’altro,  si è avviato e, in parte, concluso il processo di decolonizzazione dei paesi ex coloniali

Ma quali sono state le cause che hanno provocato lentamente ma inesorabilmente la deregulation e il conseguente cambiamento che oggi noi sperimentiamo nella nostra esistenza quotidiana? Tra esse sicuramente un ruolo importante hanno avuto :

L’Inflazione Il ruolo primario dello Stato, le scelte di  politica  economica ed industriale da esso operate, le grandi spese sostenute, determinarono aumento di spesa pubblica finanziata con emissione di nuova moneta che causò  una notevole  inflazione. La politica monetaria restrittiva che ne seguì e la riduzione delle politiche sociali furono  destabilizzanti.

La contrazione dell’occupazione favorita anche  dallo sviluppo tecnologico e dal passaggio dalla fabbrica fordista (che  aveva anche  avuto il merito di far organizzare gli operai nei sindacati e a dar loro forza contrattuale) ad una organizzazione del lavoro parcellizzato.

Presenza sui mercati internazionali  di un’enorme massa di denaro conseguenza dell’aumento triplicato del prezzo  del petrolio (1973) e dei conseguenti enormi profitti delle compagnie, che, complice la politica degli anni ‘80 di Reagan e della Thatcher, facilitò  il processo di liberalizzazione  dei capitali e  privò i singoli Stati di sovranità finanziaria

Fu tale liberalizzazione a dare inizio al processo di globalizzazione dell’economia  e della conseguente finanziarizzazione  del mercato. Oggi la massa delle attività finanziare raggiunge l’astronomica cifra di cento trilioni di dollari, corrispondente al doppio del PIL mondiale)

Il capitalismo col tempo  aveva già eroso sia la moneta che il credito, introducendo da una parte la moneta di carta e dall’altra la procrastinabilità  del credito, aggirando cosi sia la convertibilità in oro della moneta  ( il 15 agosto 1971, a Camp David, presidente statunitense Richard Nixon, aveva annunciato la sospensione della convertibilità del dollaro in oro)  che l’obbligazione della  solvibilità del credito che si realizza per gli investimenti attraverso la borsa, e attraverso il debito per la finanza pubblica,. Un paradosso che ha determinato da una parte la liquefazione e, quindi, l’identificazione dei due pilastri dell’economia (moneta e credito erano tradizionalmente ben distinti) e, insieme, l’autonomizzazione del mercato finanziario, che manca totalmente di meccanismi di autoregolazione perché tratta di titoli ( il cui valore è liquido) e non di merci  reali il cui scambio è regolato dalla legge della domanda e dell’offerta; dall’altra ha modificato  il rapporto di forza, tra stati nazionali e multinazionali, a favore di quest’ultime. Il mercato finanziario, insomma, è il gioco folle che ha travolto l’economia finanziaria americana e, con essa, quella degli altri stati. Scriveva Keynes prima del crollo “se lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che vi sia qualche cosa che non va bene”.Purtroppo il gioco ancora continua così come continua a crescere il debito considerato ormai  una scommessa. Un debito enorme che coinvolge tutti gli stati del mondo e del quale ognuno di noi dovrebbe almeno domandarsi chi sono i creditori.

                                                              Le conseguenze

Ci troviamo ormai all’apice del capitalismo, (molti – come Luciano Vasapollo – parlano di crisi sistemica;  altri – come Agostino Spataro – ritengono che la crisi parrebbe denunciare una difficoltà, perfino un declino, non tanto del sistema capitalistico in se stesso quanto dell’egemonia occidentale sul terreno dell’economia e della cultura) perché esso tutto ha condotto ad una vera e propria economicizzazione del reale e del simbolico. Tutto è merce. Si è realizzata  una vera e propria aziendalizzazione della società; Lo Stato stesso  è considerato  un’azienda.  La politica non decide più ma ratifica e amministra ciò che il mercato ha deciso, cioè ciò che hanno deciso le oligarchie economiche e finanziarie, entità senza volto che nessuno ha eletto e che decide del destino dei popoli. In questo tragico scenario di globalizzazione e di mercatizzazione, dove l’interesse produce danaro dal danaro, dove l’economia funziona con lo spread, con azioni e CDS  (Credit Default Swap, cioè i derivati creditizi) (1) , i partiti, o meglio il centro destra e il centro sinistra in Italia, pienamente d’accordo sul pensiero unico neoliberale, svolgono la funzione, attraverso i media, ( la spinta pubblicitaria operata dal capitale raggiunge l’astronomica cifra, a livello mondiale, di 500 miliardi di dollari all’anno) di far credere ai cittadini che sono ancora essi a decidere. Significativo, da parte loro, il richiamo alla necessità dell’Europa, non quella dei popoli, ma quella dell’Euro che appare oggi, più che mai, non tanto una moneta, quanto uno strumento del capitale mosso dalla logica di far prevalere, sempre di più, l’economico sulla politica, di ridurre al massimo i diritti e la sovranità degli Stati. Si tratta di un sistema che produce debito con effetti socialmente perversi perché se da una parte limita le risorse destinate alle infrastrutture, ai servizi pubblici,  al Welfare State, essenziali per l’equilibrio delle attuali società complesse, dall’altra avvantaggia, con guadagni faraonici, i privati determinando disuguaglianze enormi ( un piccolo numero di potenti è più ricco delle popolazioni dell’Africa – 200 multinazionali dominano un quarto delle attività del mondo – la General Motors è più grande della Danimarca – la Ford più grande del Sudafrica – in Italia il 10 per cento della popolazione possiede il 50 per cento della ricchezza nazionale –). Il meccanismo del sistema fa diventare i poveri sempre più poveri e i ricchi incredibilmente ricchi.

