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Il signor Gennaro ci chiede della “formula Calderoli”

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SIGNOR GENNARO : Signor MO, mi ha riferito un amico che voi andate dicendo che con la “formula Calderoli” i fondi per la sanità vengono ripartiti in modo da tagliare le risorse dove ci si ammala di più. Io non ci posso credere, questa volta l’avete detta grossa!

SIGNOR MO: Caro Gennaro, non mi sono inventato nulla, questa formula magica esiste già dal 2012.

SIGNOR GENNARO: Ecco, come posso credervi se vi mettete a parlare di magia?

SIGNOR MO: E come potrei definire una cosa che esiste ma non si vede? Tranquillo, non è magia ma solo un trucco.

SIGNOR GENNARO: E quindi mi volete far credere che il Governo abbia approvato una cosa tanto brutta?

SIGNOR MO: Adesso mi spiego. Questa “formula Calderoli” si basa sul principio generico secondo cui persone di età diverse abbiano bisogno di cure più o meno costose.

SIGNOR GENNARO: Ma è giusto, se a mio figlio viene l’influenza mi basta portarlo dal medico di base, mentre mia madre ottantenne ha più probabilità di ammalarsi gravemente o di aver bisogno di cure speciali.

SIGNOR MO: Certo che è giusto, ma questo non può essere l’unico criterio. Pensaci bene, è più probabile che tu abbia bisogno di una sala parto o sarebbe tua moglie ad averne bisogno?

SIGNOR GENNARO: Mia moglie ovviamente. Quindi mi state dicendo che l’unica cosa presa in considerazione per la ripartizione dei fondi è l’età? E basta?

SIGNOR MO: Esatto Gennaro! Questa però è una cosa grave e bisogna capirla bene. Secondo questa formula avranno più soldi le Regioni dove ci sono più anziani, cioè dove si vive più a lungo, quindi è vero anche il contrario: dove c’è la possibilità di ammalarsi o morire prima verranno dati meno soldi. La formula non vuole che vengano presi in considerazione altri parametri: non parla di prevenzione, non guarda alle condizioni sociali e ambientali del territorio.

SIGNOR GENNARO: Tutto sommato è giusto, se questa formula viene messa in pratica in tutto il paese, no?

SIGNOR MO: Certo che no! C’è più probabilità che abbiano una patologia grave i ragazzi della terra dei fuochi o quelli che passeggiano ogni giorno per la Valtellina?

SIGNOR GENNARO: I ragazzi della terra dei fuochi. Ho letto che la Campania ha la speranza di vita più bassa di tutte le Regioni.

SIGNOR MO: Visto? Però gli ospedali lì non riceveranno più soldi proprio perché non non c’è un maggior numero di anziani. E’ così che le zone più rischiose per la salute prenderanno meno fondi, proprio perché si muore prima!

SIGNOR GENNARO:  Ma è terribile! Quindi lo Stato non prevede fondi particolari di prevenzione e monitoraggio per i cittadini più a rischio? Non posso credere che qualcuno possa aver approvato questa follia.

SIGNOR MO: Mi dispiace Gennaro ma è proprio così. L’idea di questa formula diabolica venne a Calderoli nel 2011 e doveva entrare in vigore a partire dal 2013, però le Regioni del Sud capirono l’inghippo e chiesero di revisionare i criteri sui fabbisogni regionali così, in attesa di un vero accordo, i fondi furono aumentati con dei bonus. A dicembre 2014 il Governo decise di cambiare rotta e scrisse nella legge di Stabilità per il 2015 che sarebbe stato utilizzato un vecchio criterio, indicato nella legge 662 del 1996, mai attuato.

SIGNOR GENNARO: Ah quindi alla fine non hanno approvato la formula Calderoli!

SIGNOR MO: Sì che l’hanno approvata, ora ti spiego il trucco: nella legge di Stabilità per il 2015, al comma 601, è scritto che il nuovo criterio sarebbe stato cambiato esclusivamente se si fosse raggiunta, entro il 30 aprile 2015, l’intesa prevista per il decreto. Ovviamente nessun rappresentante delle regioni si mosse entro quella data, dando il proprio tacito consenso alla formula Calderoli, che oggi regola la ripartizione dei 113 miliardi del fondo sanitario per il 2016. Pensa che con questo sistema sono spariti 400mila cittadini campani.

SIGNOR GENNARO: Ancora mi parlate di magia?

SIGNOR MO: Niente magia, è di nuovo un trucco! Secondo la formula un cittadino deve essere conteggiato dallo stato non come 1, ma il suo “valore” nei costi sanitari dipende dalla fascia d’età a cui appartiene. Un cittadino che ha più di 75 anni vale ben 2,844 mentre i cittadini sotto i 65 anni valgono anche meno di uno! Per esempio i bambini tra i 5 e i 14 anni valgono 0,234.

SIGNOR GENNARO: Ma signor Mo, io non sono buono con i numeri!

SIGNOR MO: E’ semplice. Immagina due gruppi di dieci persone. Nel primo gruppo tutti hanno una caramella, tranne due persone che ne hanno sei anziché una. Quante caramelle ci sono?

SIGNOR GENNARO: Venti!

SIGNOR MO: Bravo, ora immagina che nel secondo gruppo ci sia solo una persona con sei caramelle, quante caramelle ci sono?

SIGNOR GENNARO: Quindici! Ho capito, non cambia il numero di persone ma il numero di caramelle… e più caramelle ci sono più lo Stato finanzierà il gruppo.

