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Facci, ma quale schifo? MO ti racconto io chi sono i napoletani!

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di Mattia Di Gennaro

“A meno di pensare i napoletani come un popolo incapace di intendere e di volere (la tentazione c’è) l’unico modo di non offenderli è concludere che hanno il sindaco che meritano” – Filippo Facci su riconferma de Magistris a sindaco di Napoli

 “Napoli fa schifo, in tutta Europa non esiste una città del genere, lo pensiamo anche noi, e quello della spazzatura è un problema storico-culturale che nel tardo 2015 salta ancora agli occhi. E al naso” – Filippo Facci su Napoli

Era il settembre del 1943. A Napoli imperversava la Seconda Guerra Mondiale. Mentre tedeschi e Alleati si contendevano la città a suon di bombe e mitragliatrici, ovunque regnava sovrana fame, morte e miseria.

Un giorno di fine estate il colonnello Scholl, luogotenente del Führer a Napoli, per stanare i partigiani napoletani e le altre “forze alleate” intente a preparare l’insurrezione armata contro i nazisti, fece affiggere in città e in provincia un manifesto, il cui testo è riprodotto nell’immagine di seguito.

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Per figurarvi la drammaticità del contesto, pensate che, solo qualche ora prima, decine di migliaia di famiglie napoletane furono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni per l’istituzione di una zona militare di sicurezza lungo la fascia costiera a cui si aggiungevano le centinaia di migliaia di sventurati che da mesi non riuscivano a mettere insieme che qualche patata e un sorso d’acqua come pasto della giornata. Immaginate, dunque, quanti poveri diavoli affamati, atterriti, disperati avrebbero improvvisamente potuto trovare il modo di sfamare loro stessi e i loro cari, grazie a una “cantata” ai nazisti.

Come racconta lo storico Aldo de Jaco “Quel <<L. 1.000 e viveri>> era stampato a parte, a grossi caratteri, al centro del foglio, quasi a rendere più evidente il ricatto alla fame e alla miseria. Ma fu un ricatto inutile.

Il manifesto passò sotto gli occhi di tutti i napoletani, decine di migliaia dei quali sapevano qualcosa a proposito di militari stranieri; se l’uomo da nascondere non era proprio a casa loro, infatti, era a casa del vicino e s’era collaborato tutti a sostentarlo; comunque si sapeva – anche se nessuno parlava – che in quel fondo o su quel loggiato aspettava nascosto <<uno degli alleati>>.

E nessuno fu tradito; nessun napoletano prese la via del Corso per portare le informazioni richieste”.

Nessun napoletano, nessuno, cedette alle lusinghe delle truppe del Reich, nessun napoletano, nessuno, svendette la propria dignità ai tedeschi in cambio di pane e acqua. Anzi, col sangue negli occhi e il fuoco nel cuore questo popolo straordinario insorse – prima grande città in Europa – il 28 settembre del’43 liberandosi dopo quattro giornate di eroica battaglia dal giogo nazista, senza che l’esercito Alleato in forze fosse intervenuto.

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Perciò, quando il signor Filippo Facci vuole parlare della mia gente faccia attenzione e sciacqui bocca e penna con l’acido muriatico. Dopotutto, cosa ci potevamo aspettare mai da un polemista navigato che nella vita non ha saputo fare di meglio che collezionare querele per diffamazione? Che conoscesse la Storia?

San Gennaro nun s’ha da tucca’!

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Tra tutti gli atti d’imperio che le dominazioni estere hanno calato su Napoli e i napoletani, non se ne ricorda nessuno così arrogante e irrispettoso della cultura e dell’identità del nostro popolo.

Ci voleva il Governo Renzi e il Ministro degli Interni, Angelino Alfano, per veder sputare su una delle istituzioni più caratteristiche della storia napoletana: la Deputazione di San Gennaro!

Come riportato nell’articolo di Drusiana Vetrano di Identità Insorgenti, “la Deputazione di San Gennaro, l’organo LAICO che da mezzo millennio si prende cura del Santo dei napoletani, sta per essere scalzata dalla Curia grazie ad un colpo di penna del Viminale, a firma del Ministro Angelino Alfano.
In sostanza, gli esponenti della storica nobiltà partenopea potrebbero ritrovarsi “pezzi” di Curia a gestire il Santo e le sue inestimabili reliquie.
Dopo la bellezza di cinque secoli di laicità, insomma, la Curia riuscirebbe a mettere le mani sul Santo partenopeo e sulle sue ricchezze.
Finora, infatti, la gestione da parte della Deputazione- fondata nel 1601 a seguito di un ex voto, da parte dei cittadini partenopei, legato ad un’eruzione del Vesuvio- è stata sempre slegata dalla Curia ed indipendente da essa, nonostante le pressanti e continue ingerenze”.

Ancora Identità Insorgenti spiega che “in rappresentanza del popolo napoletano, presiede la Deputazione il primo cittadino di Napoli, che ne è il garante e primo controllore in nome e per conto del popolo stesso.
Possiamo ben comprendere e condividere la rabbia dei membri della Deputazione che, attraverso il delegato per gli affari legali della stessa, Riccardo Imperiali di Francavilla, spiega che il decreto “equipara la deputazione a una Fabbriceria e rinomina arbitrariamente gli undici deputati in carica”.
Veniamo a sapere, inoltre, dei continui scontri col Cardinale Crescenzio Sepe ed il tentativo dello stesso, durato anni, di piazzare “persone sue”.
Troviamo veramente vergognoso tutto questo.
Ancora una volta, lo Stato italiano, non tenendo minimamente in considerazione la storia né l’identità di questa città di cui ignora tutto, cala dall’alto un provvedimento per danneggiarla.
Nel caso specifico, una marchetta alla Curia, di cui nessun napoletano sentiva il bisogno, di cui non comprendiamo il senso, se non quello, neanche tanto immaginato, di essere legittimati a mettere le mani su uno dei tesori più ricchi e preziosi del mondo”.

Anche MO – Unione Mediterranea, così come Identità Insorgenti e le migliaia di cittadini insorti a questa notizia, si dichiara assolutamente contraria all’ennesimo tentativo di distruggere l’identità napoletana e aderisce sin da ora a qualsiasi iniziativa posta in essere per manifestare questo dissenso.

La portavoce di MO – Unione Mediterranea, Flavia Sorrentino ha dichiarato in merito: “l’attacco alla laicità della deputazione di San Gennaro, è l’ennesimo atto di arroganza dell’esecutivo Renzi, che dimostra di non avere alcuna sensibilità, nè rispetto per la storia di Napoli e del legame che intercorre tra la sua gente ed il Santo Patrono. Il Governo si occupi di garantire i servizi minimi che spettano alla città, per la quale ha saputo solo prevedere tagli e trasferimenti di risorse, invece di preoccuparsi di questioni che attengono esclusivamente al popolo partenopeo. Ecco perchè alle prossime elezioni comunali saremo presenti, in appoggio al sindaco De Magistris, con il progetto NA-Napoli Autonoma: per restituire l’identità e l’autonomia di cui Napoli necessita per il suo riscatto”

Di Mattia Di Gennaro

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Napoli, autonomia e identità nella storia della città

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di Mattia Di Gennaro

Qualche giorno fa abbiamo presentato il Disegno di legge d’iniziativa popolare – Istituzione di Napoli Città Autonoma. Forse non tutti sanno che il concetto di indipendenza/autonomia non è cosa nuova nella quasi tri-millenaria storia della città di Napoli. Fondata dai greci di Cuma e Siracusa nell’ottavo secolo A.C., Napoli lega, da millenni, la propria vita politica, culturale ed economica al concetto di autonomia.

Di lingua e religione greca, la città partenopea mantenne la propria cultura sotto l’impero romano che rispettò sia le usanze sia l’auto governo della territorio, che era organizzato dalle fratrie, raggruppamenti a base familiare convocati per discutere e deliberare su questioni di interesse pubblico. In epoca imperiale ve ne erano ben nove, distinte in base al nume tutelare, mentre il potere legislativo era svolto dal senato con a capo un arconte di nomina elettiva; alle consultazioni partecipava spesso anche un demarco, rappresentate eletto dal popolo.