Si tratta di un  sistema che, riducendo la società a mercato, ha degradato e continua a degradare,  portando alle estreme conseguenze, la base ecologica dell’esistenza:  i cambiamenti climatici, la distruzione degli ecosistemi e delle risorse, i fenomeni immigratori (milioni di persona si spostano in questi anni in tutto il globo) sono i segni del grande pericolo che l’umanità sta attraversando. Giorgio Ruffolo scrive: “ lasciato a se stesso il capitalismo rischia queste due derive: la distruzione della società umana e delle sue basi di sopravvivenza. Mai un sistema storico di organizzazione sociale è stato così prossimo all’onnipotenza e alla rovina”.

Si tratta di un sistema di violenza fatta non attraverso eserciti ma attraverso l’economia ( gli Stati sono subordinati al mercato ; lo spread, per esempio, è l’arma che usano i mercati per gestire l’esistenza dei popoli e per riaffermare continuamente il loro dominio: il caso della Grecia insegna; il lavoro è precarizzato, sotto pagato e svalutato culturalmente) e attraverso l’ideologia pervasiva che al capitalismo non ci sono alternative: o il neoliberismo, caratterizzato dall’illimitatezza, dalla mercificazione e dal godimento illimitato  o l’abisso. Un ideologia che impone l’adattamento (non devi cambiare il mondo ma te stesso), rimuove la dialettica storica e delle idee e le stesse possibilità di esistenze diverse, e che, quindi, assolutizza la realtà in un eterno  presente.

Le categorie di questa ideologia sono penetrate nella coscienza degli individui (almeno nella maggior parte) di ogni età, genere e professione distruggendo  il soggetto, ormai disgregato, vittima dell’individualismo, del nichilismo e incapace del conflitto necessario a scoprire la propria identità. Lo strumento principe, oggi come non mai, di cui il capitalismo si serve è la manipolazione culturale di massa e il controllo dei mass-midia che gli consente di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di distruggere la verità. Specie attraverso il controllo delle televisioni i patentati economici riescono a distrarre e a distogliere l’attenzione dai veri problemi, di creare artificiosamente problemi e di offrire poi soluzioni utili ai loro interessi, di mantenere il pubblico nell’ignoranza, di orientare l’opinione pubblica. Ma la cosa più vergognosa che il Capitalismo finanziario sta tentando è quella di distruggere le Costituzioni che sono nate dalla lotta al fascismo. La prova, se di prove scritte ci fosse bisogno, è rappresentata da due documenti: il primo è una lettera, inizialmente segreta, inviata il 5 Agosto 2011 al Governo italiano da Jean – Claude Trichet e Mario Draghi e il secondo  un documento di sedici pagine redatto dalla Jp Morgan (2). Due documenti che  dettano l’agenda politica al Governo italiano ( e non solo) ed evidenziano chiaramente la sua dipendenza  dal potere finanziario internazionale.

La più grave  conseguenza di tutto ciò è quella di aver dissolto le comunità e di aver fatto della società un aggregato di individui. Lo stesso linguaggio e gli elementi simbolici sono parte di questo processo di economicizzazione: un professore che giudica valuta un alunno sulla base di crediti e debiti; gli scienziati, gli intellettuali e le forze produttive diventano un  capitale sociale; nei rapporti sentimentali si usano espressioni come investimenti affettivi, etc.

Un sistema di violenza a distanza che nasconde i carnefici alle vittime e deresponsabilizza perché – si dice – responsabile è il mercato;  che provoca alienazione, che è  crisi di rapporto con la realtà,  il processo cioè per cui l’uomo diventa estraneo a se stesso fino al punto di non riconoscersi; che  obbliga a politiche che insistono ideologicamente su termini come  modernità e progresso, concetti che – scrive Francesco Festa- “ utilizzati come paradigmi per le pratiche di crescita economica…. e  forgiati attraverso meccanismi discorsivi in un atto di violenza del discorso stesso come forma dominante di sapere che cancella i modi alternativi di interpretare e di relazionarsi con la realtàArturo Escobar ha svelato l’intelaiatura di tali discorsi – nella fattispecie del discorso dello sviluppo – come un sistema di rappresentazione e di potere che “colonizza l’immaginazione”. Dell’analisi fin qui fatta le TV e i giornali italiani non tanto ne parlano; qualche volta la sottintendono, altre volte la ignorano totalmente (3).