SIGNOR MO: Diciamo di sì, e pensa che con questo sistema in Piemonte, la Regione con più anziani, sono stati conteggiati circa 371mila cittadini in più di quelli reali!

SIGNOR GENNARO: Vabbuò, ho capito, noi al Sud paghiamo senza ricevere mai nulla in cambio… bisogna dire basta! Adesso lo dirò a tutti i miei amici

“Innovazione” fa rima con sperequazione.

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È di ieri 8 marzo l’introduzione del Pin unico per accedere a tutti i servizi della pubblica amministrazione.

Questa innovazione, di cui la ministra della semplificazione e della P.A. Marianna Madia va molto fiera, consiste nella realizzazione di un sistema unico di autenticazione per tutti i servizi pubblici e che, in futuro, dovrebbe diventare estendibile anche ai servizi privati tramite l’approvazione dell’ imminente decreto attuativo.
I benefici di questa nuova “identità digitale”, così battezzata proprio dai suoi promotori con l’acronimo Spid (sistema pubblico d’identità digitale), offre già 300 servizi online, numero destinato a raddoppiare con l’introduzione dei servizi Tim, Poste Italiane, e Infocert previsto per settimana prossima. 
E’ così che i cittadini cominceranno a dire addio alle code chilometriche e altri intoppi burocratici. Basterà inserire un nome utente, una password e voilà: un notevole risparmio di tempo ed energie a portata di click!

Un’altra innovazione, fuori vecchio e dentro il nuovo, ecco la tecnologia che dovrebbe rivoluzionare il paese e avvicinarlo agli standard tecnologici europei. E’ periodo di rottamazione, è una corsa verso il cambiamento, tranne un piccolo dettaglio, che non passa mai di moda: il Mezzogiorno è rimasto tagliato fuori.

Leggiamo sul sito dell’ Agenzia per l’Italia Digitale che “a partire da marzo 2016 i cittadini potranno accedere ai primi servizi online attraverso l’identità unica SPID”, poi una piccola icona blu, in basso, proprio a fine pagina, con una freccia. Lì sono segnalati gli organi coinvolti:

10 Pubbliche Amministrazioni

Amministrazioni centrali: Agenzia delle Entrate, INAIL, INPS

Regioni: Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche

Comuni: Firenze

Non occorre essere esperti di geografia per notare che in Italia c’è una linea immaginaria sotto la quale i cittadini sembrano essere immuni al progresso, ma non temete, a dirla tutta questo Spid non è nemmeno una grande novità. In realtà il primo passo verso la digitalizzazione dei servizi è stato fatto nel 1997, quando le leggi Bassanini hanno stabilito che, a decorrere dal 1 gennaio 2006 in alcuni comuni sarebbe arrivata la carta d’identità elettronica (CIE) che, insieme alla Carta nazionale dei servizi, è stata fino al 2015 l’unico strumento di autenticazione prevista dal Codice dell’Amministrazione Digitale. 
Fino ad oggi l’utilità della stessa CIE è rimasta dubbia, infatti molti Comuni non hanno ancora cominciato a rilasciarla, eppure questo non ha fermato il governo che, nonostante l’ inefficacia del servizio, ha preferito promuovere l’uso dello Spid a partire dai comuni che già erogano i servizi CIE. 
Che significa? Significa che nessun addetto ai lavori si è finora preoccupato di colmare l’evidente divario tra chi gode già di buoni servizi e chi, invece, si vede costretto a una perpetua arretratezza.

Il Mezzogiorno che rimane a bocca asciutta è ormai una vecchia storia ma noi non perdiamo il conto: la spesa prevista nel DL 78/2015 per questo Spid, o meglio per la nuova CIE, è di 67,5 milioni solo negli anni 2015-2016.

Il Mezzogiorno incassa un altro colpo senza fare “piagnistei”, per dirla alla Renzi, che pochi mesi fa parlava di salvare il sud attraendo “investimenti esteri”, esteri perché lo Stato non vuole di certo scommettere a Sud. Eppure, anche quando si tratta di fondi europei, il nostro Sud non può fare altro che accontentarsi delle briciole, come nel caso degli investimenti per la banda larga: solo il 4% sarà investito al Mezzogiorno, tenendo a mente che ben l’80% del FSE (fondo sociale europeo, grazie al quale è finanziato il progetto) è, solo teoricamente, destinato alle regioni meridionali.

Non solo non si investe a Sud, ma il governo “prende in prestito” dai fondi destinati al meridione per investire a nord, come spiegato recentemente da Paolo Panontin, assessore Regionale alle Autonomie Locali, parlando proprio di broadband: “il sud anticipa queste risorse al centro nord nell’immediato, per fare la banda ultra larga. Ma il Governo si impegna a restituirle più avanti nell’ambito del più ampio Fondo sviluppo e coesione”.

Intanto il Mezzogiorno e tutti i suoi cittadini attendono di sentire i piagnistei di chi li accuserà nuovamente di vivere nell’arretratezza. Noi invece rassicuriamo il Governo che anche al sud qualcosa cresce: la rabbia.

Di Beatrice Lizza

 

 

Salviamo la Deputazione di San Gennaro: “faccia gialla” non si tocca.

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Risale a pochi giorni fa, il decreto del ministero dell’Interno che modifica i criteri di nomina della Deputazione, l’Organo di Governo della Cappella del Tesoro di San Gennaro. L’allarme in rete è partito in brevissimo tempo, raggiungendo le testate nazionali: questa volta i napoletani dicono no, San Gennaro nun s’ha da tuccà.

