Tag Archives: antonio lombardi

Cinque anni dopo – Una riflessione di Antonio Lombardi

Share Button


L’8 settembre del 2012, cinque anni or sono, ci riunimmo a Bari, nella sala del Consiglio Comunale, ospiti del Sindaco Emiliano, per dare inizio ad un processo di costruzione di un soggetto unitario che potesse –con voce forte e chiara- proporre le istanze politiche di quello che, dopo essere stato spogliato anche del proprio nome, veniva e viene detto “Mezzogiorno”.

L’iniziativa nasceva da quanto accaduto un paio di mesi prima: il 14 luglio, a Monte Sant’Angelo (FG), Marco Esposito aveva consegnato un appello (“Schietti, orgogliosi, allegri, mediterranei”) a Pino Aprile, registrante numerosi sottoscrittori, con il quale gli si proponeva la guida di un ampio movimento unitario meridionalista. Quell’8 Settembre ci si era riuniti, appunto, per ascoltarne, dopo il tempo di riflessione, la risposta. Come è noto, Pino manifestò il suo proposito di non assumere tale ruolo, ma di continuare a tempo pieno il lavoro che –così fruttuosamente- era impegnato a portare avanti: scrivere della nostra terra e per la nostra terra.

A quell’appuntamento arrivammo in tanti e, soprattutto, provenienti da esperienze diverse: c’erano veterani del meridionalismo e neofiti (se non nel sentimento magari nella pratica, come il sottoscritto).

Anche se non ebbe un riscontro immediato nei termini desiderati, comunque quell’incontro di Bari sottolineò e sollecitò l’esigenza di un meridionalismo più inclusivo e meglio organizzato che, per quanto riguarda MO – Unione Mediterranea, avrebbe portato a distanza di due mesi alla sua fondazione in assemblea a Napoli (24 novembre).

Cinque anni dopo, che cosa ci racconta, oggi, quell’esperienza? Ecco un modesto spunto. Bari non risultò l’occasione per riunire tutte le anime del meridionalismo contemporaneo. Alcune formazioni già esistenti continuarono il loro percorso, altre nuove ne nacquero. La frammentazione è uno degli elementi caratteristici del mondo meridionalista ed è vista come uno dei suoi principali limiti se non, addirittura, l’ostacolo maggiore ad un successo più consistente della causa. C’è del vero in tali affermazioni, che spesso si ascoltano frequentando i nostri ambienti e, sovente, ci si interroga su questa tendenza alla moltiplicazione come effetto della divisione. Tuttavia quelle valutazioni non vanno assolutizzate.

Bisogna anzitutto farsi una ragione del fatto che il meridionalismo non è un pensiero unico e non può esserlo. Questo, tuttavia, non è detto che sia solo un limite, perché lo pone in grado di raggiungere ambienti e persone con sensibilità differenti: può dunque essere anche un’opportunità. Di fatto, però, diventa tale solo se la diversità non è vissuta in termini di rivalità. La logica del “gioco a somma zero” (io vinco se tu perdi, ho bisogno della tua sconfitta per affermarmi: logica escludente) forse è ancora troppo la chiave utilizzata per proporsi sulla scena politica e talora anche culturale. Occorre comprendere che la logica che deve informare le relazioni tra le varie componenti, tra i vari soggetti del meridionalismo politico e culturale, è quella del “gioco a somma positiva” (io vinco se tu vinci, la tua vittoria è condizione per la mia vittoria: logica inclusiva).

Che cosa significa assumere questa prospettiva costruttiva? Tante cose.

Per esempio, riconoscere la piena legittimità di percorsi diversi e la loro utilità in vista di una causa che è, comunque, comune se non nei dettagli almeno in alcuni grandi obiettivi di fondo. Ma non è solo una questione di riconoscimento e legittimazione. La partita è del tutto più ampia, perché la logica inclusiva esprime la consapevolezza che se io non ti ostacolo, se non entro in competizione con te, ma sostengo il tuo impegno e ricevo il tuo sostegno in spirito cooperativo, ciò aiuta a dissodare un terreno che per tutti è difficile, duro, faticoso da rendere accogliente, un terreno nel quale, poi, ciascuno, anche con finalità e mezzi diversi, potrà gettare semi che saranno comunque della stessa natura e le cui pianticelle un giorno potranno rinforzarsi a vicenda.

Cooperare, non competere.