Le conseguenze elencate trovano la loro profonda ragione nella logica interna del sistema. E’ indiscutibile, infatti, che il capitalismo determina per il suo stesso meccanismo di accumulazione continua, per lo sfruttamento delle risorse del mondo e per la ricerca continua di nuovi mercati un processo di “periferizzazione” e di mantenimento delle periferie, funzionali al suo dominio, e che sono vere e proprie “colonie”.

I vari sud del mondo e il meridione italiano, definito, per la sua specificità e la sua storia, da Nicola Zitara una colonia interna, continuano ancora oggi ad essere periferie dipendenti  dal capitalismo che esercita il suo dominio, come abbiamo già detto, con l’economia e con l’ideologia, ma anche con  guerre come quelle di cui siamo stati e siamo testimoni diretti (4).

                                                           La Transizione

Se questa è la situazione, la domanda  che dobbiamo porci è:  come procedere, nella realtà attuale, nel percorso  di liberazione individuale, sociale e politica?

Considerato

-.  Che oggi il nostro Meridione ha alle spalle (5) “una storia di lotte anticoloniali di oltre un quarantennio, che ci consente di trarre indicazioni sugli aspetti positivi  dell’azione  fin qui svolta; ma anche  e  soprattutto sui limiti  da cui  essa è  segnata e senza il superamento dei quali il movimento non solo non diventa fatto popolare, tensione e azione di popolo, ma avvolgendosi su se stesso si consuma nei veleni del suo fallimento, come la inimicizia e la rissosità  tra i diversi movimenti ed i diversi esponenti che li rappresentano clamorosamente dimostrano”;

-. che abbiamo ritrovato la nostra memoria storica ma che sperimentiamo ogni giorno, in una combinazione circolare in cui l’uno alimenta e si alimenta dall’altro, il disastro di carattere antropologico, causato alle nostre anime, il  disastro sociale causato  con la distruzione  del nostro sistema  produttivo ed istituzionale e il disastro fisico  causato dal dissesto del territorio e dalla sempre più accentuata sua riduzione a discarica dell’onnivoro processo produttivo in atto; -.

-.che il processo di colonizzazione  non è storia di ieri ma è processo tuttora pienamente in atto, qui ed ora;

-. che esso è, insieme, processo invasivo e pervasivo articolato e molecolare che occupa tutte le dimensioni e tutti gli spazi  materiali e morali della vita delle popolazioni meridionali. E ciò avviene , in  una semplificazione meramente indicativa ed occasionale:  

 

  • con l’impianto nel territorio – o    meglio: nei territori, all’interno del territorio di questa o quella comunità calabrese, lucana, pugliese, campana  ecc., che nel loro insieme costituiscono l’impalcatura di quello che, attraverso di esse è ancora un Paese (sottolineiamo questo punto della molteplicità delle comunità, ognuna dotata di proprio territorio, di proprie istituzioni, di propria vita sociale ed economica, di  propria identità e soggettività culturale, di propria memoria e di propria storia) di attività industriali esterne  ed inquinanti tra cui  quella dell’incenerimento dei “rifiuti”;
  • con l’utilizzazione dei territori  e delle acque di questa o quella comunità come bacino  di discariche “ legali” e illegali a servizio delle produzioni esterne;
  • con l’utilizzazione dei giacimenti delle  materie prime di cui i territori sono dotati attraverso trivellazioni devastanti;
  • con la privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua, dalle sementi, dal legno ricavabile dal manto boschivo che riveste le nostre montagne, ridotte a miniere di estrazione;
  • con la  riduzione della produzione agricola, anche di quella proveniente da culture specializzate quali l’agrume, l’ulivo, la vite, a materia  prima asservita all’industria della Coca Cola o della Monsanto;
  • con l’invasione dei supermercati e la sterilizzazione delle residue produzioni e delle residue attività commerciali interne;
  • con l’occupazione delle strutture della formazione e della informazione ( scuola, stampa, luoghi di formazione della cultura);
  • con la  occupazione come si è già accennato, da parte delle classi dirigenti meridionali, subordinate fin dall’inizio  all’occupante attraverso le strutture del partito meridionale di tutti gli spazi istituzionali, compresi quelli deputati  agli stretti limiti ad essi assegnati, -a governare i territori delle comunità locali,

 

                                                            In definitiva

        la storia di ieri, oggetto della narrazione svolta dal complessivo movimento meridionale come fin qui si  è configurato, lo stato di cose che su tale storia si è costituito e si è insediato nelle nostre vite, deve diventare territorio  della storia da costruire oggi e nell’immediato domani, nelle forme nuove che un complessivo e articolato movimento di rinascita meridionale, popolare e democratico, è chiamato a realizzare, non enunciando l’opera ma ponendovi mano; insieme a quanti con cuore sincero vogliono parimenti porvi mano dall’interno del secondo grande esodo di massa che si andava consumando negli anni ’50”.