Qualcuno scambierà l’indignazione dei partenopei per una semplice manifestazione folkloristica ma, in realtà, i tesoro di San Gennaro e la Deputazione hanno un significato molto più profondo.

La Deputazione è un organo laico, istituito nel 1601 e riconfermato da ben due bolle papali: una risalente al 1605 e l’ultima, “Neapolitanae Civitatis Gloria”, firmata nel 1927.  
Questa istituzione rappresenta un caso unico, che dice molto sulla storia della città: già in tempi così antichi, la devozione e il rispetto hanno permesso l’incredibile convivenza tra il culto del Santo, la laicità e la Chiesa.

Il compito della Deputazione è quello di amministrare la Cappella che custodisce il Tesoro, tutelarne e amministrarne i beni e, infine, nominarne i cappellani.  
La Deputazione è un organo collegiale ed è composto dagli storici “sedili”, appartenenti ai discendenti delle nobili famiglie partenopee, mentre un Collegio di dodici Prelati cappellani sovrintende ai riti ed a tutti gli aspetti religiosi connessi. 
Il presidente è, dal 1811, proprio il sindaco di Napoli, una carica che sta ad indicare una cosa ben precisa: San Gennaro e il suo Tesoro appartengono ai cittadini napoletani.

Non è una banale questione amministrativa, perché non molti sanno che proprio a San Gennaro appartiene il Tesoro più ricco del mondo, battendo anche quello gli zar di Russia e quello della regina d’Inghilterra.  E’ evidente che questa inestimabile ricchezza faccia gola a qualcuno, e soprattutto è scontato che indispettisca il clero, il quale non ha alcun potere decisionale sulle questioni amministrative della cappella. 
E’ così che il decreto di Alfano arriva prontamente in soccorso degli scontenti: grazie al suo decreto, la curia napoletana avrà la possibilità di nominare ben 4 membri da affiancare ai nobili napoletani, riducendo l’ Eccellentissima Deputazione a una semplice Fabbriceria, ciùoè un qualsiasi ente  preposto ad amministrare il patrimonio della Chiesa, minandone per sempre l’unicità.

In molti credono che, dietro a questa inadeguata iniziativa del Ministero, si nascondano pressioni esercitate dal Cardinale Crescenzio Sepe. Certo è che non è la prima volta che la curia prova a mettere le mani sul tesoro dei napoletani: durante la seconda guerra mondiale, il Tesoro fu trasferito in Vaticano per essere protetto da bombardamenti e depredazioni, ma terminata la guerra la Chiesa non volle restituirlo. Ci volle l’intervento di Giuseppe Navarra,  ‘o rre ‘e Puceriale, per riportare il Tesoro alla sua legittima proprietaria: la città di Napoli.

Questa volta è compito nostro fermare l’ennesimo sopruso alla città: ci vediamo tutti sabato 5 marzo alle ore 15.00 alla Cattedrale di San Gennaro!

Di Beatrice Lizza

Il signor NA spiega Napoli Autonoma al signor Gennaro

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Signor Gennaro: Hai sentito? Adesso quelli di MO si sono messi in testa che Napoli deve rinunciare ai sussidi statali!

Signor NA: Buono, no?

Signor Gennaro: Ma stiamo scherzando? E come facciamo senza soldi?

Signor NA: Genna’ guarda che non è proprio così.

Signor Gennaro: E com’è allora?

Signor NA: Il federalismo fiscale ha reso le cose complicate.

Signor Gennaro: Ma che cos’è questo federalismo  fiscale?

Signor NA: E’ il sistema per cui buona parte delle tasse pagate dai cittadini vengono direttamente gestite e impiegate sul territorio in cui vivono.

Signor Gennaro: Questo significa che le città più ricche restano ricche, ma quelle dove ci sono meno lavoro e salari più bassi, che fine fanno?

Signor NA: Per quelle città ci dovrebbe essere il fondo di perequazione. Sulla carta c’è. In realtà non esiste.

Signor Gennaro: Il fondo di che?!

Signor NA: Perequazione. Cioè rendere uguali non sui redditi, quelli restano diversi e i ricchi rimangono più ricchi, ma almeno sui servizi: asili, illuminazione, sicurezza, verde pubblico, raccolta dei rifiuti, manutenzione delle strade, autobus e metropolitane…

Signor Gennaro: E chi lo paga ‘sto fondo di Perepeppè?

Signor NA: C’è, anzi, dovrebbe esserci una cassa statale, pagata con le tasse di tutti, i cui soldi vanno ai comuni meno ricchi, in modo che gli italiani siano uguali nei servizi sociali, che vivano a Monza o a Cosenza, a Milano e a Napoli.

Signor Gennaro: Però questo fondo non c’è…giusto?

Signor NA: Giusto! Quando, nel 2011, è entrato in vigore il federalismo fiscale, il governo ha stabilito che sarebbe servito del tempo per calcolare il fondo di perequazione per ogni comune, quindi ha istituito il Fondo sperimentale di riequilibrio, come sostituto provvisorio del Fondo di Perequazione, previsto per il 2013. Con la legge Salva Italia, però, nel 2012 il governo Monti ha tagliato di due miliardi il fondo sperimentale, e preventivamente anche quello di perequazione.

Signor Gennaro: Taglio preventivo? Ma tagliare il fondo di perepeppè vuol dire tagliare l’asilo e l’autobus dove ce n’è più bisogno?

Signor NA: Proprio così. E il governo lo sapeva bene. Infatti nel 2013 il fondo sperimentale non prende il nome di Fondo di Perequazione, come previsto dalla Costituzione, ma viene battezzato “fondo di Solidarietà Comunale” ed è effettivamente molto diverso dal primo, poiché non è alimentato dallo Stato ma da una quota pari al 38% dell’ Imu dei singoli Comuni.

