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Salvate quei sessantacinque condannati – Una storia di sfacciata sperequazione istituzionale

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di Domenico Santoro

Per quanto tempo vorremo baciare la mano del padrone? Per quanto tempo accetteremo il folle contratto che ci impone di nascondere e considerare accettabile una situazione così sfrontatamente sperequante in cambio delle carezze del carnefice?

Il cane addomesticato torna sempre a casa perché trova rassicurante il collare. Per quanto tempo difenderemo il confortante guinzaglio della mitologia risorgimentale?

Carlo Calenda, ministro per lo sviluppo economico – secondo fonti dello stesso ministero – ha chiesto ai vertici di Almaviva di sospendere la dislocazione di 65 (sessantacinque!) lavoratori dalla sede di Milano a quella di Rende. Di per se l’intervento del ministero a difesa dei lavoratori Milanesi è lodevole. Ci si chiede però quale criterio permetta di tollerare la deportazione massiccia di menti e braccia dal meridione ed invece si intervenga celermente e da tanto in alto per salvare 65 (sessantacinque!) persone.

Salvarle da cosa, poi, non si capisce. E’ inquietante rilevare quanto questa sciagurata sottoforma di nazione ritenga svantaggioso il trasferimento d’ufficio in un particolare territorio (da lei nominalmente amministrato) a tal punto da dovere “salvare” un numero così esiguo di persone, mentre la desertificazione demografica di quello stesso territorio non occupi alcun posto nell’agenda politica romana.

L’abdicazione dello stato è sfacciata. Si è rinunciato a portare il meridione nel 2017 e la rinuncia è tale che le migliaia di partenze sono considerate naturali, mentre 65 (sessantacinque!) arrivi sono una iattura tale da dover scomodare un ministro.

L’opinione pubblica italiana dimostra di considerare accettabile questa idiozia sociopolitica, peraltro. Non molto tempo fa lo snobismo tricolore aveva bollato come esagerata la retorica della deportazione, delegittimando le proteste di decine di migliaia di insegnanti meridionali costretti al trasferimento. Oggi 65 (sessantacinque!) possibili trasferimenti in senso inverso diventano un caso di stato nella assonnata indifferenza del belpaese.
Fin quando ci sentiremo “fratelli” e non figliastri? Fin quando questi palesi indicatori di disparità rimarranno lettera morta nelle menti delle vittime? Difendiamo più volentieri il mito di peppino garibaldi e dei goal di Paolo Rossi in Spagna che noi stessi.

Fin quando preferiremo baciare la mano del padrone invece che abbracciare i nostri figli?
Rivolgiamo questa domanda alle nostre stesse coscienze mentre – sia chiaro! – speriamo sinceramente che l’intervento di Calenda sia efficace. A noi, infatti, piace accogliere in nostri amici Milanesi quando essi decidono di venire a farci visita, e non quando sono costretti a farlo. Allora che possa valere anche per loro il nostro auspicio secondo il quale si cominci a vivere in un mondo che abbatta l’emigrazione e le preferisca una virtuosa e VOLONTARIA mobilità.

È dalle regioni più in difficoltà che è arrivato il NO!

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Mentre i partiti italiani si spartiscono le percentuali del risultato referendario, i dati ISTAT sono agghiaccianti. 1 italiano su 4 è povero. Le famiglie sotto la soglia di povertà sono così distribuite:

  • Nord 17.4%,
  • Centro 24%,
  • Sud 46.6%.

Le regioni più in difficoltà si confermano Sicilia, Puglia e Campania. L’emigrazione giovanile è in grave aumento. Nonostante ciò l’esecutivo Renzi ha calcolato le soglie di povertà assoluta in modo che risultassero più alte nel settentrione d’Italia riservando il 55% dei sussidi statali al Nord e il 45% al Sud (assecondando la richiesta delle soglie territoriali proposta dalla Lega nel 2005).

Il 4 dicembre si votava per modificare l’impianto costituzionale, certo. E di sicuro molti hanno scelto nel merito di una riforma avvertita come sbagliata. Ma l’eccessiva personalizzazione del referendum ha reso le percentuali un’occasione di giudizio popolare sull’operato politico del Governo. Il No in maggioranza dei giovani è geograficamente più forte al Sud ed esprime un messaggio di reazione ed inequivocabile insofferenza da parte di chi si sente ultimo nelle lista delle priorità di un paese diviso sempre più miope, gerontocratico e scandalosamente diseguale.

di Flavia Sorrentino

Scegli di vivere la tua terra: compra Sud.

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Comprare meridionale significa scegliere prodotti di aziende con stabilimento e tanto più con sede legale al sud, ed è il gesto più immediato e concreto per aiutare la nostra terra: per approfondirne le ragioni fissiamo un dato ed un concetto. Il dato, statistico, riguarda l’emigrazione interna: dal rapporto Svimez 2013 apprendiamo che “negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud circa 2,7 milioni di persone. Nel solo 2011 si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 114 mila abitanti”. In un solo anno una città di media grandezza scompare dal sud ed è trasferita di peso a più settentrionali latitudini.

