Concludiamo il nostro giro di interviste a proposito del risultato delle recenti elezioni in Catalogna con il dott. Francesco Tassone.
Ci perdonerete se questa intervista sarà più lunga delle precedenti, ma ne vale la pena. Innanzitutto, per chi non lo conoscesse, ci teniamo a presentare in maniera più approfondita il nostro Presidente, Francesco Tassone, amico e compagno di lotte di Nicola Zitara.
La figura di Francesco Tassone coincide, come in un unicum, con i Quaderni del Sud – Quaderni Calabresi, un notevole strumento nel lavoro di crescita del sentimento di identità e di responsabilità dei Meridionali, da quasi mezzo secolo voce di quel Movimento Meridionale nato dall’impegno sociale e politico di un gruppo di intellettuali calabresi che ruotava attorno al “Circolo Salvemini” di Vibo Valentia. Unica entità che seppe dare una chiave di lettura originale e analitica dei moti di Reggio Calabria egemonizzati da fascisti e sodali.
Quaderni del Sud è rimasta ancorata alla concretezza dei luoghi e delle comunità meridionali, dove sempre di più si consuma lo scempio della democrazia e dei beni comuni, cercando di fornire al lettore strumenti di analisi per la realizzazione di strutture di lavoro che rispondano alle esigenze di libertà e un rapporto critico e costruttivo con i vari movimenti meridionali che vanno nascendo ovunque e che costituiscono terreno naturale per una dialettica unitaria.
La storia del Sud, le condizioni in cui oggi esso si trova sul piano politico, economico e sociale considerato nel suo rapporto di dipendenza, i problemi che lo travagliano (emigrazione, disoccupazione, mafia, inefficienza di servizi, invasione del territorio, inquinamento, etc.) sono i temi della rivista e la linea ideale dell’impegno politico sociale di Tassone con particolare attenzione a ciò che attualmente si fa nel Sud, ossia alle dinamiche dei rapporti interni tra movimenti e associazioni nella prospettiva di riterritorializzazione dei processi politici, economici e sociali. Francesco Tassone mantiene sempre uno sguardo attento ai rapporti del Sud con la realtà più ampia e più complessa del nostro tempo: come il Sud vive la mondializzazione, come reagisce di fronte al processo di disgregazione sociale in atto e alla drammatica separazione, ogni giorno più reale, tra dimensione storica e politica.
1. Cosa ne pensa del percorso indipendentista catalano? È un modello riproducibile per il mezzogiorno d’Italia?
Non può sussistere dubbio sul fatto che il successo del movimento indipendentista in Catalogna abbia un grande valore simbolico – e quindi anche politico e morale – per tutti i movimenti indipendentisti o, più equivocamente, autonomisti, che operano nel mondo. E quindi, per concentrare il discorso sul nostro problema concreto, anche per noi. Tale successo dice che si può, che anche noi possiamo. Podemos.
L’avvio di riflessione su tale avvenimento posto con le cinque domande è quindi molto opportuno. Ma sotto altro aspetto, e cioè perché tale successo potrebbe indurre a conclusioni per noi erronee e fuorvianti. Ciò soprattutto per quanto riguarda la valutazione- o meglio la supervalutazione, allo stato delle cose – della portata della via elettorale nella riconquista da parte delle popolazioni del Sud della sovranità sul territorio che ad esse compete e che ad esse venne brutalmente tolta nel 1860 con una invasione di pretto stampo coloniale.
Peraltro, quella della via elettorale come via unica, prima che elettiva, a cui dedicare i nostri sforzi, è una idea radicata nei nostri movimenti, che ci preclude e fin qui ci ha precluso di vedere le linee di azione che possono portare alla difficile meta dopo 155 anni di devastazione del tessuto economico, sociale e culturale su cui si fonda e da cui nasce la nostra soggettività. La quale meta, appunto per questo, richiede l’assunzione di un lavoro di risanamento e disinquinamento di quel tessuto, cioè del nostro territorio di vita costituendo tale lavoro l’unica forma di presa di possesso di tale territorio per quanto oggi possibile; e quindi l’avvio concreto, nei fatti, del processo a ciò volto, attraverso un’azione condotta giorno per giorno, in modo capillare e diffuso, da tutto un popolo, in tutte le sue varie e minute articolazioni territoriali . L’unica che ne può rafforzare il radicamento, così gravemente minacciato.