Tracciata così la direzione del lavoro del movimento  aggiungiamo di seguito, per maggiore chiarezza che ogni movimento dovrebbe:

1-. Conoscere il proprio territorio dal punto di vista economico, sociale e politico;

2 -. lavorare nel proprio territorio del quale deve avere una visione complessiva e un progetto capace di portare a sistema le risorse esistenti;

3-. privilegiare la formazione dei suoi componenti perché è la persona la prima  risorsa di ogni progetto di crescita umana, sociale e politica; sono le persone, con la loro presenza, le loro idee e le loro attività, che danno senso ad un territorio; e sono anche le persone che spesso devono liberarsi dallo stato di alienazione in cui vivono;

4-. Favorire lavori di gruppo per creare le  competenze necessarie alla gestione di un paese o di una città, di un territorio;

5-. Seguire i lavori dell’Amministrazione locale e vigilare che le scelte siano trasparenti e utili alla crescita democratica e civile dei cittadini;

6-. Mantenere rapporti continui con le realtà associative e produttive del territorio.

Ma perché tutto questo  è necessario? perché, soprattutto, è indispensabile tenere al centro del nostro interesse e lavoro il territorio?

Per rispondere a questa domanda  c’è bisogno di ricordare, sia pure schematicamente,  la realtà della globalizzazione, termine usato per la prima volta nel 1983 da un economista americano e che rappresenta  un fatto nuovo nella storia  caratterizzato da tre  fenomeni interconnessi:  globalizzazione dei capitali, come abbiamo avuto modo di evidenziare precedentemente, globalizzazione del lavoro (si pensi alla delocalizzazione delle imprese e ai movimenti immigratori) e rivoluzione tecnologica che non riguarda  solo internet.

Di fronte a tale realtà non tutte le persone, non tutti i gruppi sociali, non tutti i paesi sono stati nelle condizioni di trarne profitto: nella logica del liberismo selvaggio le disuguaglianze sono triplicate; le imprese, nei paesi più poveri, sono scomparse incapaci a reggere la competizione.

Ci siamo così resi conto che la competizione non riguardava solo le singole imprese ma i territori e la loro organizzazione; ci siamo accorti che un’impresa può avere successo solo in un territorio in cui ci sono persone culturalmente avanzate, se nel territorio ci sono servizi efficienti (scuola, sanità, etc), se la sussidiarietà funziona, se c’è partecipazione democratica e impegno civico. Ci siamo convinti, specie noi del sud, che le politiche stataliste non funzionano così come non funzionano le imprese di tipo capitalistico  che guardano solo al profitto individuale dell’imprenditore; che i territori della tradizione italiana,( paese delle cento città), devono avviare un loro autonomo cammino nella logica della sussidiarietà circolare tra enti pubblici ( fiscalità generale) società civile organizzata (imprese sociali,associazionismo, cooperative sociali, etc.) e mondo delle imprese economiche non capitalistiche ( quelle cioè che guardano all’economia come  ad un’attività  che sia oltre che scelta politica anche etica (per esempio,  l’esperienza di S.O.S. Rosarno). Un’ipotesi questa legata all’idea dell’economia come impegno civile, teorizzata per la prima volta dal grande economista e studioso meridionale Antonio Genovesi che ha istituito nel 1753, per la prima volta al mondo, una cattedra di economia civile presso l’università di Napoli, e da qualche tempo ripresa da alcuni studiosi italiani (6) i quali scrivono nel loro libro: “l’economia civile, una tradizione di pensiero e di prassi tipicamente meridiana, quindi anche – ma non solo – italiana, è una grande fonte di ispirazione per un pensiero nuovo, capace di domande profonde”(pag. 13)….l’età dell’oro di questa tradizione è il regno di Napoli nella seconda metà de settecento, grossomodo tra Vico e la rivoluzione partenopea. Una tradizione antica, con alcune radici nella civiltà cittadina medievale, nei suoi monasteri, nelle sue arti e nei suoi mestieri, nella tradizione francescana e domenicana”(pag. 14). Una tradizione inabissata con la restaurazione e il Risorgimento “ma che di tanto in tanto è riemersa dando vita a importanti fenomeni economici e sociali (come quello cooperativo, i distretti industriali, l’esperienza Olivetti, l’economia di comunione)”(pag. 15).

Una tradizione di pensiero che va letta con la consapevolezza che non c’è liberazione individuale che non sia anche sociale e politica e viceversa; con la convinzione, cioè, che il conseguimento dell’autonomia di giudizio e dell’autonomia esistenziale,( che sono certamente obiettivi da raggiungere), non bastano se non si creano comunità consapevoli. E ciò è difficile.  Anzi è difficilissimo. Passare, solo per fare un esempio, dagli acquisti a chilometro zero ad un  “consumo critico”, che metta in discussione il consumismo come ragione di sopravvivenza del modello capitalistico, non è cosa facile.

 

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Il rottamatore è stato rottamato…dal Sud.