E per dare un saggio della forte identità espressa da Napoli in epoca imperiale basti pensare che l’imperatore Nerone, quando venne in città, si esibì in greco nel teatro dell’Anticaglia, omaggiando così la cultura del popolo napoletano. Inoltre, sempre la città partenopea, fu il fulcro della filosofia epicurea in un mondo che veniva sempre più costretto alla latinizzazione.

Alla caduta dell’impero romano, Napoli continuò a mantenere lingua e cultura greca entrando nella “sfera di influenza” dell’Impero bizantino, pure di matrice greca, mantenendo de facto la propria indipendenza: sono questi gli anni del ducato di Napoli, stato a tutti gli effetti autonomo sia sotto gli aspetti politici che economici.

Qualche secolo dopo, i normanni conquistarono le terre del sud della penisola italiana fondando il Regno di Sicilia, che diventerà Regno di Napoli, dopo la venuta degli Angioini e i Vespri Siciliani; e proprio nel 1282 Napoli diventò per la prima volta capitale di un regno indipendente, iniziando la sua crescita demografica ed economica.

Nel 1442, Napoli passò dai d’Angió agli Aragona, mantenendo, tuttavia, il rango di capitale; sotto Alfonso il Magnanimo, la città partenopea diventò centro fiorente del Rinascimento Italiano, meta di artisti e intellettuali di tutta Europa. Napoli restò capitale ancora per mezzo secolo fino a quando, nel 1503, divenne parte dell’Impero Spagnolo; non dobbiamo, però, pensare che la città partenopea fosse trattata alla stregua di una colonia, anzi!. L’autonomia fu in ogni caso garantita dal momento che l’amministrazione cittadina venne affidata ai rappresentanti dei Sedili, detti eletti. I Sedili di Napoli, già presenti fin dal periodo angioino, facevano capo alle famiglie nobiliari della città, con la possibilità per il popolo di eleggere il proprio rappresentante. Proprio lo stemma del sedile del Popolo è adottato ancora oggi come stemma cittadino.

Per farvi capire il grado di autonomia di cui godeva Napoli sotto gli spagnoli basti pensare al rifiuto del popolo napoletano all’introduzione dell’Inquisizione, istituzione che imperverserà ferocemente in altri luoghi d’Europa. Sotto gli spagnoli, Napoli crebbe e, alle soglie del Seicento, diventò, insieme a Londra e Parigi, il centro urbano più popoloso d’Europa: 300mila abitanti!

Gli anni vicereali, prima sotto la Spagna e poi sotto l’Austria non scalfirono il ruolo predominante della città che con Carlo di Borbone ritornerà, nel ‘700, ad essere capitale di un regno indipendente; proprio sotto i Borbone, Napoli diventò centro dell’Illuminismo, iniziando ad inanellare una serie di primati tecnologici e culturali. La crescita di Napoli non venne fermata neppure dalla conquista Napoleonica che, invece, rafforzò il nome di Napoli in Europa. La restaurazione e il ritorno ai Borbone coincise con gli anni dei primi sviluppi industriali in un’economia che, da lì a poco, inizierà a correre. Tuttavia, il destino di Napoli, di diventare una Londra, una Parigi venne infranto da Garibaldi e dal Risorgimento dei Savoia che fece tramontare il sole dell’indipendenza e instaurò l’Italia una, di cui Napoli non fu altro che un capoluogo di provincia. La storia di Napoli dopo l’unità d’Italia la sapete: un inesorabile declino che fece della terza città d’Europa la terza città italiana, spogliata del ruolo di capitale.

Oggi Napoli è ancora la terza città italiana per PIL ma solo ventiseiesima in Europa; tuttavia, il Pil prodotto dalla sola città metropolitana è superiore a quello di paesi come la Slovenia. Napoli può ancora aspirare a essere predominante in Europa e la sfida dell’autonomia proposta da MO – Unione Mediterranea può essere il banco di prova giusto.

E voi, cosa ne pensate?

Mezzogiorni d’Europa: cosa fanno Germania, Francia e Spagna per i loro “Sud” e cosa non fa (ancora) l’Italia

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di Mattia Di Gennaro

Eccellente inchiesta quella di Chiara Bussi su “IlSole24Ore” del 9 novembre 2015 che ci racconta di un’altra Europa, fatta di aree che producono meno ricchezza pro capite della media nazionale di riferimento e per questo destinatarie di misure di stimolo economico eccezionale: sono i “Mezzogiorni” d’Europa, con cui tutti i grandi Paesi europei hanno a che fare, a ribadire che la “questione meridionale” non è un cruccio solo italiano.

“Che cos’hanno in comune la Calabria, la spagnola Extremadura, il Land tedesco del Meclemburgo, la francese Piccardia e i territori d’Oltremare? Sono aree svantaggiate con un PIL pro capite ben al di sotto della media nazionale e un tasso di disoccupazione alle stelle”. Le similitudini per la giornalista continuano col fatto che tutte queste aree “beneficiano di misure ad hoc da parte dei governi nazionali”, cosa che i lettori dei post di MO – Unione Mediterranea sanno non essere propriamente vera.

Germania, Francia e Spagna negli ultimi anni hanno profuso attenzione e risorse per i loro “Sud” in nome dell’equità dei cittadini e dell’equo diritto degli stessi a beneficiare di diritti e trattamenti simili, indipendemente da dove essi abbiano la residenza.

Per citare qualche esempio, nei Land della ex-DDR, la Cassa depositi e prestiti tedesca ha dispensato, dagli anni ’90, ben 194 miliardi tra finanziamenti alle infrastrutture e aiuti alle imprese, con interventi che durano ancora oggi, associati ad altri pacchetti di stimoli all’economia che prevedono investimenti nella ricerca e nella creazione di poli d’eccellenza. Chiara Bussi ci racconta che anche la Spagna ha deciso di impostare il recupero delle aree svantaggiate attraverso il finanziamento di progetti in ricerca e sviluppo, in particolare nella Bioeconomia, mentre la Francia per il “suo Mezzogiorno” ha puntato soprattutto sul taglio delle imposte e la costituzione di aree a fiscalità agevolata, in perfetta conformità all’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, che sancisce la possibilità per gli stati membri di programmare interventi a finalità regionale per sostenere lo Sviluppo Economico e la creazione dei posti di lavoro delle regioni europee più svantaggiate.

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E l’Italia? Per l’Italia, dopo anni di silenzio in cui il Sud sembrava sempre più abbandonato a sé stesso, il Governo Renzi ha annunciato la pianificazione di un piano di interventi straordinari, il famigerato MasterPlan per il Sud, che, per ora, si è risolto in tre slide colorate e dieci paginette, piene di chiacchiere senza concretezza. E non siamo solo noi di MO – Unione Mediterranea ad averlo affernato; nell’edizione de “IlSole24Ore” del 7 novembre scorso, Alessandro Laterza, vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno, ha rintuzzato il Governo per il deficit di concretezza del documento: ”Il MasterPlan Sud, annunciato dal Presidente del Consiglio ai primi di agosto, colma una vistosa lacuna comunicativa, ma, non risponde alla “svolta” che fiduciosamente era attesa e che avrebbe dovuto trovare riscontro – sempre a detta del Consiglio – nella Legge di Stabilità. […] Si tratta di una razionalizzazione organizzativa che dovrà essere imperniata su 15 accordi di programma con altrettante amministrazioni regionali e metropolitane meridionali. […] Il tutto preceduto dal tronfale annuncio della disponibilità fino al 2023 di 95 miliardi tra fondi strutturali e cofinanziati e Fondo di sviluppo Coesione (che in realtà includono anche risorse destinate al CentroNord per oltre 20 miliardi di euro, ma non è il caso di sottilizzare)”.