Rispetto ad una tale linea, ben nota in altre situazioni analoghe con vari nomi, ed in particolare con quello di “processo di transizione” dalla dipendenza al pieno materiale possesso della sovranità, la via elettorale, allo stato delle cose non può che avere un ruolo collaterale, comunque mai sostitutivo. Si badi che non è in discussione la sua importanza perché è anch’essa indispensabile forma di esercizio della sovranità, come cittadini e come popolo, in quello spazio della vita di un popolo che è lo spazio istituzionale; ma è necessario rendersi una buona volta conto della sua radicale insufficienza se scollata dal processo sociale sopra accennato, priva di radici nelle popolazioni. Si discute della insidiosità di una tale strada, allo stato delle cose, per un movimento meridionale, chiamato ad attivare una soggettività pressoché sommersa, destinato ad esaurire le sue forze su una strada irrealizzabile se non radica la sovranità nell’operare di tutto un popolo.
Il modello catalano, se così si può dire, non è quindi riproducibile nel Sud; ed anzi la sua adozione – che in effetti è quella allo stato operante- deve ritenersi esiziale per i movimenti che in esso lavorano per costruire le premesse materiali e morali di una sua autonomia avente i caratteri della sovranità e quindi dotata delle strutture di carattere materiale e morale insieme, che ne costituiscono le colonne portanti.
2. Quali sono i punti in comune tra il nostro sud e la Catalogna?
Non vi sono punti di contatto tra il nostro Sud e la Catalogna. La cui situazione, all’interno del complessivo sistema economico e produttivo mondiale è simile a quella delle regioni padane; ferma restando, sul piano politico la non piccola differenza tra queste due situazioni –la tosco-padana e la catalana – costituita dal fatto che la Catalogna ha alle sue spalle la storia di una sua identità nazionale, rafforzata da un’espansione che oggi possiamo definire di carattere coloniale volta verso l’esterno; mentre l’espansione produttiva ed economica delle regioni padane, a scapito e con lo sfruttamento delle regioni del Sud trova la sua base nella stessa struttura politica costituita dallo Stato ( subdolamente definitosi) Unitario, ma in realtà fin dall’inizio costruito e via via modellato in funzione della concentrazione dell’accumulazione nelle regioni suddette e del connesso, doloroso, lungo, calvario dello smantellamento di tutte le strutture che al Sud erano state già costruite: con un’espansione diretta verso “l’interno”
Nell’una e nell’altra situazione comunque, i movimenti indipendentisti in essa formatisi, non nascono dalla esigenza di costruire unità e cooperazione tra i popoli, ma da quella di rafforzare le proprie strutture economico- produttive nel quadro di una concorrenza – o meglio, lotta di sopraffazione- tra i popoli. Anche se questo deve avvenire a scapito di popolazioni “interne”come quella del Sud; e, nel caso della Catalogna, a scapito di popolazioni allo stato parimente interne, come quelle dell’Andalusia.
3. Quali sono, invece, le differenze?
Non vi sono quindi, a mio giudizio, punti solidi di contatto tra le due situazioni, mentre le differenze sono organiche e sostanziali.
Tra di esse va annoverato il fatto che tra il movimento catalano e le classi dirigenti catalane, quelle economicamente e socialmente portanti, vi è omogeneità di interessi ( così come avviene nelle regioni padane).
Nel Meridione invece le classi dirigenti – o potenzialmente tali – sono alle dipendenze dello Stato Unitario, cioè di quella struttura politica montata e costruita per realizzare la costante concentrazione delle risorse nelle regioni della Tosco- Padania, come amava chiamarle Zitara.
In definitiva le classi dirigenti meridionali, o quelle che potenzialmente potrebbero essere tali, hanno dismesso le loro funzione, mantenendo il governo del territorio in quanto postesi, attraverso l’arruolamento nei partiti politici nazionali, al servizio dell’occupante. Degradando da classe politica, come tale dirigente, a ceto ascaro.
Le differenze tra le due situazioni sono pertanto profonde, perché riguardano la struttura sociale e produttiva delle due situazioni, e quindi organiche . Sicché a noi incombe di muovere da questa struttura di base, prendendola così come è, avvilita e dissestata, e costruire in essa, attraverso il lavoro di risanguificazione di cui essa ha bisogno oggi e non domani, la nuova classe dirigente meridionale a base popolare.
4. La differente solidità dell’economia di queste due macroregioni non impone riflessioni diverse sull’opportunità di una secessione?