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Il popolo ha rifiutato nel merito una riforma pasticciata e neo centralista, un rifiuto politico che delegittima il governo più anti-meridionale di sempre. Il rottamatore è stato rottamato. Soprattutto al Sud con picchi di sfiducia nelle isole. La Sicilia e la Sardegna si attestano capitali del NO insieme alla Campania. In Calabria, Puglia e Basilicata le percentuali superano il 65% e la provincia di Napoli raggiunge punte del 70%. Il No ha vinto ovunque tranne che in Toscana, Emilia Romagna e nella provincia autonoma di Bolzano.

La risposta negativa al Sud è stata netta e ha fatto la differenza. Solo chi è legato o orientato dai partiti nazionali può affermare che questo risultato non rappresenti un segnale di grande insofferenza sociale verso politiche discriminatorie e nord-centriste che hanno condannato, mai come in questi anni, i territori meridionali a subalternità politica ed economica. L’esecutivo Renzi ha sbagliato tutto con il Mezzogiorno: non accorgersene riduce la dialettica politica contingente ad una versione di favore di chi non non tiene conto (o non sa interpretare) il sentimento di rabbia e ribellione che sta montando al Sud.

In questi anni di attività legislativa il Governo ha incrementato profondamente le differenze tra Nord e Sud, provando finanche ad introdurle in Costituzione con la riforma appena bocciata dagli elettori. Stiamo al merito:

-Nell’aggiornamento del contratto di programma 2012-2016 con le Ferrovie grazie alle risorse della legge Stabilità 2015 e dello Sblocca Italia, il governo ha previsto investimenti per 8.971 milioni. Destinati al Sud solo 474 milioni, al Nord tutto il resto (8.497 milioni).

-Per finanziare l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, sono state drenate risorse dai bilanci dei Ministeri, per complessivi 700 Milioni, ma soprattutto dai fondi che le Regioni avrebbero dovuto spendere in base al Piano di azione e Coesione che gestisce gli stanziamenti europei. ll bonus fiscale, che ha reso possibile le assunzioni, si è configurato come un massiccio trasferimento di risorse dal Sud al Nord del Paese. Quasi 2 Miliardi di euro sono stati prelevati in Campania, Sicilia, Puglia e Calabria che sono serviti ad incentivare circa 538mila nuovi contratti di lavoro nelle regioni del Nord e 255mila in quelle del Centro.

-Il piano “Connecting Europe Facility“ (Meccanismo per collegare l’Europa), contenuto in un allegato al DEF 2015 contiene 7 miliardi e 9 milioni di euro per i progetti UE fino al 2020. Ecco come sono stati ripartiti: 7 miliardi e 5 milioni al centro-nord e 4 milioni al sud. L’Italia investe al sud lo 0,05% e al centro-nord il 99,95%.

-Il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) ha previsto investimenti per 2 miliardi di euro solo al Nord. In particolare ha finanziato l’ultima tranche del MOSE per 1.2 miliardi; ha contribuito allo sblocco di opere infrastrutturali, interventi di bonifica e reindustrializzazione a Piombino e Fidenza; finanziato i contratti di filiera nel settore agricolo per 130 milioni e i progetti di sviluppo e promozione economica per i territori per un totale di 21 mln euro. Il governo inoltre ha varato un piano complessivo per il Made in Italy di 260 milioni di euro. Interessate le sole città di Milano, Firenze e Roma. Zero al Sud.

-Il governo, limitatamente ai fondi nazionali destinati al Sud e ai fondi regionali di Campania, Calabria e Sicilia, ha ridotto a un terzo il cofinanziamento italiano dei fondi europei 2014-2020. Le tre regioni meridionali hanno perso complessivamente 7,4 miliardi di euro di investimenti.

Soglie di povertà assoluta: il governo le ha calcolate in modo che risultassero più alte nel settentrione d’Italia riservando il 45% dei sussidi al Sud e il 55% dei sussidi al Nord. In tal modo è stata esaudita la richiesta delle soglie territoriali previste dalla Lega Nord nel 2005.

-Le formule sui fabbisogni standard sono state tutte pensate in modo da danneggiare i Comuni del Mezzogiorno. In particolare, per gli asili nido e l’istruzione sono stati dirottati 700 milioni di euro dal Sud al Nord. Le risorse sono state ripartite sul calcolo della spesa storica senza tenere conto dei livelli di prestazioni sociali omogenei sul territorio nazionale.

Sulla sanità sono stati attuati parametri di assegnazione dei fondi togliendo risorse ai territori meridionali dove la speranza di vita è più bassa. Il blocco del turnover nelle Università è stato intensificato al Sud poichè il merito degli atenei è stato calcolato sui redditi delle famiglie, più alti al Nord. Inoltre, per finanziare le strade provinciali e le città metropolitane è stato inserito tra i parametri il numero di occupati sul territorio, il quale è notoriamente più alto nelle zone ricche.