Dopo le frecciate a Renzi, Laterza parte in un’inarrestabile elencazione degli effetti della crisi sul Mezzogiorno, snocciolando dati e distruggendo alcuni pregiudizi sul Sud assistito: “A parte gli storici divari nel Sud, la grande crisi ha ingoiato 600.000 posti di lavoro e 50 miliardi di Pil (su base annua). […] Dal 2008 al 2014 gli investimenti pubblici e privati sono crollati del 38%, nell’industria di oltre il 59%. Come è possibile? Non stiamo parlando del pezzo più sovvenzionato dell’apparato produttivo nazionale? Ebbene, decisamente no. Negli scenari Industriali del Centro Studi Confindustria emerge con chiarezza che tra il 2008 e il 2013 gli interventi di incentivazione concessi sono calati del 16,9% nel CentroNord (da 3,2 miliardi a 2,6) ma del 76,3% al Sud (da 5,5 a 1,3 miliardi). […] Insomma, negli ultimi anni, lo Stato ha rinunciato sostanzialmente, ad una politica di riequilibrio produttivo a beneficio dei territori più in ritardo”.

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Il Mezzogiorno, dunque, non può più essere liquidato con le solite promesse ma necessita di essere messo al centro della politica nazionale, anche perché a beneficiarne non sarebbero solo i residenti dell’Italia Mediterranea ma tutto il Paese. Il responsabile Mezzogiorno di Confindustria lo sa bene e afferma che “Tutto ciò ha senso [gli interventi di riequilibrio del sistema economico del Sud] nell’interesse nazionale. Perché il Mezzogiorno è il primo mercato per il sistema produttivo del resto del Paese. Perché per ogni euro investito al Sud, 40 centesimi diventano acquisti di beni e servizi nelle altre ripartizioni territoriali C’è di più. Contrariamente al luogo comune corrente, la spesa nel mezzogiorno è più bassa del 20% (2,394 euro in meno) rispetto al resto del Paese; del 25% circa se solo si considera il Settore Pubblico Allargato (Ferrovie, Anas, Enel). […] Contrariamente ad un altro luogo comune corrente, i dipendenti pubblici del Sud (diminuiti di 130mila unità tra il 2000 e il 2013) sono il 5% della popolazione residente, esattamente nella media nazionale”.

Dunque, interventi concreti mirati al Mezzogiorno non solo utili a tutta l’economia italiana ma quasi moralmente obbligati, data la dieta dimagrante che negli ultimi anni gli è stata imposta. Con un Sud che, riscoprendo e sfruttando la sua strategicità per il resto del Paese, potrà finalmente rivendicare la propria centralità e la propria autonomia, esattamente come MO – Unione Mediterranea auspica da tempo, incentrando il proprio programma per le prossime elezioni comunali di Napoli sull’autonomia della Capitale del Mezzogiorno.

La Mala Setta, storie degli intrecci Stato-Mafie nei primi anni dell’Italia una

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“Ormai non è più possibile raccontare la Storia dell’Unità d’Italia senza parlare di mafia e camorra” ha affermato Nando Dalla Chiesa intervenuto sabato scorso alla presentazione del libro “La Mala Setta” del professor Franco Benigno nell’ambito degli eventi “Book City 2015”, tenutisi a Milano, che il circolo MO-Unione Mediterranea Lombardia ha seguito per voi.

Franco Benigno, siciliano e professore ordinario di metodologia della ricerca storica presso l’Università degli Studi di Teramo, riporta nel suo libro un’accurata analisi storiografica della nascita dei fenomeni della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia e come questa s’intreccia alla storia della nascente “Italia una”. “La Mala setta”, destinati a diventare un grande classico delle “controstorie del Risorgimento” ha, tra i tanti meriti, quello di illuminare con una luce scientifica ma appassionatamente narrativa uno dei periodi più torbidi della storia italiana, cancellando l’aura di Padre della Patria a molti esponenti della Destra Storica e raccontando di come ci si serviva dei delinquenti per mantenere l’ordine (la cosiddetta “teoria delle classi pericolose”).

Entusiasti delle tesi di questo saggio, abbiamo rivolto una domanda all’autore: “Professor Benigno, alla luce del suo lavoro, di assoluto valore scientifico, che ha inteso illuminare un contesto troppo affumicato dalla retorica del Risorgimento, cosa si sentirebbe di rispondere al presidente della Commissione Antimafia, Rosi Bindi, che qualche settimana fa ha definito la Camorra tratto costitutivo della città di Napoli e del suo popolo? A quanto emerge dalla sua ricerca, si potrebbe forse affermare che la malavita organizzata è costitutiva dell’intero stato unitario, giusto?”

“Innanzitutto bisogna premettere che in quest’epoca di slogan e di social network, i politici tendono spesso a semplificare concetti molto complessi. E, per questo motivo, bisognerebbe che gli stessi si responsabilizzassero di più quando lasciano dichiarazioni o mettono giù i 140 caratteri di un tweet.

Per quanto riguarda Napoli, ma il discorso si può ben applicare alla mia Sicilia, la Camorra non è tratto costitutivo della città o del popolo, assolutamente no. La camorra è, tuttavia, tratto costitutivo dell’immaginario che, purtroppo, si è inteso diffondere della città di Napoli”

Combattere contro i pregiudizi, dunque, è l’unico modo per contrastare le idee delle menti approssimative di far coincidere una città come Napoli con l’idea ricolma di stereotipi negativi che se ne ha. Ben vengano, dunque, opere di ricerca storica come quella del professor Benigno che nel confutare tesi storiografiche ormai consolidate fanno emergere verità che possono sembrare rivoluzionarie nel tentativo di scardinare la retorica risorgimentale che troppi ancora vedono come un valore irrinunciabile.

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Il Governo ha investito in EXPO Milano 2015 53 volte di più che per Matera 2019: tu chiamale se vuoi “discriminazioni”

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di Mattia Di Gennaro

Finalmente il ddl Stabilità 2016 è arrivato a Palazzo Madama per la discussione parlamentare. Felice della lieta notizia, l’ho scaricato dal sito del Senato e l’ho letto, nella speranza di trovare le parole “Mezzogiorno” o “Sud” scritte dovunque e, soprattutto, associate a tanti numeri con molti zeri.

Purtroppo, la mia speranza è stata presto tradita: di Mezzogiorno nulla o quasi; tuttavia, all’articolo 22, si parla di interventi in favore del programma relativo alla “Capitale europea della cultura” a favore, dunque, della città di Matera. Subito ho immaginato interventi infrastrutturali rivoluzionari per fare di Matera 2019 una vetrina italiana al pari di quanto accaduto per Milano 2015: strade, servizi, i treni nazionali!

Mentre sogno ad occhi aperti i Sassi invasi da centinaia di migliaia di turisti innammorati follemente del Mezzogiorno, un dubbio mi assale: come mai si parla genericamente di interventi e non si è ritenuto opportuno descriverli con maggiore chiarezza? Pensavo, vuoi vedere che sono talmente tanti che non avevano spazio per riportarli?

Per saperne di più faccio un salto di qualche centinaio di pagine, alla “Relazione Tecnica” al ddl Stabilità. Ecco, se cè un posto dove trovare pagine e pagine con gli interventi per Matera 2019 è proprio in questa sezione che bisogna cercare. E cosa ci trovo, invece? Giusto qualche riga che spegne definitivamente il mio entusiasmo: “Per la realizzazione del programma di interventi della città designata Capitale europea della cultura per l’anno 2019 è autorizzata la spesa di 2 milioni di euro per l’anno 2016, 6 milioni per l’anno 2017, 11 milioni di euro per l’anno 2018 e 9 milioni per l’anno 2019. L’individuazione degli interventi è effettuata con decreto del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, previa iontesa con il sindaco di Matera”.

 

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2+6+11+9…28. 28 milioni di euro. Per Matera, Capitale europea della cultura 2019, 28 milioni soltanto! E quanti sono? Pochi se pensate che con 28 milioni ci si costruisce meno di un kilometro della ferrovia alta velocità Brescia-Verona!