Signor Gennaro: Mamma mia. Però non ho capito: visto che ci hanno tagliato parte dei fondi che ci spettano di diritto, la risposta sarebbe rifiutare anche quelli che ci hanno lasciato?

Signor NA: Può sembrarti strano, ma per capire bene la proposta Napoli Autonoma occorre sapere ancora qualcosa: nel 2010, prima del federalismo fiscale, Napoli ha ricevuto 646 milioni, ma nel 2015 ne ha ricevuti solo 259. Un bel taglio del 60%. Sai che significa? Che ormai i cittadini napoletani pagano una quantità di tasse superiore a quelle che vengono effettivamente impiegate sul territorio!

Signor Gennaro: Ma è ancora una città assistita! Come facciamo senza quei 259 milioni di euro?

Signor NA: In realtà 259 milioni si potrebbero recuperare attribuendo due imposte direttamente al comune: quella sui trasferimenti immobili, che nella città di Napoli ha un valore stimato di 150 milioni, e la compartecipazione Irpef dei cittadini napoletani, che coprirebbe i restanti 109.

Signor Gennaro: Ho capito l’imbroglio: due tasse in più!

Signor NA: Nessuna tassa in più per i napoletani. Sono tasse che già paghiamo e che invece di andare a Roma, dove ogni anno prendono direzioni diverse, restano nella nostra città. La cifra sarebbe la stessa.

Signor Gennaro: Scusa ma a me le cose piace capirle: se la cifra è la stessa, cosa cambia?

Signor NA: Avere soldi tuoi e non dipendere dagli altri è una gigantesca differenza. Sia per il Comune sia per i cittadini, che saprebbero dove e come vengono impiegati i loro contributi. E poi vuoi mettere lo sfizio di dire ai leghisti: Napoli fa da sé, tiè!

Signor Gennaro: Questa mi piace. Ma significherebbe non versare più tutti quei milioni nelle casse dello stato, il governo come fa a dire di sì?

Signor NA: Semplice! Recupererebbe i 259 milioni dal fondo di solidarietà comunale a cui Napoli rinuncerebbe. Se invece il governo rinuncia, quei soldi in più verrebbero divisi tra i Comuni più piccoli del Sud che ne hanno bisogno e questa forse sarebbe la scelta più giusta.

Signor Gennaro: Anche secondo me. E come si chiama questo progetto di MO?

Signor NA: Semplicemente NA.

Signor Gennaro: Ma?!

Signor NA: NA, come la targa di Napoli e sta per Napoli Autonoma.

Signor Gennaro: E come si fa a rendere Napoli una città autonoma?

Signor NA: Attraverso una proposta di legge ad iniziativa popolare, che prevede la raccolta di 50.000 firme, ma è già legittimata dall’articolo 119 della Costituzione .

Signor Gennaro: Fammi firmare, voglio essere il primo!

Napoli Autonoma: la città torni a camminare sulle proprie gambe

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“La città di Napoli, come tutte le grandi città che cessano di essere centri di un governo di un grande Stato, la città di Napoli ha fatto all’Italia un immenso sacrificio; l’Italia ha in questo modo contratto un grande debito verso la città di Napoli e l’Italia dovrà soddisfarlo”

(Ubaldo Peruzzi, fiorentino, primo ministro dei Lavori pubblici, discorso in Parlamento del 1861 – tratto da G. Galletti, P. Trompeo, Atti del Parlamento italiano: sessione del 1861, VIII legislatura, p. 163, Tipografia Eredi Botta, Torino 1862)

Ubaldo Peruzzi, fiorentino, pensava che l’Italia avesse un debito con Napoli, mentre ancora troppi napoletani continuano a credere il contrario. L’ironia della sorte non finisce qui perché, proprio nel 150esimo anno di unità, è proseguita l’attuazione del (non abbastanza) famoso federalismo fiscale: il sistema per cui molti dei contributi versati dai cittadini vengono trattenuti e impiegati sul territorio in cui vivono, o almeno così dovrebbe funzionare.

Ovviamente, nei comuni in cui c’è più ricchezza, più posti di lavoro e stipendi più alti, ci saranno anche più fondi pubblici da impiegare nei servizi, mentre nei comuni in cui c’è meno ricchezza, i servizi che spettano di diritto ai cittadini rischieranno di non essere garantiti. Questo pericoloso divario dovrebbe essere appianato dal cosiddetto fondo di perequazione, che prevede una cassa statale atta a ridistribuire una parte dei contributi, in modo da garantire le prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche ai comuni con minore capacità fiscale.

Fino a qui, nulla di male. In realtà questo metodo può funzionare bene in un paese mediamente ricco, ma in Italia ha bisogno di molta più attenzione:

Questo “fondo di perequazione” non è stato istituito, come non sono stati calcolati i Lep (livelli essenziali della prestazioni), sostituiti da calcoli basati sui servizi erogati nel 2010. Significa che il livello standard dei fondi necessari ai comuni è stato fissato sulle prestazioni del 2010, anche dove i comuni non erano stati in grado di erogare servizi sufficienti, o addirittura pari a zero. I risultati offendono logica e buonsenso, ridicolizzano il concetto di “unità nazionale” e violano la legge, che chiede di superare la spesa storica in favore dello sviluppo territoriale.