-Nel «Piano strategico nazionale della portualità e della logistica» in vista del raddoppio del Canale di Suez, il governo ha solo annunciato la necessità di creare le condizioni per il transito di treni porta container da 750 metri in su per i porti di Gioia Tauro, Taranto e Napoli-Salerno. Ma nessun  investimento è stato previsto a sud di Livorno entro il 2020. Diversa sorte per il traffico merci su ferro che coinvolge Genova, i porti del Nord Adriatico e il tratto Torino-Trieste.

Tra i governi più anti-meridionali della storia quello di Matteo Renzi gareggia per il primo posto, insieme ad opposizioni fantasma in Parlamento che a parte qualche colpo di tosse per facile reperimento del consenso a scadenza elettorale, non hanno saputo difendere nè contrastare il compimento e l’evoluzione trasversale del disegno leghista riassunto nello slogan “Prima il Nord“.

Il referendum costituzionale era il banco di prova per il futuro indirizzo politico del Governo. Il SI lo avrebbe reso imbattibile ed incontrastabile; il NO lo ha esautorato.

La Costituzione non può mai essere uno strumento di affermazione del potere nè un’arma di ricatto sociale. Chi è in grado di attuarla ora che il popolo si è pronunciato? Il dopo Renzi è quasi più temibile di Renzi se si osserva il panorama partitico italiano.

Il voto del 4 Dicembre segna il punto di partenza di un nuovo protagonismo collettivo in grado di rimettere al centro dei processi decisionali gli interessi delle persone e dei territori, la loro autodeterminazione e sovranità. Se c’è ancora una speranza, coincide con una visione meridiana del cambiamento, fatta di donne e uomini liberi proiettati in direzione ostinata e contraria alla deriva leghista, populista e corrotta dell’Italia di ieri e di oggi.

Il riconoscimento dei diritti della nostra terra è lotta popolare per la dignità. Attenzione perciò a non accostare o sminuire il segnale politico di resistenza che arriva dai territori meridionali alla vittoria di propaganda dei partiti nazionali: la battuta d’arresto del Governo è risposta di riscatto e autonomia dopo decenni di umiliazioni e depauperamenti.

Flavia Sorrentino

Referendum Renzi-Boschi: un NO dal Sud.

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Non rappresenta una scelta casuale quella del presidente del consiglio Matteo Renzi, di svolgere la propria campagna referendaria soprattutto nel sud Italia. Matera, Foggia, Catania, Bari, non si è mai visto un Matteo così infuocato e passionale nelle sue rotte meridionali. Eppure il motivo c’è, i sondaggi parlano chiaro: il meridione d’Italia voterà compatto per il no alla riforma costituzionale.

Credevano di esserci riusciti, che il sillogismo “ragioni virtuose sì, ragioni virtuose no”, avrebbe ben mascherato l’intenzione del governo di privilegiare le regioni del nord Italia;  lo stato di assuefazione politica nella quale ci hanno relegato in questi anni, avrebbe mantenuto la situazione sotto controllo. Così, propagandare l’abbassamento del numero dei parlamentari, la riduzione dei costi della politica, avrebbe messo in una  condizione di subordinazione  l’attenzione sulla  modifica del Titolo V della Costituzione.

Il premier non aveva però fatto bene i suoi conti con un Sud sempre più sveglio, sempre più indignato e guardingo.

Le modifiche degli articoli 116 e 117, segnerebbero la costituzionalizzazione dello status di colonia interna delle regioni meridionali, la continuazione di un filo rosso a cui si è dato inizio 155 anni fa.   Così recita il testo della Riforma: “Condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle regioni […] in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. E’ questa una disposizione fuorviante e discriminante, poiché, di fatto, le regioni del sud Italia non sono messe in condizione di raggiungere il pareggio di bilancio. L’Imposta Regionale sulle Attività Produttive, meglio conosciuta come IRAP, ossia l’ imposta sul Reddito prodotto dalle attività professionali e produttive, rappresenta una tassa trattenuta dalle regioni, ma non uniforme sul territorio nazionale. Le regioni settentrionali possedendo un gettito fiscale più alto, possono raggiungere più facilmente una condizione di bilancio, differentemente dal meridione che,  con una minore capacità contributiva,  potrebbero raggiungerla  solamente privando i cittadini di quei servizi essenziali spettanti di diritto. Non si tratta quindi  di virtù regionale , ma di ricchezza storica.

La riforma introduce un regionalismo differenziato discriminante, in grado di danneggiare pesantemente il meridione, inficiandolo nella possibilità di scelta in ambiti vitali quali ambiente, istruzione e lavoro , turismo, governo del territorio, politiche sociali, ordinamento scolastico.  Come dire che la Toscana potrà promuovere il turismo locale, mentre la Calabria non avrà alcuna voce in capitolo; o che  l’Emilia Romagna potrà esprimere il proprio dissenso allo   stoccaggio di scorie radioattive sul proprio territorio, a differenza della Campania che dovrà  invece sottostare alle decisioni del governo centrale.

Se virtuoso (ricco), conti e  possiedi potere decisionale, mentre, se inefficiente (povero), dovrai accontentarti di ciò che lo Stato centrale deciderà al posto tuo:  questa la logica renziana.