Su tutte le furie, cerco, dunque, di capire quanto lo Stato, invece, abbia investito in quel carrozzone disorganizzato di Expo Milano 2015; magari, anche per questo tipo di eventi lo Stato ha cercato di fare “spending review”, come sembra sia stato fatto per Matera.

Faccio un giro sul sito Governo.it e cerco qualche resoconto sugli investimenti in favore di Expo Milano 2015. E trovo questo.

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Ebbene, per le infrastrutture ritenute “essenziali” per l’evento Expo Milano 2015 lo Stato ha sborsato ben 1 Miliardo e 482 Milioni di euro. Questa cifra, confrontata a quanto il Governo ha in programma di spendere per Matera, è ben 53 volte più grande!

A questo punto, credete ancora che questo Governo abbia credibilità quando parla di Mezzogiorno?

MasterPlan per il Sud? Se ne parla l’anno nuovo!

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di Mattia Di Gennaro

Era il pomeriggio afoso del 7 agosto scorso, quando uomini in maniche di camicia e donne in vesti leggiadre si alternavano, su di un predellino dalla sede del PD, per dire la propria su come risollevare le sorti del Mezzogiorno. Questi individui avevano saputo, qualche settimana prima delle agognate ferie estive, dello stato comatoso in cui versava l’economia meridionale, grazie alla pubblicazione delle anticipazioni del Rapporto Svimez 2015. Me lo ricordo bene, perché fu proprio quel giorno che sua eccellenza il primo ministro, Matteo Renzi, rassicurò i piagnoni meridionali che, entro metà settembre, il Governo sarebbe uscito con un MasterPlan di interventi per sconfiggere la depressione economica di quest’area geografica. Da allora, sotto agli ombrelloni non si parlava che di questione meridionale, più del calciomercato, più degli amori estivi dei VIP. Quella che, pian piano, sembrava essere diventata l’emergenza nazionale per eccellenza, però, è ben presto scomparsa dalle agende politiche, diventando argomento di secondo ordine, indietro nella lista delle priorità alla detassazione di ville faraoniche e castelli, piatto forte della Legge di Stabilità 2016.

Ma andiamo per ordine.

Prima del ddl Stabilità, bisogna ammettere che gli uomini e le donne del PD si sono riuniti ancora sul tema “emergenza Sud”. Era un sabato di inizio settembre, a Milano, durante la festa dell’Unità. Tra un selfie e una salsiccia, gli organizzatori hanno trovato tempo pure per il Seminario sul Sud, in cui una raggiante quanto fuori luogo Debora Serracchiani, la romana governatrice del Friuli Venezia Giulia, annunciava l’organizzazione di incontri tematici per risolvere i punti critici causa dell’arretratezza del Mezzogiorno: fondi europei, infrastrutture e rivalutazione del capitale umano. Dopo quel sabato di fine estate, nessuno ne ha più saputo nulla di questi incontri e, semmai avessero avuto luogo, sarebbe imbarazzante per il PD rivendicarne l’esistenza, dati gli sterili effetti prodotti. Metà settembre, però, era ormai vicino, e con lui sarebbe finalmente arrivato il tanto atteso MasterPlan per il Sud, di cui tutti aspettavano, con ansia febbrile, la presentazione; e, invece? Nulla. O meglio, qualcosa fu dichiarato in quei giorni: il rinvio ufficiale del MasterPlan all’emissione della disegno di Legge di Stabilità, prevista un mese più tardi, a metà ottobre. Nel frattempo sui giornali era iniziata la caccia al colpo di genio che il Governo avrebbe messo in atto per stimolare l’economia meridionale. Si è iniziato a dire e a scrivere tutto e il contrario di tutto: dal redivivo Ponte sullo Stretto di Messina a meno fantascientifiche idee come il taglio dell’IRES, la decontribuzione delle nuove assunzioni o l’incentivazione agli investimenti sotto forma di credito d’imposta per le imprese meridionali. Ad un certo punto ci si aspettava una manovra finanziaria (il ddl Stabilità, appunto) tutta e solo incentrata sul Mezzogiorno, con decine di miliardi di investimenti ad aggiungersi a quelli già previsti con la programmazione della spesa dei fondi comunitari. E poi arriva metà ottobre, arriva il tempo della verità e Renzi, invece di presentare un testo serio del ddl Stabilità alle Camere, si presenta davanti ai giornalisti con delle sgargianti slide, colorate come i fuochi di artificio che ci si aspettava per il Sud; tre di queste parlano, in effetti, di Mezzogiorno: fondi alla Salerno – Reggio Calabria, interventi per la bonifica della Terra dei Fuochi e fondo di garanzia per l’Ilva di Taranto. Praticamente, i fuochi di artificio per il Sud hanno ancora una volta fatto “fetecchia”!

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Insomma, questo è il MasterPlan per il Sud che abbiamo atteso per tutta l’estate, per questo primo scorcio d’autunno o, come qualcuno direbbe, per 155 anni? Secondo il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti, sì, o meglio, anche. Come lo stesso ha raccontato a “La Stampa”, quelli delle slide sono solo gli interventi prioritari, che in un certo senso non fanno parte del MasterPlan per il Sud vero e proprio che, invece, è ancora in fase di definizione (meno male che doveva essere pronto a settembre!).

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha spiegato che sono ancora in corso di svolgimento gli incontri con i presidenti di regione e i sindaci delle principali città meridionali per mettere a punto i cosiddetti “Patti per il Sud”, che conterranno, quelli sì, interventi e obiettivi per il rilancio dell’economia meridionale. Naturalmente, questi patti non saranno pronti prima del 2016 e la cosa, ormai, non ci stupisce più. Dopotutto, che il Governo fosse impreparato sul Mezzogiorno era cosa assodata, dopo che Renzi, durante quell’incontro del 7 agosto aveva detto che quello sarebbe stato solo il primo incontro sul Sud, ammettendo implicitamente che, prima d’allora, né il PD né il Governo si era mai posto il problema della risoluzione della questione meridionale. De Vincenti, però, ha parlato anche di 7 miliardi pronti per il Sud, o meglio ha detto “abbiamo attivato la clausola per lo 0,3% di PIL, ossia, per 5 miliardi di euro di spesa nazionale, con un effetto leva complessivo di oltre 11 miliardi di investimenti di cui almeno 7 saranno destinati al Mezzogiorno”. Il sottosegretario, però, dice anche altro, ossia che questi finanziamenti saranno impiegati su progetti cofinanziati ed è subito chiaro tutto: i 7 miliardi andranno a finanziare opere e progetti la cui costruzione ed esecuzione è già stata prevista nei Piani Operativi Nazionali e Regionali di spesa dei fondi comunitari. Insomma, il Governo ha sbloccato del denaro (o, meglio, ne ha previsto lo sblocco, che è ben diverso) per investimenti già programmati prima del Rapporto Svimez, all’epoca in cui non si sapeva (o non si voleva sapere) della drammatica situazione dell’economia meridionale. Niente di eccezionale, nulla di rivoluzionario! Il solito storytelling tendenzioso del governo più anti-meridionale di sempre, che, ricordiamo nelle infrastrutture, negli incentivi alle imprese e ai cittadini ha sempre guardato sempre e solo a una parte del Paese, quella a nord del Tronto. Esempi: gli ottanta euro in busta paga, mossa populista a vantaggio della popolazione degli occupati, in maggior numero al Centro-Nord che non al Sud, o gli investimenti per le infrastrutture CEF presentati a Bruxelles con 7 miliardi e 5 milioni di euro destinati al Centro Nord e 4 milioni al Sud. Per non parlare dei fondi per il piano di prevenzione del dissesto idrogeologico, che nonostante la strage di Rossano in Calabria o del Gargano, o quelle recenti dell’Irpinia e del Sannio sono stati destinati in maggioranza alle aree settentrionali. Intanto, i 54 miliardi di Fondi per lo Sviluppo e la Coesione previsti nella legge di stabilità 2014 si erano ridotti già ai 42 miliardi degli Accordi di partenariato. Una drastica cura dimagrante per un paziente, Il Mezzogiorno, già anemico e sottopeso, il tutto per distogliere i fondi per le aree sottosviluppate ad altri scopi, alla maniera della Lega Nord e di Tremonti, che con i fondi FAS destinati al Mezzogiorno ci pagava le multe per le quote latte dei produttori padani. Qualcosa destinata in maggioranza al Sud, però, c’è: il famigerato PON “Infrastrutture e reti”, approvato dalla Commissione Europea lo scorso 29 luglio, che si occupa di finanziare progetti infrastrutturali a valere sulle tratte ferroviarie Napoli-Bari, Catania-Palermo oltre ad investimenti per la Salerno-Reggio Calabria e per alcuni porti del Mezzogiorno. Un bel librone di 120 pagine abbondanti che da un lato spiega quali sono i gap infrastrutturali del Sud e dall’altro fornisce le ricette per la loro soluzione, stanziando complessivamente 1 Mld e 800 Milioni per tutto il Mezzogiorno, che è poco più della metà di quanto stanziato per la contestatissima TAV Brescia-Verona-Padova. Tanto cosa importa, presto ci sarà il MasterPlan per il Sud, presto da Brescia si andrà a Verona in un (costosissimo) batter d’occhio. Tanto cosa importa se a Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, ancora non arriva il treno nazionale! Altro che #zerochiacchiere, il Governo ancora una volta ha dimostrato che quando si tratta di Mezzogiorno è bravo a fare #solochiacchiere (e qualche slide colorata)!