In attesa del fondo di perequazione, previsto per i Comuni nel 2013, è stato istituito il fondo sperimentale di riequilibrio, prontamente tagliato di due miliardi dalla montiana legge Salva Italia di fine 2011, dove anche il fondo di perequazione ha subito un taglio preventivo, della stessa cifra, ma in modo totalmente anticostituzionale: il suo importo non può essere determinato a priori, poiché deriva in modo matematico dalle scelte effettuate sui livelli essenziali delle prestazioni, dal calcolo dei fabbisogni standard e delle capacità fiscali.

Se il principio di perequazione è determinato dalle necessità del Comune, tagliarlo significa negare i diritti fondamentali dei cittadini che in tutto il Paese pagano tasse secondo le proprie possibilità, salvo poi non godere dei servizi con la stessa uniformità.

Nel 2013 il vecchio fondo sperimentale di riequilibrio non si trasforma in fondo di perequazione, bensì in fondo di solidarietà comunale (non alimentato dallo Stato ma da una quota pari al 38% dell’ Imu dei singoli Comuni).
Nessuna perequazione dallo Stato per i Comuni, ma una “perequazione” dai Comuni per lo Stato, che nel 2015 ha prelevato 1,2 miliardi dal fondo di solidarietà comunale.

Le complesse dinamiche giuridiche ed economiche occultano ancora le vere ragioni dell’arretratezza in cui versa la città di Napoli, ma è arrivato il momento di sfatare qualche mito senza permetterci opinioni: lasciamo parlare la matematica.

I sussidi riservati a Napoli negli ultimi 5 anni sono andati così:

2010 Trasferimenti erariali 646.437.167
2011 Fondo sperimentale riequilibrio 514.143.937
2012 Fondo sperimentale riequilibrio 426.012.328
2013 Fondo solidarietà comunale avere 382.166.815
2013 Fondo solidarietà comunale dare -67.639.651
2014 Fondo solidarietà comunale avere 375.032.449
2014 Fondo solidarietà comunale dare -65.012.266
2015 Fondo solidarietà comunale avere 323.931.978
2015 Fondo solidarietà comunale dare -65.032.315

In pratica si è passati dai 646 milioni del 2010, situazione ante federalismo fiscale, ai 259 del 2015. Un taglio del 60%, pari a 387 milioni.

Oggi Napoli riceve un sussidio di 259 milioni di euro, soldi che la rendono ancora una città assistita. Tuttavia le tasse pagate dai cittadini napoletani sono superiori alle somme che restano in città, per poi essere destinate ai servizi pubblici, che sono inferiori alla media procapite nazionale per pensioni, sanità, trasporti e investimenti. 

La proposta per una Napoli Autonoma, legittimata dall’articolo 119 della Costituzione, prevede come primo passo il raggiungimento di un’autonomia fiscale.

I 259 milioni del sussidio possono essere sostituiti grazie all’attribuzione diretta al Comune, di due imposte: quella sui trasferimenti di immobili (il cui valore nella città di Napoli è stimato in 150 milioni) e la compartecipazione Irpef, che cedendo una quota del gettito pari a 1,2 punti al Comune, coprirebbe i restanti 109 milioni.

 

A partire dal 2016 Napoli Autonoma rinuncerebbe al Fondo di solidarietà comunale, apportando numerosi benefici:

  • Maggior controllo sui 259 milioni che, quando forniti dal Fondo di solidarietà comunale, non garantiscono né l’importo, né il tempo di erogazione.
  • Nessun aggravio fiscale per i cittadini, ma più consapevolezza sulla destinazione dei contributi versati, dato che una quota maggiore resta nella città.
  • Collegamento diretto tra il miglioramento delle condizioni economiche generali e gettito tributario.
  • Le responsabilità degli amministratori diventano evidenti agli occhi dei loro elettori.
  • Napoli Autonoma non potrà più essere accusata di assistenzialismo.

Nella proposta è previsto, inoltre, che il Consiglio comunale modifichi il proprio nome in Assemblea Partenopea, per sottolineare il cambiamento rivoluzionario nelle politiche amministrative.

Tra gli effetti positivi che il progetto si propone di realizzare c’è quello di obbligare l’amministratore ad adottare politiche di riqualificazione sociale e urbanistica al fine di aumentare il valore delle proprietà private all’interno dell’area comunale e garantire così un maggiore gettito.

L’Assemblea partenopea potrà controllare, grazie a un accordo con il Ministero per i beni e le attività culturali, il processo di valorizzazione dei beni storici, ambientali e artistici, cercando di rendere così meno farraginosa l’attuale macchina burocratica che troppo spesso impedisce a cittadini ed associazioni di poter godere dell’immenso patrimonio artistico e culturale di cui disponiamo.

Sempre nell’ambito delle autonomie proposte, vi è quello legato alla gestione dei fondi comunitari. L’Assemblea Partenopea potrà decidere in autonomia come gestire i fondi nell’interesse comune, anche al fine di concentrare gli investimenti sui settori che riterrà strategici per il rilancio della città.

 

Napoli si è ammalata quando è stata privata del proprio prestigio, in favore di politiche di sfruttamento. Quanto ancora può lasciarsi spogliare delle sue ricchezze?

Neapolis, città antica di millenni ma nuova ogni giorno, può tornare a crescere. Riappropriarsi del diritto di camminare con le proprie gambe, è una necessità che non può più essere rimandata o delegata.

Ci rendiamo conto che non è mai facile assumersi la responsabilità di credere nei cambiamenti, ma l’alternativa è aspettare ancora che lo Stato si ricordi di occuparsi della città che più ha spogliato e depredato.