Questo non significa annullare le diversità, ma rispettarle, valorizzarle e tenerle insieme in modo che non collidano distruttivamente ma, per quanto possibile, si contaminino costruttivamente. È difficile? Sì, è difficile. Ma non è impossibile. L’unità del mondo meridionalista oggi non si gioca tanto sulla fusione delle aggregazioni, ma sull’intelligenza di liberarsi dall’ansia del successo particolare, facendo del successo complessivo del nostro popolo e della nostra terra il vero motore che spinge a sacrificare talvolta qualcosa di sé e a guardare con apprezzamento gli uni alle iniziative degli altri. Senza che nessuna aggregazione e nessun soggetto all’interno di ciascuna di esse possa tranquillamente sentirsi come un atleta, pronto al “via!”, in una corsa che deve incoronare il campione.

Cinque anni dopo, mi sembra che quel pomeriggio di Bari possa insegnarci questo.

Nella foto: un momento di quell’8 settembre 2012.

Antonio Lombardi

Lettera ai Napoletani

Share Button

Cari Napoletani,
no non mi rivolgo a voi che, magari con ammirevole fatica, siete riusciti a liberarvi dalle catene mentali -ideologiche e psicologiche- e adesso ai vostri occhi tutto appare diverso, mi rivolgo a quell’altra fetta della città: quella che, come le tre scimmiette, non vuole vedere, non vuole sentire e non vuole parlare diversamente.
Oggi è la vostra festa: 7 settembre. L’anniversario del giorno in cui il vostro amico Peppe Garibaldi, con le spalle protette dalla camorra, entrò in città e andò ad affacciarsi da quel balcone, ancora esistente, di Palazzo Doria d’Angri. Al largo dello Spirito Santo che, poi, fu ribattezzato piazza VII Settembre.
Auguri! Buon anniversario!
Avevate ragione a tenere duro e a credere ancora, dopo ben 157 anni, che non fu invaso uno stato indipendente di cui Napoli era la capitale, ma si trattò di una liberazione. I buoni vennero a cacciare via i cattivi, vennero ad aiutarci. Perciò sono fratelli e sorelle d’Italia.
E ancora oggi sanno dimostrare che ci amano e ci rispettano. Infatti, non sono razzisti con noi, non ci insultano, non ci discriminano nell’erogazione dei fondi pubblici, non permettono che abbiamo ferrovie diverse dalle loro, né ospedali meno attrezzati, né zero asili nido. Valorizzano i nostri beni culturali, non vengono ad inquinare e a trivellare la nostra terra e i nostri mari, non invocano disgrazie naturali (che so… un’eruzione del Vesuvio, tanto per dirne una). Del resto, quando ci capita qualche brutta avventura, magari un terremoto, un terremoticchio va’, la prima cosa che fanno è raccogliere fondi, esprimere solidarietà, invitare a non affossare la già compromessa (da loro) economia, e non si permettono certo di pensare subito che la colpa possa essere nostra.
Già perché, invece, la colpa è sempre la nostra. Questo, voi dell’altra fetta della città, lo sapete bene, lo sapete così bene che il senso di colpa, iniettato nelle vostre vene come un vaccino contro la libertà, vi tiene ben lontani dal virus di un pensiero mediterraneo e indipendente. La dipendenza da Peppe è un dogma intoccabile.
Vi ho scritto questo biglietto, per ricordarvi di organizzare la vostra festa. Sono sicuro che oggi, 7 settembre, ci metterete la faccia e vi recherete sotto a quel balcone ad applaudire e lanciare baci verso colui che non c’è più ma che, in compagnia di tutta la sua banda -Vittorio, Camillo, Enrico, Nino, l’altro Giuseppe, eccetera- è ancor vivo nelle vostre coscienze vaccinate.
Auguri, allora, buona festa! Se mi troverò a passare per largo dello Spirito Santo, oh scusate, per piazza VII Settembre volevo dire, sono sicuro di trovarvi a ringraziare per le condizioni di vita che ci ha regalato l’avventuriero barbuto. Sì, lui, che con quella faccia da straniero ha navigato il mondo intero distribuendo libertà.
Voi non siete mica come quegli ambigui meridionalisti sui quali non si sa cosa pensare: gente che pareva seria e che invece si è messa in testa di essere nata in una colonia. Quelli, addirittura, vanno dicendo che la pace è frutto della giustizia e che nascondere le discriminazioni che passano sotto al naso equivale ad esserne complici. Che gente!
Un caro saluto
Antonio Lombardi

Delitto di cronaca

Share Button

A guardare i telegiornali, quella di oggi a Napoli è stata una manifestazione violenta e, per questo, degna di essere respinta, delegittimata, magari irrisa come velleitaria e buona ad essere contrapposta alla serietà, sana passione e festosità del comizio di Salvini alla Mostra d’Oltremare.