Credete ancora che questo Governo e questo Parlamento abbiano ancora credibilità quando parlano di Mezzogiorno?

Elisabet Nebreda (Junts Pel Sí): “Vi spiego come la Catalogna otterrà l’indipendenza il prossimo 27 settembre”

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di Mattia Di Gennaro

Elizabeth Nebreda, esponente di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), è intervenuta lo scorso 19 settembre al “Forum dell’Europa dei Popoli”, organizzato in provincia di Varese conto di European Free Alliance (EFA), dove Unione Mediterranea Lombardia l’ha incontrata per voi (al convegno su delega Segretaria come osservatori).

ERC parteciperà, il prossimo 27 settembre, alle elezioni per il governo della “Generalitat” della Catalogna, in alleanza con Convergència Democràtica de Catalunya, partito di Artur Mas (‘attuale governatore catalano e leader indipendentista), Demòcrates de Catalunya, Moviment d’Esquerres e altri movimenti identitari catalani.

Dall’incontro di queste voci e idee è nata l’alleanza “Junts Pel Sí” e il “Si” che si vuole affermare insieme, domenica prossima, è quello all’indipendenza della Catalogna dalla Spagna.

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Elisabet Nebreda (che è anche consulente del Dipartimento relazioni internazionali di EFA), intervistata da Leonardo Facco, ha spiegato l’origine del movimento indipendentista catalano: “Il processo di indipendenza in Catalogna è ad uno stato di maturità avanzata grazie soprattutto a quattro fattori che caratterizzano il popolo catalano: la consapevolezza e l’orgoglio di sentirsi una nazione diversa da quella spagnola e un popolo dell’Europa; la voglia di autogovernarsi; l’amore per la propria lingua e la propria cultura; la volontà di non fermarsi davanti a nulla”.

Quanto all’autogoverno, la Catalogna non è nuova a simili esperienze e, proprio per questo, i catalani vogliono lasciarsi definitivamente indietro le date in cui fu sancita, per ben due volte, la perdita di questo diritto: 11 settembre 1714, quando Barcellona e la Catalogna vennero conquistate dai Borbone e annesse con forza allo Stato Spagnolo e il 1976 quando, in seguito alla morte del generale Franco, iniziò la discussione della nuova Costituzione. Proprio durante questo processo costituente, fu prevista la concessione di Statuti di Autonomia alle regioni facenti parte della Spagna franchista aventi un’identità propria, seppur sancendo il riconoscimento di un’unica nazionalità (e sovranità), quella spagnola.

Da buoni testardi, i catalani non si arresero e, dopo innumerevoli tentativi, nel 2006 riscrissero l’”Estatut”, il proprio Statuto di Autonomia, introducendo la nozione di “nazionalità catalana”. Il documento fu sottoposto al popolo della Catalogna e approvato con referendum da una larga maggioranza. Tuttavia, quando lo stesso fu esaminato a Madrid, furono richieste ed eseguite molte modifiche, fino a che, nel 2010, il PPE del premier Mariano Rajoy impugnò lo Statuto presso la Corte Costituzionale Spagnola. Il “Tribunal Constitucional” emise una sentenza con la quale reinterpretava diversi articoli dello Statuto, affossandone definitivamente i contenuti originali.

Questo atto, vissuto dai catalani come un affronto alla propria autonomia, scatenò un’ondata patriottica senza precedenti che sfociò in manifestazione di protesta il 10 luglio 2010 a Barcellona. Il popolo catalano sentì che il peso del governo di Madrid era diventato insopportabile e, da quel giorno, ogni 11 settembre, in occasione della “Diada” (il giorno in cui si commemora la caduta di Barcellona nel 1714 dopo 14 mesi d’assedio), la capitale catalana è invasa da una folla vestita a strisce giallo e rosse che manifesta il proprio orgoglio nazionale e che chiede a gran voce l’indipendenza.

Proprio questa spinta dal basso è il segreto del successo del movimento indipendentista catalano; è stata la spinta dal popolo a convincere i leader dei principali partiti indipendentisti e identitari a confluire in “Junts Pel Sí”, superando diversità e dissidi in nome dell’obiettivo supremo della secessione da Madrid.

E se chiedete alla Nebreda cosa succederà se “Junts Pel Sí” vincerà le elezioni del 27 settembre, il giovane avvocato non ha dubbi: “Se l’esito delle elezioni vedrà vincere “Junts Pel Sí” con la maggioranza assoluta dei votanti (50%+1), alla cerimonia d’insediamento del nuovo Parlamento Catalano verrà fatta una dichiarazione solenne con l’obiettivo di aprire il processo di distaccamento dallo Stato Spagnolo, da concludere entro i successivi 18 mesi”.

Dalla dichiarazione solenne partiranno due processi paralleli: uno, istituzionale, che provvederà alla formazione di un Governo di Unità Nazionale con l’obiettivo di creare le istituzioni di cui uno stato indipendente ha bisogno (e.g. Ministeri, Banca Centrale, Relazioni diplomatiche), l’altro, costituente, che coinvolgerà tutto il popolo catalano provvedendo a scrivere la nuova Costituzione della Catalogna.

Una volta a buon punto il processo di costruzione delle nuove istituzioni, il Governo di Unità Nazionale proclamerà unilateralmente l’Indipendenza della Catalogna dalla Spagna; con quest’atto, Mas intende vendicarsi del provvedimento con il quale il Governo Rajoy stroncò con la forza il referendum indetto il 9 Novembre 2014, per sottoporre al popolo catalano il quesito sull’indipendenza.

Agli indipendentisti di “Junts Pel Sí” non sembra spaventare neppure lo spettro di un’uscita dall’Unione Europea. La Catalogna è una regione che vive di esportazione ed è solida economicamente. Quanto a Juncker, presidente della Commissione Europea, se è vero che il suo portavoce si è dichiarato contro la secessione catalana, è anche vero che, secondo quanto riportato da Elisabet Nebreda, alla domanda “Cosa pensa di una Catalogna indipendente in Europa?” il diretto interessato abbia risposto “Perchè no?”

Insomma, scenari imperscrutabili che potrebbero trovare un epilogo proprio tra qualche giorno, quando la Storia (e la geografia) d’Europa potrebbe cambiare di nuovo, restituendo a un popolo la dignità di autodeterminarsi.

