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Lettera ai Napoletani

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Cari Napoletani,
no non mi rivolgo a voi che, magari con ammirevole fatica, siete riusciti a liberarvi dalle catene mentali -ideologiche e psicologiche- e adesso ai vostri occhi tutto appare diverso, mi rivolgo a quell’altra fetta della città: quella che, come le tre scimmiette, non vuole vedere, non vuole sentire e non vuole parlare diversamente.
Oggi è la vostra festa: 7 settembre. L’anniversario del giorno in cui il vostro amico Peppe Garibaldi, con le spalle protette dalla camorra, entrò in città e andò ad affacciarsi da quel balcone, ancora esistente, di Palazzo Doria d’Angri. Al largo dello Spirito Santo che, poi, fu ribattezzato piazza VII Settembre.
Auguri! Buon anniversario!
Avevate ragione a tenere duro e a credere ancora, dopo ben 157 anni, che non fu invaso uno stato indipendente di cui Napoli era la capitale, ma si trattò di una liberazione. I buoni vennero a cacciare via i cattivi, vennero ad aiutarci. Perciò sono fratelli e sorelle d’Italia.
E ancora oggi sanno dimostrare che ci amano e ci rispettano. Infatti, non sono razzisti con noi, non ci insultano, non ci discriminano nell’erogazione dei fondi pubblici, non permettono che abbiamo ferrovie diverse dalle loro, né ospedali meno attrezzati, né zero asili nido. Valorizzano i nostri beni culturali, non vengono ad inquinare e a trivellare la nostra terra e i nostri mari, non invocano disgrazie naturali (che so… un’eruzione del Vesuvio, tanto per dirne una). Del resto, quando ci capita qualche brutta avventura, magari un terremoto, un terremoticchio va’, la prima cosa che fanno è raccogliere fondi, esprimere solidarietà, invitare a non affossare la già compromessa (da loro) economia, e non si permettono certo di pensare subito che la colpa possa essere nostra.
Già perché, invece, la colpa è sempre la nostra. Questo, voi dell’altra fetta della città, lo sapete bene, lo sapete così bene che il senso di colpa, iniettato nelle vostre vene come un vaccino contro la libertà, vi tiene ben lontani dal virus di un pensiero mediterraneo e indipendente. La dipendenza da Peppe è un dogma intoccabile.
Vi ho scritto questo biglietto, per ricordarvi di organizzare la vostra festa. Sono sicuro che oggi, 7 settembre, ci metterete la faccia e vi recherete sotto a quel balcone ad applaudire e lanciare baci verso colui che non c’è più ma che, in compagnia di tutta la sua banda -Vittorio, Camillo, Enrico, Nino, l’altro Giuseppe, eccetera- è ancor vivo nelle vostre coscienze vaccinate.
Auguri, allora, buona festa! Se mi troverò a passare per largo dello Spirito Santo, oh scusate, per piazza VII Settembre volevo dire, sono sicuro di trovarvi a ringraziare per le condizioni di vita che ci ha regalato l’avventuriero barbuto. Sì, lui, che con quella faccia da straniero ha navigato il mondo intero distribuendo libertà.
Voi non siete mica come quegli ambigui meridionalisti sui quali non si sa cosa pensare: gente che pareva seria e che invece si è messa in testa di essere nata in una colonia. Quelli, addirittura, vanno dicendo che la pace è frutto della giustizia e che nascondere le discriminazioni che passano sotto al naso equivale ad esserne complici. Che gente!
Un caro saluto
Antonio Lombardi

Qualcosa non funziona

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Sergio Ragone è un blogger attualmente molto quotato e – nonostante orbiti in area PD – molto attento alle tematiche meridionali.

Se anche lui cede alla trappola del “piagnisteo”, allora è proprio il caso di dire che qualcosa non sta andando per il verso giusto, eufemisticamente parlando. In un articolo del 15 marzo pubblicato sull’Huffington Post Ragone parla della “pentola a pressione”, ovvero di quelle potenzialità che il meridione sta portando in ebollizione da tempo, e che non aspettano altro se non di essere liberate. Chiede ai suoi referenti politici, però, di non cedere al c.d. “piagnisteo”. Lui la chiama “retorica del riscatto” dipingendo implicitamente come un disfattista rassegnato chi denuncia le solite storture che gravano sul meridione.

Se è vero (e purtroppo lo è) che l’azione politica del meridionalismo moderno si esaurisce spesso nei rivoli dispersivi delle frasi fatte e dello sventolio autoreferenziale di vessilli della Real Casa, è altrettanto vero che non si può fare di tutta l’erba un fascio. Anzi, non si deve, perché oltre a questo atteggiamento ne esiste uno più costruttivo, basato su attente analisi e sull’impegno concreto. Parlare semplicisticamente di “retorica del riscatto” appiattisce una realtà estremamente variegata e complessa, e derubrica l’attivismo meridionalista di stampo più concreto a “buffonata per nostalgici o rassegnati”.

Negare la legittimità di certe istanze significa, indirettamente, negare gli stessi problemi che quelle istanze intendono affrontare. Come fa, Ragone, a spacciare per risolta la questione meridionale?

Questo Mezzogiorno non deve riscattarsi da nulla, anzi ha già pagato lo scotto di errori fatti da altri, ma ne è venuto fuori con la forza delle proprie idee, con la passione che lo racconta, con le intelligenze che lo animano“.

Si rimane molto perplessi a leggere certe frasi, soprattutto se – come ripetiamo – si tende a riconoscere una certa attenzione a chi le scrive. Concordiamo naturalmente sull’estrema presenza e vitalità delle nostre forze, ma come si può dire che il Sud sia “venuto fuori” se le infrastrutture sono inesistenti a causa del totale disinteresse della classe politica meridionale? Come si fa ad assolvere tale classe politica facendo passare per buono il fatto che se errori ci sono stati essi sono avvenuti nel passato?

Non abbiamo capito, leggendo Ragone, come mettere a frutto le nostre innegabili qualità in assenza di una infrastruttura produttiva equipollente a quella settentrionale fermo restando che – a quanto pare – chiedere di ottenerla si configura come “retorica del riscatto”.

Qualcosa non funziona. Non si capisce cosa però. Sarà un calo d’attenzione di Ragone, o il fatto che la nostra fonte di notizie sul sud sia diversa dalla sua, ma non ci capacitiamo di come si possano deresponsabilizzare i nostri amministratori, sostenendo che tanto bastano “le idee, la passione, l’intelligenza”. Sarà, molto più probabilmente, la solita, dannata colonizzazione mentale che ci impedisce di ritenere legittima la nostra voglia di riscatto.