Fin qui l’informazione ufficiale che, come sappiamo, concentra sistematicamente le sue telecamere e i suoi commenti sui pochi violenti, trascurando (di proposito, ritengo) la grande massa dei manifestanti che, con la loro presenza pacifica e appassionata, lanciano un messaggio di protesta e di cambiamento.

Come si dice in questi casi: “Io c’ero” e ho visto un’altra cosa. Ho visto bandiere di tanti colori diversi, striscioni e cartelli soprattutto ironici, ho visto gente che suonava e, soprattutto, non ho visto le scene di guerriglia: perché il corteo era lungo, molto lungo e chi non era nelle immediate vicinanze degli scontri, neppure se n’è accorto.
Già, era tanto lungo: anche questo non è stato riferito dai telegiornali.

Più che di diritto di cronaca, a me pare un delitto di cronaca.
E una vecchia vignetta di Marco Marilungo spiega meglio di mille parole la dinamica di questo delitto.

Antonio Lombardi

4 novembre: diamoci un taglio

Share Button

Il 4 Novembre in Italia è la “Giornata dell’unità nazionale” e la “Giornata delle forze armate”: può sembrare un singolare accostamento, ma in realtà è un coerente filo rosso sangue che lega le due ricorrenze.

Anzitutto sembra difficile poter festeggiare al pensiero che l’Italia, con tutte le carenze che ha in ambito sociale e infrastrutturale – eminentemente al Sud – spenda oltre 20 miliardi di euro all’anno per mantenere in piedi la macchina bellica. Praticamente ogni ora che passa, spendiamo per armi, militari e guerra oltre 2 milioni di euro: sì, due milioni di euro all’ora senza sosta!
Quando poi si pensa che la maggior parte dei soldati sono meridionali (nell’ordine: pugliesi, campani e siciliani), mandati a morire in guerre che tutelano gli interessi dei potentati economici del Nord, allora si comprende che anche sotto questo profilo siamo solo carne da macello per i nostri padroni.
Il 4 novembre -anniversario della fine della I Guerra Mondiale con l’annessione di Trento e Trieste- dovrebbe, piuttosto, essere una buona occasione per riflettere su come liberarci di questo scomodo e oneroso fardello e sulle alternative alla guerra e alla difesa armata, che ci sono ma che naturalmente non incrociano gli interessi dei produttori di armi, delle gerarchie militari e dei bellicosi alleati dell’Italia.

Quanto all’altra ricorrenza odierna, quella dell’unità nazionale, verrebbe voglia di stendere un velo pietoso ma, in realtà, la virtù nobile della pietà in questo caso la si esercita più con la denuncia che con il silenzio.
Il fatto che i popoli si orientino a forme di unione, più o meno stringenti, può essere senz’altro un valore, ma la condizione perché di ciò si tratti e non di un tragico inganno, è che l’unità si realizzi e si mantenga in un clima di solidarietà, di sentire comune, di rispetto reciproco, di giustizia e verità.
Ora, tutti sappiamo, nonostante il lavaggio del cervello che subiamo a scuola, che la cosiddetta unità d’Italia avvenne grazie ad una guerra sanguinosa e ad una successiva repressione del dissenso, durata dieci lunghissimi anni, che fece quasi mezzo milione di morti. La storia ulteriore e l’esperienza quotidiana attuale, poi, ci dicono che quel rapporto di forza conquistatore-conquistato, cioè Nord e Sud d’Italia, non si è mai modificato. Lo Stato italiano, monarchico prima e repubblicano poi, ha sempre discriminato il Sud ed ha sempre fatto orecchi da mercante agli insulti razzisti che vengono lanciati al nostro popolo. Perché in 156 anni non si è mai avviato un programma educativo in favore degli italiani del Nord, affinché imparino a liberarsi del razzismo e ad avere rispetto verso il Sud? Semplice: perché non c’è interesse a farlo. Come non c’è interesse a smettere di trattare il Sud come una terra da sfruttare e un mercato da riempire di prodotti delle industrie settentrionali.