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da sinistra Domenico Oliveti, Mattia Di Gennaro, Elisabet Nebreda e Martino Grimaldi

Unione Mediterranea all’Accademia di Svezia: Erri De Luca, premio Nobel per la Letteratura

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Lo scrittore Erri De Luca, napoletano di nascita, cosmopolita per vocazione, rischia di essere condannato a 8 mesi di reclusione per aver difeso e applicato il diritto alla “parola contraria”.
Secondo il pubblico ministero, De Luca ha istigato al reato di terrorismo quando è sceso in campo e ha prestato le sue parole alla lotta degli abitanti della Val di Susa, condannati a ospitare un’infrastruttura, la linea alta velocità Torino-Lione, che aveva l’unica utilità di poterci speculare sopra.

Nella sua opera, Erri De Luca ha sempre inteso difendere la natura e la libertà degli uomini a decidere e delle idee di poter essere espresse.

“Nell’aula del tribunale di Torino il 28 gennaio 2015 non sarà in discussione la libertà di parola. Quella ossequiosa è sempre libera e gradita. Sarà in discussione la libertà di parola contraria, incriminata per questo. Per questo diritto sto nell’angolo degli imputati. Ho detto le mie convinzioni a un organo di stampa e i pubblici ministeri le hanno fatte rimbalzare su tutti gli altri. Se quelle frasi istigavano, la pubblica accusa le ha divulgate molto di più, ingigantendole e offrendo loro un ascolto di gran lunga maggiore. Quelle parole dette a voce al telefono sono state messe tra virgolette e dichiarate capo d’imputazione. Quelle virgolette attorno alle mie parole sono delle manette. Non posso liberarle da lì, ma quelle manette non hanno il potere di ammutolirle. Posso continuare a ripeterle e da quel mese di settembre 2013 lo sto facendo su carta, all’aria aperta e ovunque.
“Se la mia opinione è un reato, continuerò a commetterlo.”

Per questo Unione Mediterranea, movimento meridionalista impegnato nella battaglia per i diritti civili del popolo del Mezzogiorno e di tutti i Sud del Mondo, chiede all’Accademia Svedese, titolare dell’assegnazione del Nobel per la Letteratura, di valutare la produzione letteraria di Erri De Luca e di consacrare il diritto alla parola contraria con il premio più prestigioso per un uomo di opinione.

Per firmare la petizione, CLICCA QUI

Gatti (IlSole24Ore) “RC più caro a Sud? Se lo meritano, se vivono nell’illegalità!”

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di Mattia Di Gennaro

Ormai è chiaro: Cesare Lombroso, a più di un secolo dalla sua giusta morte, continua a mietere fan. No, questa volta non parliamo di Rosy Bindi ma di un giornalista romano da decenni trapiantato negli USA, dove fa l’inviato speciale per “IlSole24Ore”. Stiamo parlando del signor Claudio Gatti e del suo articolo apparso su “IlSole” domenica scorsa, intitolato “RC auto, il Sud paga il conto dell’illegalità”, un concentrato di approssimazioni tendenziose che non rendono affatto giustizia alla eppur luminosa carriera del giornalista emigrato.

Ma andiamo per gradi e proviamo a commentare con lucidità questo pezzo che, vi assicuro, non sfigurerebbe sulle pagine leghiste de “La Padania”.

Claudio Gatti inizia col prendere di mira Marcello Taglialatela, deputato di Fratelli d’Italia, reo di aver presentato lo scorso marzo, un’interrogazione parlamentare con la quale aveva chiesto che fosse fatta chiarezza sui motivi per i quali le compagnie assicurative applicano tariffe più alte in Campania e, in generale, nel Mezzogiorno rispetto ad altre aree della Penisola. Ebbene, per il nostro giornalista, il tentativo di Taglialatela di capire le cause di quella che per tanti ormai sembra una discriminazione territoriale bella e buona viene apostrofato come uno “schiamazzo etnico-politico”.

Ma siamo appena all’inizio. L’inviato speciale de “IlSole” cita, poi, un’inchiesta condotta dallo stesso quotidiano economico sulla base delle più recenti rilevazioni sugli incidenti e i comportamenti stradali degli italiani. Secondo Gatti, tale inchiesta porterebbe “a concludere che il divario tra Nord e Sud non è attribuibile a volontà discriminatorie o, peggio, all’ingordigia degli assicuratori del Sud, bensì a fattori oggettivi sui quali, volendo, si potrebbe intervenire”. Ora, a parte che di assicuratori del Sud, intesi come compagnie assicurative con sede legale nelle regioni meridionali, non ne esistono proprio (e basta andare sul sito dell’Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni per credere), siamo davvero curiosi di conoscere quali siano questi “fattori oggettivi” che incidono appesantendo le polizze degli automobilisti mediterranei. Secondo il giornalista romano sono: le tasse , i costi dei sinistri, le frodi e i comportamenti degli automobilisti.  Ma se sulle tasse, udite udite, “non ci sono differenze tra Nord e Sud, […] ci siamo concentrati sul costo dei sinistri, il rischio frodi e i comportamenti di guida. Ebbene, l’analisi fatta da IlSole24Ore, senza un singolo dato in controtendenza, dimostra che in tutte e tre le categorie i numeri del Sud sono peggiori di quelli del Nord, e quindi spiegano o giustificano economicamente premi più alti”.

Il primo dato che il nostro “inchiestista” d’esportazione analizza è la frequenza dei sinistri, definita come il totale degli incidenti diviso il totale delle auto circolanti: dai dati forniti dall’Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici (Ania), relativi a non si sa bene quale periodo, il valore al Nord è del 5,67%, al Centro del 6,64% e al Sud del 6,23%. Lette con equidistanza, queste cifre lascerebbero esclamare al lettore medio che siamo in una situazione di sostanziale equità, in cui addirittura il Centro Italia ha una frequenza media dei sinistri maggiore del Mezzogiorno; tuttavia, il nostro Gatti ha un obiettivo preciso che è quello di convincere il lettore che al Sud vive una tribù di automobilisti imbroglioni e fuori dalle regole che per forza devono pagare di più l’assicurazione. E il nostro, infatti, ammette che il Sud ha una frequenza dei sinistri del 6,23% ma aggiunge tra parentesi “con punte del 10,43% a Napoli”. Certo, e come poteva mancare la citazione a Napoli quando di incidenti, truffe e altri reati.

Pure Salvini, in un recente post su Facebook, ha incoronato Napoli “capitale italiana delle truffe alle assicurazioni auto”, ennesima prova della totale disinformazione in merito all’argomento. Il peggio è che ha incassato migliaia di “mi piace” e condivisioni che avranno l’effetto di aumentare ulteriormente il pregiudizio verso i napoletani e i mediterranei. in generale.

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Per amore di verità e per combattere l’odioso pregiudizio verso la capitale del Mezzogiorno, abbiamo analizzato gli ultimi rapporti annuali dell’Ania, in particolare l’ultimo del 2014-2015, nella speranza di trovare i dati citati dal nostro segugio ma non li abbiamo trovati. Evidentemente, Gatti avrà richiesto direttamente all’Ania dati più aggiornati. Quello che abbiamo, invece, trovato nel rapporto Ania è questo passaggio molto meno “lombrosiano” di quello apparso domenica scorsa su “IlSole” ed enormemente più efficace per comprendere la distribuzione della frequenza dei sinistri durante il 2014: “Analizzando la distribuzione dell’indicatore di frequenza sinistri a livello territoriale, si nota che la provincia dove si è registrato il valore più elevato nel 2014 è Napoli (10,02%) […]. Anche in alcune province della Toscana, tuttavia, la frequenza sinistri ha mostrato valori superiori alla media nazionale: in particolare a Prato (8,52%), a Firenze (6,93%) e a Pistoia (6,60%). Più in generale, in molte delle città più grandi, dove evidentemente la circolazione e quindi l’esposizione al rischio di incidente è più elevata, a prescindere dalla zona geografica, si sono osservati valori della frequenza sinistri oltre la media nazionale (Genova, Roma, Torino, Palermo e Milano)”. In pratica, è sostanzialmente normale che in città grandi come Napoli, ma anche Milano o Roma la frequenza dei sinistri sia più elevata della media. E ancora: “Poche sono le province invece dove la frequenza sinistri ha evidenziato, seppur in modo contenuto, un aumento. A Verbania ed Enna l’indicatore è salito in media del 3%, mentre a Sondrio, Novara e Caltanissetta l’aumento medio è stato del 2,4%”. Insomma, Verbania vale Enna, Novara o Sondrio valgono Caltanissetta, eppure per qualcuno è giusto che i cittadini a sud di Roma paghino di più.