La battaglia per proteggere Napoli e i suoi cittadini può essere vinta solo da chi ha a cuore il suo progresso, è arrivato il momento di smettere di credere alla storia del Paradiso abitato da diavoli: l’alternativa c’è.

Mito Xylella: tra realtà e invenzione

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di Beatrice Lizza

Gli undici milioni di olivi millenari che popolano il Salento non sono più un simbolo di pace: l’iniziativa di piantare centinaia di olivi in risposta alle condanne a morte sentenziate dall’UE, suona come una vera e propria dichiarazione di guerra.
Ma cos’è questa Xylella Fastidiosa? Quanto è realmente dannosa e quanto si sa a proposito?
L’olivo è una pianta che ha bisogno di cure e precise conoscenze tecniche per ottenere le sue pregiate olive, vanto del Made in Italy. Sono almeno vent’anni, però, che i proprietari degli oliveti non sono più agricoltori e la mano d’opera specializzata offre, giustamente, servizi a prezzi crescenti: si parla di centinaia di euro per la potatura di alcune decine di alberi. E se le olive sono puramente made in Italy, lo è anche l’interesse pressoché nullo dello Stato, il quale non ne tutela né la produzione, né la preziosa biodiversità, né la qualità. E’ comprensibile che un buon numero di proprietari favorisca l’utilizzo di agenti chimici come diserbanti e pesticidi, nettamente più economici dei lavoratori in grado di applicare tecniche agronomiche tradizionali e naturali. Il batterio assassino pare essere in grado di uccidere, da solo, centinaia di alberi, ma è davvero così?
In realtà il problema diagnosticato alle piante cosiddette “infette”, è stato segnalato per la prima volta nel 2010 e si chiama CoDiro (complesso di disseccamento rapido dell’Olivo).
In quanto “complesso”, appunto, non dipende direttamente dalla Xylella, ma presenta diverse concause: il lepidottero “Rodilegno giallo” e alcune specie funghi patogeni. E’ giusto precisare che la Xylella, come tutti gli altri batteri, non sia in grado di intaccare la salubrità della pianta a meno che questa non sia già debilitata.
Un’altra lacuna nell’informazione nazionale è quella di omettere che, sebbene sia stato riconosciuto il batterio, non ci sono dimostrazioni scientifiche della sua patogenicità, ovvero l’effettiva capacità del microrganismo di creare un danno. Eppure le altre ipotesi scientifiche, seppur avanzate da ricercatori affermati, non hanno riscontrato lo stesso successo mediatico.
La denuncia del professore Giuseppe Altieri (professore di fitopatologia, entomologia, agricoltura biologica e agroecologia) è rimasta pressoché ignorata, eppure questa volta gli imputati sono l’abbandono colturale, causato dalla mancanza di trattamenti biologici e potature autunnali, oltre ai disseccanti (utilizzati principalmente lungo le linee ferroviarie) che intaccano l’equilibrio microbico dei terreni, indebolendo le piante e i loro sistemi immunitari.

Inascoltate anche le proteste di agricoltori e studiosi che, documenti del ministero alla mano, hanno ricordato agli onorevoli boia del verde, che appena il 2% delle 26.755 piante campionate per la relazione Mipaaf del 6 Luglio 2015 (tra cui anche mandorli, oleandri e viti) è risultato positivo alla presenza di Xylella.

Nonostante tutte le perplessità sull’entità del batterio, dal 2014 le eradicazioni procedono senza pietà “per evitare la contaminazione e la diffusione”, anche se numerose testimonianze ci parlano di alberi tagliati a pezzi, ma che vengono lasciati sul posto per settimane!
Il famigerato microrganismo non può spostarsi da solo, ma ha bisogno di un insetto vettore per propagarsi, la cosiddetta Sputacchina. Vettore estremamente diffuso in tutto il territorio, prontamente individuato ma non (ancora una volta) scientificamente provato!
La risposta delle autorità competenti, alla luce di questa nuova scoperta è stata quella di ordinare l’utilizzo di fiumi di fitofarmaci, della stessa famiglia di quelli denunciati come i responsabili del disseccamento.

Questo è il batterio Xylella: un microrganismo di patogenicità dubbia, timidamente affermato come concausa di un disastro annunciato.
La frettolosa condanna a morte di piante plurisecolari è inaccettabile, mentre sotto le loro fronde si moltiplicano vistosamente le zone d’ombra.

La domanda è sempre la stessa: cui prodest?

Suez: le opportunità che navigano il Mediterraneo, ma non sbarcano al Mezzogiorno

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di Beatrice Lizza

Lo scorso 6 Agosto è stato inaugurato il nuovo canale di Suez: il canale che collega il Mar Rosso e il Mediterraneo è stato “raddoppiato”, nel senso che è stato ampliato e approfondito, oltre alla costruzione ex novo di un canale parallelo a quello preesistente, lungo 35 km.

Il progetto, realizzato in tempi da record sotto il governo di Abdel Fattah al Sisi, risulta estremamente promettente: ogni giorno il canale può essere attraversato da un numero doppio di navi, il tempo di transito è minore e non esistono più limiti per la grandezza degli scafi.

I lavori effettuati sono stati in grado di incrementare la convenienza di passaggio attraverso Suez, soprattutto per le rotte asiatiche dirette verso la costa occidentale degli Stati Uniti, precedentemente vincolate al passaggio dell’intero Pacifico e poi attraverso Panama. Il raddoppio del canale di Suez, quindi, non rappresenta semplicemente un’opportunità per l’economia egiziana, ma è una vera e propria svolta per tutto il Mediterraneo, che torna ad essere il centro delle rotte commerciali intercontinentali.