Questa non è unità, è colonizzazione: e non c’è nulla da festeggiare. Ma poiché nessun popolo può essere a lungo tenuto in scacco se smette di collaborare con i suoi oppressori e con gli ascari che fanno il loro gioco perverso, c’è speranza di sconfiggerla. Chi domina, ha comunque bisogno di una dose di collaborazione, volontaria o forzata, da parte delle vittime: se questa viene meno, quel regime implode. Allora, alla retorica di questo giorno rispondiamo dandoci un taglio: alle spese militari e al regime coloniale italiano. I meridionali che oggi festeggiano, invece, appaiono come quel tale dell’illustratore polacco Pawel Kuczynski: per scaldarsi ad un modestissimo focherello, sacrifica i pioli della scala che potrebbero farlo salire verso un destino ben più luminoso.

Confini

Share Button

Monte San Biagio (oggi in provincia di Latina), frontiera nord-ovest del Regno delle Due Sicilie. Ancora è visibile il posto di dogana nella Torre Portella, situata sulla cosiddetta “terra di nessuno”, un fascia cuscinetto tra il nostro Regno e lo Stato Pontificio nella quale, appunto, si svolgevano le pratiche doganali. Attraverso questa porta passò anche Mozart l’11 maggio 1770, in viaggio verso Napoli.

Il concetto di confine travalica il senso politico-geografico e abbraccia differenti dimensioni della condizione umana. Ci sono, ad esempio, i confini interiori della nostra coscienza e del dialogo con noi stessi, o i confini immateriali come quelli dell’identità e della cultura di un popolo. La gestione sapiente dei confini invita a farne al tempo stesso luoghi di riservatezza e di dialogo, di consapevolezza e di incontro, mentre la violenza in tutte le sue forme, dalla manipolazione psicologica alla guerra, li considera barriere fastidiose od ostili da abbattere, per conquistare e sfruttare: che si tratti della libertà di pensiero di un individuo o della libertà di autodeterminarsi di un popolo. Saper stare sulla soglia è arte del rispetto e della mutua contaminazione, promozione reciproca e non tentativo di estirpare l’indipendenza dell’altro.

Davanti a questa testimonianza del passato che riporta alla memoria la violenza di un’invasione, il pensiero corre all’urgenza della riappropriazione di ciò che di più bello custodisce un confine, che non è certo la chiusura all’altro, al diverso, ma al contrario è l’apertura ad un’autostima di quel sé –individuale o collettivo- che fondi un amore libero per l’altro. I confini interiori, come quelli esterni, non sono barriere escludenti, ma segni del rispetto, dovuto e difeso, della capacità di scegliere chi essere e come esserlo.

Antonio Lombardi

14937342_214777278952046_1561245268130945837_n 14601032_214776805618760_2052162162165385079_n 14915513_214775982285509_5056432055037954899_n

Disapprendimento ed emancipazione

Share Button

di Antonio Lombardi

Nella notte tra il 18 e il 19 luglio 2016, viene dato alle fiamme un campo rom a Casalnuovo. Nel dare la notizia, un sito internet di informazione scrive nel titolo, a grossi caratteri, “a Napoli” e solo nel sottotitolo, decisamente con minore evidenza grafica, chiarisce che si tratta invece del comune di Casalnuovo. Un utente di Facebook rilancia e commenta la notizia, commettendo lo stesso errore: “A # Napoli danno fuoco al campo # Rom, ecco cosa è successo..”.

A quel punto io commento: “L’incendio si è verificato a Casalnuovo, perché nel post c’è scritto a Napoli?”.

Preferisco la forma interrogativa a quella affermativa (“Non è accaduto a Napoli ma a Casalnuovo”), perché è più utile all’altro ad evitare posizioni difensive di chiusura e ad interrogarsi a sua volta.

La risposta non arriva dall’autore del post, ma da un’altra signora (napoletana), che evidentemente si sente sollecitata ad intervenire. È da manuale di colonizzazione mentale: “Perché Casalnuovo non è conosciuta come Napoli … ed è cmq in provincia di Napoli… ma non capisco perché vi soffermate sul particolare e non sul fatto in generale. …”.

Dunque, secondo questa napoletana, l’obiettivo di dare risalto alla notizia o almeno di aiutare i lettori ad identificare la zona dell’evento, giustificherebbe la citazione impropria e denigratoria della sua città. E le risulta incomprensibile il fatto che qualcuno (c’è anche un altro commento che avanza la stessa precisazione) dia peso a questo particolare della località dove si è verificato l’evento, invece di focalizzare tutta l’attenzione sull’evento stesso: come se l’informazione non dovesse rispondere a criteri di verità, correttezza, non discriminazione. Questo suo commento riceve, nel giro di alcune ore, ben 5 “mi piace”: uno dal Veneto, uno dalla Calabria e tre da Napoli!