Nella figura sotto riportata, tratta dal rapporto Ania, risulta semplice osservare quanto sia sostanzialmente omogenea la distribuzione della frequenza dei sinistri in Italia.

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Claudio Gatti, poi, si cimenta in un sapiente uso delle percentuali con l’intento di esaltare il civilissimo Nord ai danni del selvaggio Sud: “L’incidenza dei veicoli non assicurati al Nord è di 6,8% e al Sud è addirittura del 15,2% (si pensi che la media europea si attesta attorno al 3%)”. Pur ammettendo la veridicità dei dati, riteniamo che il dato sia stato preso con troppa leggerezza e desideriamo fare maggiore chiarezza.

Nel Mezzogiorno i redditi sono mediamente più bassi che nel resto d’Italia, mentre le tariffe RCA in media più elevate. La conseguenza di questa situazione è che per alcune famiglie l’auto diventa sempre più un bene di lusso a cui, purtroppo, non si può rinunciare, considerando anche il livello cronicamente mediocre delle infrastrutture e dei trasport pubblici al Sud. Intendiamoci, non stiamo assolutamente dicendo che sia giusto non pagare l’assicurazione, ma se un padre di famiglia ha bisogno necessariamente dell’auto per recarsi al lavoro e non riesce a permettersi il costo della polizza e tenta in tutti i modi di evitare di fare incidenti, non ci sentiamo di condannarlo.

Ci chiediamo, piuttosto, cosa spinga quasi sette automobilisti settentrionali su cento a non assicurare il proprio mezzo, dato il livello mediamente più elevato del reddito, dei servizi pubblici e dei trasporti e, soprattutto, le tariffe RCA mediamente più basse.

Per cercare di capire se il vizio di non assicurare l’auto è un “fattore costitutivo” del popolo mediterraneo, abbiamo ancora una volta spulciato i dati dell’ultimo report Ania. Ciò che abbiamo scoperto è che il numero dei veicoli non assicurati è in trend crescente consideranto tutte le macroaree italiane, e non solo nel Sud-maglia nera che, come abbiamo visto, seppur non sia del tutto innocente, ha sicuramente delle attenuanti.image004

Dove Claudio Gatti da il meglio di sé nel denigrare il popolo mediterraneo è nella declinazione degli episodi di frode ai danni delle assicurazioni che, secondo il nostro emigrato eccellente, hanno “una diffusione più sistematica al Sud”. Per dimostrare questo teorema riporta due episodi di truffe organizzate ai danni delle compagnie assicurative, di cui assolutamente non dubitiamo l’esistenza, avvenuti a Taranto e nella provincia di Caserta. Peccato, che il nostro distratto giornalista (per carità, vivere negli States non aiuta ad avere un occhio attento sui fatti italiani) abbia dimenticato di citare, ad esempio:

  • i Novanta a processo a Torino per truffa alle assicurazioni (tutti figli di terroni, nè?);
  • assicurazioni truffate in Lombardia: anche due aborti per aumentare il risarcimento truffe;
  • Roma, maxi-truffa alle assicurazioni: 67 rischiano processo. Ci sono anche medici e avvocati;
  • finti incidenti in Veneto, scoperta truffa da 200mila euro (organizzati da un pugliese e da un veneto di Dolo (nomen omen).

Come avete visto, frodare le compagnie di assicurazione non è un malcostume solo del Sud ma è un aspetto piuttosto diffuso in tutta la Penisola. Dopotutto, a una lettura più attenta dell’articolo di Gatti, questa sostanziale “unità d’intenti” emerge, anche se il nostro giornalista, con mestiere, è abile a celarla, in nome della sua tesi denigratoria.

“E veniamo all’annoso problema delle frodi. L’ANIA ci ha fornito i numeri dei sinistri esposti a rischio frode, e al Nord sono lo 0,895% mentre al Sud il 2,039 percento”. Per, far emergere che i meridionali sono delle brutte persone che vanno in giro a fare truffe e imbrogli, Claudio Gatti  si spinge fino alla terza cifra decimale della percentuale dei sinistri sospettati di frode: 0,895%, praticamente quasi 1% di sospette frodi al Nord contro il 2,039 percento (si, scritto per esteso, così sembra più grave), ovverosia il 2% al Sud. 1% contro il 2%, anche qui sostanziale uguaglianza che, a nostro avviso, non giustifica affatto la differenza tra le tariffe RCA tra Nord e SUD.

Ma Gatti continua “L’IVASS ha invece appositamente estrapolato per noi la percentuale di sinistri contestati per frode nel 2014 sul totale di quelli denunciati: al Nord sono lo 0,9% e al Sud quasi il quadruplo: il 3,5%. L’IVASS inoltre elaborato i dati dei sinistri oggetto di specifiche istruttore per sospette frode ma non contestati [l’ortografia, questa sconosciuta] accertando che sul totale di 222mila, meno di 66mila sono avvenuti al Nord e oltre 82mila al Sud”. Parliamo, non di frodi accertate ma di sospetti, ma il Gatti cita i numeri come se fossero delle prove schiaccianti di colpevolezza. Addirittura, utilizza le migliaia in luogo delle sue amate percentuali. Questa volta le usiamo noi e scopriamo che 66mila sospette frodi a Nord sul totale di 222mila fa circa il 30%, 82mila su 222mila fa circa 37% al Sud. Anche qui, tra 30% e 37 % non ci vediamo tutta questa differenza, considerando specialmente che le differenze di tariffe tra Sud e Nord sfiorano spesso il 50%.

Eppure Umberto Guidoni, responsabile auto di Ania, ha affermatio “Se in alcune zone del Sud le polizze RC auto sono care è perché i sinistri sono più frequenti e costosi. Tanto è vero che a Potenza, dove la frequenza dei sinistri è pari a quella di Vercelli, si paga di meno di altre città del Sud”. Però, per un arcano motivo a Potenza la polizza RC auto costa in media più di Vercelli ed è tutto in questo dettaglio la palese discriminazione territoriale applicata dalle assicurazioni.

Guidoni non si accontenta e va giù duro “In certe aree del Paese la frode assicurativa non viene considerata un atto illegale. Come dice il Censis è una specie di ammortizzatore sociale. Aggravato dalla presenza della criminalità organizzata e da condizioni economiche peggiori”. Dopotutto cosa ci si aspettava da un esponente dell’associazione di categoria delle assicurazioni, che ammettesse forse che qualcosa nel loro modo di calcolare le tariffe va a svantaggio degli assicurati, riempiendo in modo ingiustificato le casse delle compagnie?

Torniamo al nostro Claudio Gatti che, in ultima istanza, analizza i comportamenti di guida dei meridionali e lo fa citando i dati tratti da uno studio sull’utilizzo di alcuni dispositivi di sicurezza e del cellulare alla guida, finanziato dal Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità.

La premessa dello studio è tutta un programma “Poiché erano attese, anche sulla base delle osservazioni effettuate negli anni precedenti, maggiori criticità nel Sud del Paese, ci si è concentrati soprattutto in quest’area”, che parafrasando significa “al Sud non ne abbiamo fatta passare liscia neppure una, abbiamo rilevato tutte le infrazioni”.