Nel terzo millennio, dove il costo dei trasporti è proporzionale al tempo impiegato, è necessario che ad ogni porto commerciale sia collegato un sistema di strutture che permettano di caricare e scaricare la maggior quantità di container possibile, sul medesimo mezzo di trasporto: ciò che rende più appetibile un porto rispetto ad un altro, quindi, non è semplicemente la fortunata condizione di vicinanza alle rotte principali, ma un ruolo fondamentale è giocato dalle attrezzature di cui dispone il territorio e dalle reti ferroviarie che permettano alle merci di essere trasportate con il minor dispendio di tempo ed energie.
Ad accaparrarsi il titolo di primo porto del Mediterraneo per traffico container è stata Algeciras, una città dell’Andalusia di appena 170.000 abitanti. La forza di questa nuova potenza portuale non è la semplice vicinanza con Gibilterra: grazie al giusto investimento dei fondi Europei, la Spagna è riuscita a trasformare una città più piccola di Salerno nel punto di partenza del cosiddetto Corridoio del Mediterraneo, ovvero una linea di grande comunicazione che arriva a Lione per poi proseguire per il centro Europa.
Mentre la domanda del traffico merci che da Algeciras va verso il cuore dell’Europa è destinato a crescere del 100% nel 2016, come si sta preparando l’Italia a cogliere le opportunità offerte dal nuovo canale?

Nel «Piano strategico nazionale della portualità e della logistica», approvato dal governo un mese fa, si specifica la necessità di creare le condizioni per il transito di treni porta container da 750 metri in su per i porti di Gioia Tauro, Taranto (se le condizioni di mercato lo consentiranno) e Napoli-Salerno. Spicca tra questi il vantaggio geografico di Gioia Tauro: rispetto ai porti del Nord Adriatico, per esempio, si risparmierebbero oltre due giorni di navigazione, mentre rispetto a Algeciras ci sarebbe un vantaggio di mille chilometri per il cuore della Germania. Al momento però, i porti di Gioia Tauro e Taranto sono adibiti esclusivamente al trasbordo su altre navi, poichè non dispongono dei collegamenti via terra adeguati alle nuove esigenze commerciali, dei quali ancora non si è parlato nei documenti ufficiali.

suez raddoppio

Le opportunità di sviluppo per il meridione sembrano non interessare il governo italiano, il quale non ha annunciato alcun investimento a sud di Livorno nemmeno al Cef, Connecting Europe Facility, lasciando ancora una volta il Mezzogiorno fuori dal «Meccanismo per collegare l’Europa», le cui opere andrebbero realizzate entro il 2020.
Per fortuna, però, non tutto il Belpaese è rimasto fuori dai corridoi europei del traffico merci su ferro, anzi ce ne sono ben quattro: il primo coinvolge Genova, il secondo coinvolge i porti del Nord Adriatico, il terzo comprende il tratto Torino-Trieste e gode di uno straordinario sviluppo: le prenotazioni per il 2016 vedono una crescita dei traffici del 100% rispetto al 2015.

L’ultimo dei corridoi è diretto a Sud, è in fase di studio e non è stato ancora attivato.

Una cosa è certa, mentre per il tratto Torino-Trieste si lavora per permettere la circolazione di treni di almeno 750 metri, a Napoli nessun treno merce supera i 400 metri. E dopo Napoli? Il buio a Mezzogiorno.

Beatrice, 19 anni, di Milano, ci spiega perché lotta per il Sud

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di Beatrice Lizza

E mo’, come ve lo spiego?

Come vi spiego perché una ragazza di diciannove anni, nata e cresciuta a Milano, diventa meridionalista? Essere figli di partenopei spesso non basta, ma io, in più, sono stata fortunata ad avere una famiglia che mi lasciasse scoprire il meglio e il peggio dei due mondi.

Sin da quando ero piccola il ritorno a Milano dai viaggi a Napoli ha sempre avuto il potere di stordirmi: sapete quando ti chiedi dov’è quella luce che sembra inseguirti attraverso le persiane, anche nella stanza più buia della casa? Dove sono gli amici che si presentano alla porta senza preavviso? Dov’è il panettiere, il fruttivendolo, il bicchiere d’acqua quando ordini il caffè? Dove sono il mare, le chiese nascoste tra i vicoli, il profumo della frutta che inonda tutta la cucina? Lo smarrimento del ritorno mi ha sempre fatto pensare di essere figlia di un’altra terra, anche se ne abitavo ormai lontano. La verità, però, è che nulla di tutto questo è il motivo essenziale della mia scelta: non voglio parlare né di mare, né di arte, né di calore umano, né di gastronomia. O forse sì, ma non basterebbe.

Quello che ti fa sentire meridionale sono le sfumature che solo chi conosce il Sud riesce a cogliere: sono le leggi non scritte che regolano la vita di ogni giorno, quello che ai forestieri sembra caos, e invece per noi ha un ordine ben preciso.

Sono molto grata a Milano per avermi reso – almeno in parte – la persona che sono, tuttavia, alla mia vita al Nord, è sempre mancata la musica in macchina, il culto ossessivo dell’umorismo e dell’ospitalità, la fantasia, i film di Troisi, le piante che esplodono di vita tra antichi mattoni di tufo giallo.