Il concetto, purtroppo per alcuni ancora sorprendente, è che l’emigrazione meridionale non è una sciagura piovuta dal cielo né un retaggio dell’atavica incapacità del meridionale ad intraprendere, secondo la vulgata del falso storico risorgimentalista, bensì il frutto di scelte precise e ciniche volte a sviluppare il solo Nord a danno del Sud. La legge sul federalismo fiscale e su quello energetico, il trasferimento al nord delle proprietà delle banche meridionali iniziato con la legge Amato del ’90, il furto ormai decennale dei fondi FAS, gli investimenti infrastrutturali, ad esempio quelli CIPE, che vanno al nord in proporzioni bulgare sono solo alcuni degli esempi più eclatanti.

Tuttavia una delle “scene del crimine” che ci riguarda più da vicino, e rispetto alla quale abbiamo più voce in capitolo, è il carrello della spesa: buona parte degli acquisti effettuati nella nostra terra è prodotta al Nord, circa il 94%, secondo un’inchiesta del quotidiano Terra. Il mito padano narra la leggenda di un Nord efficiente e produttivo che compete con l’estero e di un sud palla al piede, tuttavia i dati Bankitalia del 2012 fotografano una realtà diametralmente opposta: su 4,5 milioni di imprese settentrionali attive solo il 4% aveva l’estero come mercato di riferimento, il restante 96% aveva nel Mezzogiorno l’unico mercato di sfogo dei propri prodotti. In parole povere senza di noi avrebbero dovuto chiudere bottega.

Comprare meridionale, a partire dai generi di quotidiana necessità, significa pertanto creare reddito e lavoro nella nostra terra, sostenerne l’imprenditoria e contrastare l’emigrazione interna. Significa, in altre parole, contrastare l’assurdo per cui centinaia di migliaia di meridionali vengono costretti da specifiche scelte di politica “nazionale” ad emigrare al nord per produrre pasta, conserve o altri beni che poi compriamo al sud. Un assurdo che assume i toni del pirandelliano quando si considera che molte materie prime, a partire dall’agroalimentare, vengono prodotte in misura preponderante nelle nostre regioni ma la loro trasformazione è “delocalizzata” al nord. Un assurdo che sa di beffa se si considerano i casi in cui le nostre eccellenze vengono scimmiottate, con pessimi risultati tra l’altro, in quel di padania e nel supermercato vicino casa ci ritroviamo con il famigerato limoncello della riviera prodotto a Bergamo o con la mozzarella spacciata per tradizionale formaggio veneto.

In tale contesto va inserito il tema della sede legale e del federalismo fiscale(1): in sostanza se compri al Sud prodotti di aziende con sede legale al Nord buona parte dell’IVA, circa il 55%(2), va direttamente nelle casse della regione settentrionale di riferimento, con la conseguenza che tasse prodotte al sud vanno a finanziare sanità, scuola, trasporti ed altri servizi locali come se l’acquisto fosse stato effettuato al nord, alimentando ulteriormente la spirale dell’emigrazione interna. Se a questo aggiungete che la parte di tasse che vanno allo stato centrale vengono ripartite, come nel recente caso dei fondi per le ferrovie, nella proporzione di 60 milioni al Sud (1,2%) contro i 4.799 destinati al Nord ( 98,8%), il quadro è completo.

Per avere un’idea del danno perpetrato al Mezzogiorno in termini di risorse fiscali è sufficiente spulciare alcuni dati dai rapporti SVIMEZ 2013 e 2014: se dal primo apprendiamo che “dal 2007 al 2012, il Pil del Mezzogiorno è crollato del 10%, quasi il doppio del Centro-Nord (-5,8%)”, dal secondo emerge tuttavia che mentre le entrate correnti dei comuni del Mezzogiorno diminuiscono, coerentemente con il crollo dell’economia,passando dagli 815 euro per abitante del 2001, all’inizio del federalismo fiscale ai 756 del 2013, quelli dei Comuni del Centro-Nord, nonostante la crisi, aumentano da 944 a 1.018 euro pro capite nello stesso periodo. Il tutto mentre anche i cosiddetti meccanismi di perequazione, pur previsti dalla legge sul federalismo, sono rimasti del tutto inattuati, al punto che la stessa Svimez parla in tal senso di “vera e propria frode a danno dei cittadini del Mezzogiorno”.

Per completare il quadro è necessario aggiungere che per tutta una serie di servizi essenziali, come luce, gas, assicurazioni, treni e banche non abbiamo scelta, non esiste nulla che abbia sede legale più a sud di Roma.

Comprare meridionale significa valorizzare le nostre eccellenze e porre un freno immediato all’emigrazione interna, ma anche più risorse per trasporti, istruzione, sanità e servizi locali. Significa, in altre parole, scegliere di potere e voler vivere la nostra terra.
(1) La cosiddetta “Compartecipazione regionale all’IVA” è stata istituita col D.Lgs. 56 del 18 Febbraio 2000, recante disposizioni in materia di federalismo fiscale. All’articolo 2 si legge: “E’ istituita una compartecipazione delle regioni a statuto ordinario all’IVA.”

(2) Alle regioni va il 52,89% del gettito, come stabilito dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 18 Gennaio 2013, cui va aggiunta un’ulteriore quota del 2% che va ai comuni, in base al DPCM del 17 Giugno 2011.

Di Lorenzo Piccolo