Come si configura la “opportunità” di una secessione nell’una e nell’altra situazione- catalana e meridionale- in ragione delle diversa “solidità dell’economia” in queste due “ macroregioni”, è la lettura della 4° domanda, la cui formulazione è stata leggermente modificata in funzione di mettere in evidenza tre termini – “opportunità”, “solidità dell’economia” e “ macroregioni” – a prima vista scontati nel loro significato e in realtà fortemente problematici.
Intanto non si tratta di “opportunità” ma di necessità, per un popolo come il nostro, reso dipendente, a cui la perdita delle dignità, ha insieme assegnato la via dello sradicamento e della dissoluzione.
Non si tratta quindi di “se”, ma di “come” e di “quando”, attraverso cioè quale cammino; si tratta solo di definizione dei fini e dei valori che rendono la “secessione” – cioè la riconquista della posizione di uomini e popolo liberi e cooperanti – necessaria e senza alternative per il popolo che la deve effettuare, cioè nell’ambito della costruzione di un mondo che si voglia salvare per l’unica via che ancora lo può salvare, che non è quella della rapina – e comunque dell’homo homini lupus – ma della giustizia.
Su questo piano il termine “solidità dell’economia” non trova spazio, non tanto perché esso rinvia a situazioni contingenti, quanto perché esso premia i popoli, come quello catalano o quello padano, che vogliono la secessione proprio per non restituire neppure le briciole di quanto dagli altri drenato e di quanto agli altri tolto.
Quanto poi al termine macroregioni, esso è utile, quanto al Sud, solo perché vale ad indicare l’ampiezza, la ricchezza e la complessità dei territori che nella parola Sud trovano il senso di una loro prima comunanza, tuttora operante nella loro vita. Ma non penso che essa debba far parte del nostro vocabolario, portando con sé, a differenza della parola popolo e popoli, una forte connotazione di carattere puramente naturalistico-territoriale.
5. L’UE come si comporterebbe di fronte ad una tale possibilità? In particolare accetterebbe il rientro tra i Paesi membri di una nuova nazione, già ex-regione?
Se l’Unione Europea fosse una unione di popoli non avrebbe difficoltà a riconoscere che tanto la Catalogna quanto il Sud hanno alle spalle una lunga storia di soggettività politica di carattere statuale; e comunque, per quanto riguarda il Sud, una sua notevole omogeneità di condizioni sociali, di cultura, di condizioni politiche – nel caso del Sud come area dipendente. E, quel che più conta, una diffusa coscienza di tutto ciò, che consente ad ognuno di noi di dire “io sono meridionale”, sapendo esattamente cosa vuole dire, e ad un milanese “tu sei un terrone”, sapendo esattamente anche lui cosa vuol dire e quale distanza, in termini di superiorità, intende con ciò definitivamente porre tra noi e loro.
Ma l’UE non è una unione di popoli,come prometteva di essere ( di quante menzogne si serve il dominio per legittimare, agli occhi di quelli che saranno poi i suoi schiavi, la sua natura di dominio!); ma è una combinazione politica a guida verticistica, la cui natura colonialista ( o comunque della stessa qualità di quella che ha guidato nelle sue intraprese il Piemonte prima e, in continuazione, lo Stato Unitario dopo) si è rivelata a pieno, da ultimo, con il trattamento riservato alle popolazioni greche, in esso compreso il sequestro dei migliori gioielli produttivi di quelle popolazioni, (gli aeroporti) effettuato il giorno dopo la loro capitolazione. Esattamente come fa lo strozzino con le sue vittime: stringerle progressivamente nella morsa dei debiti.
Questo non significa che il Sud non debba organizzarsi per difendere dalle distrazioni i fondi che la UE eroga per le aree sottosviluppate. Per difenderli e più ancora per utilizzarli a pieno e nel modo migliore. Anche questa è un tipo di azione che, se ben diretta, può rientrare a pieno, in quel processo di risanamento a cui ho accennato prima, volto a contrastare il processo di dissanguamento in atto: e, insieme con esso, a far crescere il processo di aggregazione che , per quanto molecolare e disperso, è pur sempre anch’ esso in atto – sia pure in modo sotterraneo, disperso e inconsapevole della sua portata- finché un popolo ha ancora respiro e un minimo di coscienza di sé.
Anche se quei fondi provengono da una struttura come la UE, e vengono erogati con altro intento, essi costituiscono comunque una possibilità nel processo di ricostruzione, che una buona volta dobbiamo pur avviare, come unica via, può che portare alla nostra liberazione.
In fondo si tratta solo di restituzione di una piccolissima parte di quello che ci è stato e ci viene tolto.