I piani rischiano però di essere sfasati, e a farli “saltare” saranno proprio le regioni colpite, quelle ghettizzate, condannate da una politica che mira ad accrescere solo una parte del paese.

L’indignazione meridionale aleggia, si è resa tangibile: è un sud che ha deciso di alzare la testa e lottare.  Basta un “NO” per difendere i nostri diritti sociali, la nostra sovranità popolare; un “NO” per difendere il nostro diritto all’uguaglianza e alla crescita; un “No” per porre un freno alle spinte monopolistiche di un governo accentratore.

Carmen Altilia

Investimenti Infrastrutture: Mezzogiorno rimandato a Settembre

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di Mattia Di Gennaro

Ricordate la direzione del PD sul Mezzogiorno del 7 agosto scorso? Ricordate Graziano Delrio che pontificava circa il suo impegno per lo sviluppo del Sud?
Bene, siamo pronti a saggiare le bontà delle sue intenzioni!

Come riportato nell’articolo di Alessandro Arona su “Il Sole 24 Ore” del 23 Agosto, entro il 30 Settembre il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, lo stesso che dichiarò “non s’investe in infrastrutture al Sud perché ci sono troppe rocce”, potrà dimostrare la propria serietà politica nei confronti del Mezzogiorno, dato che in questa data sarà presentato al CIPE la nuova versione dell’allegato “Infrastrutture” al Documento di Economia e Finanza.

Giusto per ricordarlo, l’allegato “Infrastrutture” è quel documento che nella versione 2014 prevedeva, tra le altre cose, progetti in infrastrutture “Connecting Europe Facility” per 7 Miliardi e 9 Milioni di euro ripartiti 7 Miliardi e 5 Milioni al Centro-nord e solo 4 milioni a Sud.

In materia di infrastrutture, Settembre è un mese cruciale. E’ infatti in fase di finalizzazione l’aggiornamento al 2015 del contratto di programma per la Rete Ferroviaria Italiana, sottoscritto da Trenitalia e dal Ministero per le Infrastrutture e i Trasporti. Le cifre in ballo sono interessanti: gli investimenti ammontano a 4 miliardi di euro!
Secondo voi, come saranno state allocate le risorse? La risposta è, purtroppo, ormai scontata:
– 3 Miliardi alla TAV Brescia-Verona-Padova, che detiene il record della più costosa linea ad alta velocità del mondo con 70 milioni di euro a km (piuttosto, un treno ad alta voracità…di soldi pubblici);
– 600 Milioni al terzo valico di Genova così che i treni possano trasportare merci da e verso il porto di Genova, affossando definitivamente Gioia Tauro e gli altri scali del Sud;
– 400 milioni all’ammodernamento generale della rete ferroviaria nazionale non meglio precisamente allocati tra Nord e Sud.

Qualche buona notizia, teoricamente, c’è. Uno dei punti chiave su cui il CIPE sarà chiamato ad analizzare è quello relativo alle politiche per il Sud che il Governo ha promesso ma che non ha ancora formalizzato e, con tutta probabilità, neppure ipotizzata. A riprova di ciò, le dichiarazioni del premier Renzi, il quale durante la direzione PD ha ammesso candidamente che quell’incontro era solo un incontro preliminare, quasi a confessare che prima d’ora il Governo non aveva mai discusso di Mezzogiorno!

Intanto i 54 miliardi di Fondi per lo Sviluppo e la Coesione previsti nella legge di stabilità 2014 si sono ridotti già ai 42 miliardi degli Accordi di partenariato. Una drastica cura dimagrante per un paziente già anemico e sottopeso, il tutto per distogliere i fondi per le aree sottosviluppate ad altri scopi, alla maniera della Lega Nord e di Tremonti, che con i fondi FAS destinati al Mezzogiorno ci pagava le multe per le quote latte dei produttori padani.
Per non parlare, di altri provvedimenti che hanno contribuito a dividere ancora di più l’Italia tra cittadini di serie A e B. Ad esempio, i fondi per il piano di prevenzione del dissesto idrogeologico, che nonostante la strage di Rossano in Calabria o del Gargano sono state destinate in maggioranza al Centro-nord.
Qualcosa destinata in maggioranza al Sud, però, c’è: il famigerato PON “Infrastrutture e reti”, approvato dalla Commissione Europea lo scorso 29 luglio, che si occuperà di finanziare progetti infrastrutturali a valere sulle tratte ferroviarie Napoli-Bari, Catania-Palermo oltre ad investimenti per la Salerno-Reggio Calabria e per alcuni porti del Mezzogiorno. Un bel librone di 120 pagine abbondanti che da un lato spiega quali sono i gap infrastrutturali del Sud e dall’altro fornisce le ricette per la loro soluzione. Tuttavia, la dotazione del PON Infrastrutture e Reti è di 1 Mld e 800 Milioni per tutto il Mezzogiorno, poco più della metà di quanto stanziato per la TAV Brescia-Verona-Padova. Questo vale il diritto alla connessione delle città del Sud, meno di una connessione tra tre province del Nord.