Nei miei giorni milanesi ci sono troppi semafori, troppa serietà, vita confinata tra aiuole intoccabili e agende. Sì, il Sud fa venire il mal di pancia, fa sentire impotenti, eppure, anche quando i palazzi fatiscenti sembrano volerti crollare addosso, non puoi fare a meno di sentire che quell’angolo di mondo è ancora tuo. Il Sud è paradosso, è sole, è unione di culture, è splendore e decadenza. Il Sud è vita. Sto esagerando? Non importa, questa è bellezza! E a me la bellezza fa venire la gioia di vivere.

Abbracciare la causa del meridionalismo non è stata una conseguenza del “richiamo del sangue”. Imparare a difendere il Sud è stata una scelta fatta con la testa, non con il DNA, e non importa se sono milanese per qualcuno e napoletana per qualcun’altro: io sento che quell’angolo maltrattato del Mondo è anche casa mia. Vorrei studiare a Napoli, laurearmi, trovare una casa lì, vivere quella quotidianità che tanto mi è mancata.

Perché tornare a quella che sento casa mia deve essere tanto pericoloso per il mio futuro? Perché le opportunità devono volare tutte a Nord? Cos’è che non funziona? Perché i giovani continuano a fare le valigie mentre resta il degrado indotto da una classe dirigente incurante, ignorante e parassitaria?

La politica ha prima depredato e poi dimenticato la terra nostra: i sedicenti politici italiani vogliono farci credere che non ci siano alternative alle loro bugie, vogliono allontanarci dalla democrazia insegnandoci che “tanto non cambierà mai”. Eppure, la buona scuola (quella vera) mi ha insegnato che occuparsi di politica significa occuparsi della vita di tutti e non di onorevoli particolarismi. Per questo, mi rifiuto di perdere fiducia nella politica. Ho diciannove anni e sono troppo giovane per farmi rubare anche la speranza: dico sì al meridionalismo perché il Sud ha bisogno di riconquistare un suo spazio nella politica e cominciare ad alzare la voce.

Seminario sul Sud: niente piagnistei, ma niente proposte concrete

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di Beatrice Lizza

Il seminario sul Sud è apparso last minute nell’agenda della Festa nazionale dell’Unità, in programma a Milano a cavallo tra agosto e settembre. Sabato mattina, ai giardini di Porta Venezia, abbiamo assistito a interventi incerti, un po’ vaghi, talvolta contraddittori, che hanno riempito un seminario di oltre tre ore, in pieno stile PD. A quanto pare, a risvegliare la coscienza del partito di maggioranza, e non solo, è stato l’ultimo rapporto Svimez: parlamentari europei, senatori, presidenti di regione, Confindustria e Invitalia, tutti pronti, finalmente, ad affrontare la spinosa questione meridionale.
La prima pietra, però, è stata scagliata dal professor Pirro proprio contro la Svimez, a cui non è stato perdonato di aver stillato la goccia che ha fatto traboccare il vaso della noncuranza in cui sta annegando il meridione. Il tutto mentre il PD sembra ancora una volta trovarsi al potere nel momento sbagliato: dopo tanti anni di opposizione, qualcuno poteva lecitamente pensare che i democrat avessero avuto il tempo di preparare qualche buona idea per la ripresa del Mezzogiorno, invece, l’unica idea resta ancora l’evanescente masterplan invocato da Renzi per il salvataggio del sud.

La carne a cuocere era tanta: nonostante l’atteggiamento da salotto culturale, sono stati toccati temi come il problema dei trasporti, della disoccupazione giovanile e dei fondi europei. I vari addetti ai lavori che si sono alternati sul palco sembravano sinceramente sconvolti da quanto rivelato dai recenti studi sul gap nord-sud; sconvolti si, ma senza stare li a soffrire, a cercare il pelo nell’uovo o il responsabile di questa situazione drammatica. Il mantra è sempre il solito: nessun mea culpa, “nessun piagnisteo”, ma anche nessuna proposta concreta! Tuttavia, una cosa positiva c’è stata: era da tempo immemore che Milano non sentiva parlare di meridione non solo come il figlio storpio della Repubblica, nato povero e degradato per un brutto scherzo del fato. Siamo sicuri, invece, che uno sguardo paternalisticamente preoccupato si poserà sulle regioni del sud anche da parte dei settentrionali. Per incentivare la cosa qualcuno ha ricordato addirittura che al Centro-Nord conviene incentivare lo sviluppo del Sud, poichè il 50% degli investimenti nel Mezzogiorno ritorna agli investitori centro-settentrionali, una frase che se da una parte strizza l’occhio alla retorica del virtuoso nord, ammette distrattamente la politica di colonialismo che affligge il meridione, che può attrarre investimenti solo se s’ingrazia la parte ricca del paese.

Non è mancato, infine, l’elogio alle eccellenze dell’economia meridionale, “non semplici fiori nel deserto” ma, a quanto pare, vere potenze capaci di ergersi al vertice di una produzione viva e piena di potenzialità.

Alla fine, sono state tre ore di banalità per chi già conosce la vita del sud, ma qualche spettatore che non ha mai attraversato i confini del Po magri ne sarà rimasto sorpreso: forse, non è proprio tutta colpa dei meridionali! Un seminario è poco più di una chiacchierata ma questi seppur flebili segnali che la politica sta cominciando a comprendere che non si può più raccontare agli italiani la favola del Sud brutto e cattivo, anche perchè il Nord ha bisogno più che mai di conoscere la verità al di là della retorica. Purtroppo, sembra averlo capito anche Salvini, che ha recentemente spostato il confine immaginario del suo elettorato dalle sponde del Po a quelle del Mediterraneo. Ma in questi casi di speculazione politica, bisognerebbe chiedersi: chi ha davvero bisogno di chi?