Difatti, lo studio ha rilevato che quanto a uso di cinture di sicurezza e seggiolini per bambini il Nord è più virtuoso del Sud. Sostanzialmente in pareggio, invece, il dato sull’uso dei cellulari alla guida e dei caschi (99,7% al Nord, 93,2% al Sud), ma, udite udite, al Sud “una quota marcata di utenti delle 2 ruote, pur indossando il casco, lo teneva slacciato o non correttamente allacciato”. Capito, state attenti la prossima volta che vedete qualcuno col casco slacciato, sappiate che sta facendo lievitare anche il costo della vostra polizza assicurativa.

“A questo punto non c’è da sorprendersi se il costo medio dei sinistri e di 4.218 euro al Nord e di 4.977 al Sud”, sentenzia con sicumera l’inviato in America con il pallino della RCA., senza indicare da quale fonte ha preso i dati.

Giusto per fare chiarezza, il costo medio di un sinistro rappresenta l’esborso atteso da parte della compagnia, quando un proprio assicurato commette un incidente e, in linea di principio, sembra giusto che laddove gli esborsi siano stati mediamente più alti si paghi di più per la RC auto. Il problema è: quanto di più?

Per risolvere questo dilemma e cercare di capire meglio le dinamiche attorno alla definizione dei prezzi delle polizze RCA, nel Marzo 2013, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (anche Agcm o Antitrust) ha emesso la relazione denominata “Indagine conoscitiva riguardante la Procedura di Risarcimento Diretto e  gli assetti concorrenziali del Settore Rc Auto” (AGCM IC42). In questo documento si evidenzia come sia possibile che in due città come Napoli e Milano, comparabili in termini di densità abitativa, alta frequenza di sinistri e medio “costo medio”, le compagnie assicurative applichino prezzi più alti di circa il 60% a sfavore della città partenopea, il tutto senza una chiara definizione delle tariffe. Emblematica la figura, tratta dalla relazione dell’Agcm, che mostra il rapporto tra il livello medio dei premi e la frequenza dei sinistri. L’analisi dei dati sottolinea la marcata esistenza di una correlazione positiva tra questi due fattori, ovvero nelle province dove i sinistri sono più frequenti il livello dei premi è mediamente più elevato; tuttavia, tale principio non sembra valere per tutte le province considerate. Se prendiamo, a titolo esemplificativo, i pallini relativi alle province di Milano e Napoli, si vede chiaramente che, nonostante per entrambe vi sia la medesima frequenza (elevata) sinistri, i premi a Napoli sono di oltre il 60% più salati che a Milano, dove un assicurato paga non solo meno della media ma meno, ad esempio, di Caserta, provincia caratterizzata da una frequenza di sinistri addirittura più bassa!

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Pure l’immagine sotto che mostra la relazione esistente tra il livello dei premi e il costo medio dei sinistri non lascia dubbi nell’indicare l’esistenza di una correlazione positiva tra le due variabili (le province dove i sinistri sono più costosi sono caratterizzate da livelli dei premi mediamente più elevati), tuttavia ciò che sconcerta è l’elevata variabilità dei premi medi provinciali a parità di costo medio dei sinistri. Per esempio, il premio medio a Napoli è più del doppio di quello di Mantova, pur avendo entrambe le province lo stesso costo medio dei sinistri. Una spiegazione di tale differenza (Mantova vs. Napoli) può essere solo in parte ottenuta dal confronto della figura 2 con la precedente figura 1, dalla quale si può vedere come, rispetto a Mantova, Napoli è una provincia caratterizzata da una frequenza sinistri elevata, il che tende a riverberarsi sul livello dei premi.

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Come si è potuto vedere, i dati riportati dalle analisi dell’Antitrust evidenziano l’esistenza di un ingiustificato pregiudizio verso gli assicurati meridionali che le compagnie assicurative applicano nella determinazione delle tariffe; ingiustificato alla luce anche della mancanza di trasparenza, per la quale non è chiaro quali siano i fattori determinanti nel calcolo dei prezzi delle polizze. E il discorso della maggiore incidenza delle frodi assicurative nelle regioni meridionali è un discorso che non regge. È, invece, nota, attraverso la stessa indagine dell’Antitrust “AGCM IC42”, l’esistenza di una serie di inefficienze operative nelle politiche adottate delle compagnie assicurative per combattere il fenomeno delle frodi.

Unione Mediterranea è da sempre schierata in prima linea per combattere la discriminazione tariffaria RC auto che le compagnie assicurative applicano nei confronti degli automobilisti mediterranei. Anche Mario de Crescenzio, presidente dell’associazione “MO BAST!”, da anni impegnata contro le discriminazioni territoriali, soprattutto in tema RC auto, ha commentato per noi l’articolo di Gatti

“Che dire, fare un’inchiesta sulle assicurazioni al Sud chiedendo i dati e il parere di Ania è come, diciamo a Napoli, chiedere all’acquaiolo com’è l’acqua? Che volete che risponda, che è freschssima anche se poi tando fredda non è. Così come l’acquaiolo, l’Ania, l’associazione delle compagnie assicurative, si fabbrica i dati in casa e li diffonde per i proprii scopi, tra i quali, appunto, c’è quello di mettere in cattiva luce gli assicurati meridionali, campani e napoletani in primis, per giustificare l’applicazione di tariffe spropositate e far passare il messaggio che, addirittura, sia pure una cosa giusta.

Ma i dati statistici dell’IVASS, nonostante provengano dalle stesse compagnie, non parlano affatto di una maggior sinistrosita’ nelle province meridionali; anzi, il rapporto S/P (rapporto tra sinistri pagati e premi incassati) osservato negli ultimi 5 anni nelle diverse province italiane, ci dice che città come Milano o Napoli sono, più o meno, sugli stessi livelli. Abbiamo paragonato Milano e Napoli poichè hanno caratteristiche sicuramente piu’ omogenee. Anche l’Antitrust, nell’ultima indagine conoscitiva sul mercato delle assicurazioni, pubblicata nel 2013, ha evidenziato come Napoli e Milano siano sugli stessi livelli considerando frequenza di sinistri e costo medio degli stessi. Tuttavia, a Napoli si pagano centinaia di euro in più che a Milano!

Un altro aspetto fondamentale su cui puntare l’attenzione è sicuramente il discorso sulle frodi. In realtà, non esistono dati statistici che permettano di di affermare con certezza che in una città come Napoli si commettano più frodi che altrove; tutto ciò viene millantato dalle compagnie assicurative sulla base di proprie valutazioni di eventi sinistrosi che le stesse giudicano frodi; e qui ritorniamo al discorso dell’acquaiolo a cui se chiedi perchè a Napoli si paga di più la RC auto, ti risponderà perchè secondo me, fate troppe frodi. Opinioni, dunque!

E dico che non è possibile accertare la fraudolenza degli assicurati napoletani, perchè queste presunte frodi non vengono denunciate quasi mai dalle compagnie, venendo a mancare una valutazione di un organo terzo, la magistratura nella fattispecie, che accerti la natura fraudolenta del sinistro. E l’Antitrust, nella succitata relazione, dice a chiare lettere che le compagnie non hanno interesse ad esercitare azione di contrasto alle frodi in quanto per loro è più semplice scaricarne i costi sulle tariffe applicate ai cittadini.

Come si vede, a loro è concesso di non dimostrare NULLA, di dire stupidaggini e, soprattutto, di raccontare queste cose ai giornalisti che a loro volta diventano la loro grancassa.

Spesso mi è capitato di osservare l’evidente volontà delle assicurazioni a non esercitare azioni di contrasto alle frodi; le compagnie hanno, invece, interesse a pagare i sinistri di piccoli importi, per ragioni di tipo fiscale e tariffario.

Poi ci si mette anche Salvini, a cui ho risposto che se vuole che dire Napoli è la capitale delle truffe assicurative che produca e pubblichi i dati statistici a supporto di quanto detto. Nessuna risposta da parte sua e, temo, che non ne arriveranno mai”.

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