Opinabili, inoltre gli obiettivi che tale programma di investimenti rivendica: a fronte di una distanza tra Napoli e Bari di poco più di 200 KM, l’obiettivo è portare gli attuali 185 minuti del viaggio ferroviario a 167; giusto per un confronto, Napoli e Roma sono distanti circa 190 KM e in FrecciaRossa sono lontane appena 70 minuti! Per non parlare delle politiche relative al rilancio dei porti mediterranei, senza mai la pretesa di fare diventare un porto meridionale il principale scalo merci del Paese.

Il PON “Infrastrutture e Reti” è, dopotutto chiarissimo negli intenti. Come si può leggere a pagina 17, il Centro-Nord è “naturalmente” destinatario degli investimenti al Sud, spettano solo le briciole.

Insomma, le solite politiche anti-meridionali, soltanto in apparenza tese a risolvere i problemi strutturali del Mezzogiorno, procurando nei fatti un aggravio del divario Nord-Sud, con il primo destinatario della fetta importante degli investimenti. Intanto nel resto del Mondo la TAV sta diventando sempre più lo standard di trasporto pubblico, il Canale di Suez raddoppiato incrementa il traffico, mentre da Napoli è ancora impossibile raggiungere in treno Bari senza dover cambiare treno, così come è impossibile che uno dei più importanti porti del Mediterraneo, Gioia Tauro, non sia adeguatamente collegato alla rete ferroviaria.

Tanto cosa importa, presto da Brescia si andrà a Verona in un (costosissimo) batter d’occhio. Tanto cosa importa se a Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, ancora non arriva il treno nazionale! Altro che‪#‎zerochiacchiere‬, il Governo ancora una volta ha dimostrato che quando si tratta di Mezzogiorno è bravo a fare ‪#‎solochiacchiere‬!

Green Economy: l’erba (e l’economia) del Mezzogiorno è sempre più verde

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Di Mattia di Gennaro

Paola Caruso su “CorriereEconomia” del 2 febbraio 2015 ne è sicura: per il Mezzogiorno, verde è bello!

No, non stiamo parlando delle ultime tendenze in fatto di colori e moda, ma dell’ultima classificata stilata da Fondazione Impresa che ordina le regioni italiane in base all’incidenza dell’economia ecosostenibile (“green economy”, cioè “ economia verde” per l’appunto) nelle attività produttive locali.

Energia da fonti rinnovabili, riciclo dei rifiuti, bioagricoltura e, ancora, piste ciclabili e turismo ecologico sono solo alcuni dei parametri utilizzati nella ricerca curata da Daniele Nicolai di Fondazione Impresa per calcolare l’Indice di Green Economy (IGE), secondo il quale sono stati dati i voti alle regioni.

La notizia incoraggiante, come si evince dalla figura sotto riportata, prodotta da “CorriereEconomia” in base a dati Fondazione Impresa, è la rilevazione di un trend positivo per regioni meridionali che, rispetto al 2013, si piazzano tutte più su nella graduatoria (eccezion fatta per la Sicilia fanalino di coda), a dispetto di chi le vuole inquinate e poco avvezze in quanto a eco-sostenibilità. Abruzzo, Basilicata e Calabria conquistano, addirittura, posizioni rilevanti nella top ten mentre il Molise si classifica sopra la media italiana.

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Naturalmente, è ancora presto per adagiarsi sugli allori. Il Trentino Alto Adige, primo in classifica, è ancora lontano; tuttavia, l’implementazione di politiche tese al rispetto per l’ambiente, lo sviluppo dell’agricoltura biologica e delle energie rinnovabili unite a una forte spinta su politiche di riciclo e trattamento eco-sostenibile dei rifiuti sembrano ormai necessarie alla crescita economica e sociale.

Il programma della lista civica “MO!”, dopotutto, lo riporta chiaramente:

“MO FELIX. Dal biocidio all’agricoltura delle eccellenze: Definitiva soluzione del problema della Terra dei Fuochi e dello smaltimento illecito dei rifiuti industriali. Ciclo dei rifiuti urbani che escluda incenerimento e produzione di energia dal trattamento dei rifiuti ma preveda riciclo, riuso e recupero massimo di materia. Scelte energetiche che valorizzino fonti rinnovabili e mettano al bando le fonti fossili di idrocarburi. Insediamenti agricoli food/no food compatibili con le condizioni ambientali e a qualità certificata.”

Ancora una volta, Unione Mediterranea dimostra la propria lungimiranza. E tu, invece, voterai ancora una volta per chi vuole gli inceneritori e il petrolio?

Roma-Milano in 2 ore e 30 minuti. Al Sud i treni veloci non arriveranno prima del 2028

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Roma-Milano sarà percorribile in 2 ore e 30 minuti dal 2015. L’alta velocità ferroviaria è una rivoluzione che cambia la percezione del mondo intorno a noi Leggi tutto