Io rispondo: “È con tanti piccoli particolari, ripetuti in maniera martellante in una miriade di notizie (anche il titolo dell’articolo riporta l’errore), che si costruisce l’immagine sociale deviata di una città. Gettandole addosso ogni croce che capita sotto le mani. Il problema è proprio non farci più caso”.

Mi mantengo sul piano del confronto sul tema della correttezza dell’informazione e delle sue conseguenze.

La controreplica della signora è un capolavoro: “Sono in parte d’accordo con te , capisco il fastidio di sentirsi criticare la città di Napoli , vivo in un’altra città da 6 anni e spesso sento battutine sulla Campania in generale … però se permetti non puoi dividere Napoli dal resto dei comuni … I problemi che ci sono a Casalnuovo Arzano Casoria ecc sono gli stessi che ci sono a Napoli Città con la differenza che lì c’è anche il teatro San Carlo, la chiesa di San Domenico Maggiore , la certosa di san martino , piazza del Gesù ecc… allora facciamoci conoscere anche x questo e cambiamo determinati atteggiamenti e forse fra centinaia di anni Napoli non verrà ricordata solo per rifiuti tossici e camorra … Ribadisco non puoi dividere napoli dai suoi comuni altrimenti è come il “nordico” che vuole dividere l’Italia in due non so se sono stata chiara …”.

In pratica distinguere il capoluogo da un altro comune della zona, sostiene, è roba da secessionisti (e per lei ciò è chiaramente negativo ed appannaggio dei soli settentrionali: non ha mai sentito parlare dell’ampio e serio movimento autonomista o indipendentista che si sta sviluppando al Sud?). E a questa tesi comunque assurda (distinguere i comuni è uguale a dividere l’Italia) aggiunge una contraddizione: intanto è lecito attribuire a Napoli tutti i mali della provincia, ma inoltre la città stessa ha la colpa della sua cattiva fama che potrà essere modificata solo fra centinaia di anni. Qui c’è da riflettere sul fatto che il colonizzato mentale non solo si sente in dovere di giustificare l’azione vessatoria di denigrazione gratuita cui è sottoposta la sua terra, ma vi aggiunge l’attribuzione della colpa e la sfiducia nelle possibilità del riscatto d’immagine, sfiducia espressa attraverso l’iperbolica affermazione del tempo necessario a raggiungere il cambiamento: fra centinaia di anni. Senza contare la seguente implicita incoerenza: come fa la città a farsi conoscere per i suoi monumenti, se i media la rappresentano preferibilmente per i mali suoi e persino degli altri territori circostanti e non è lecito contestare tali media?

La mia risposta a questo punto si pone su un piano del tutto diverso. È evidente che la mia interlocutrice non ha consapevolezza del processo di apprendimento che soggiace al suo modo autolesionistico di valutare la cattiva informazione. Cerco, allora, di aiutarla a riflettere sulla genesi del suo modo di leggere e giustificare la faziosità del fare informazione in modo gratuitamente denigratorio.

Dunque, io scrivo: “Se incendiano un campo rom ad Abbiategrasso, nessuno scrive che l’hanno incendiato a Milano, anzi è normale e giusto che ogni comunità si senta responsabile di quello che accade sul proprio territorio. Perché a noi, invece, hanno insegnato a sentirci in dovere di accollarci sempre tutto?”.

La conversazione si chiude qui: questo cambio di piani generalmente fa sì che il dialogo cambi corso o si interrompa, ma comunque apre potenzialmente l’altro ad uno spiazzamento che può, eventualmente, generare una salutare introspezione riferita non all’oggetto della conoscenza (che cosa sto vedendo), ma al proprio modo di conoscere (perché sto vedendo così).

Ecco il punto. A noi meridionali, in particolare a noi Napoletani, l’Italia “unita” ha insegnato a ritenere normale e giusto usare il nome della nostra terra per rendere più sensazionali le cattive notizie. Normale e giusto darci in pasto all’opinione pubblica come carne da macello: ma carne sempre putrida, mai emendabile, inguaribilmente verminosa e perciò degna di essere calpestata a piacere.

L’annientamento dell’autostima, dell’identità e del senso critico del popolo duosiciliano va avanti efficacemente da 155 anni. La colonizzazione mentale è, come in tutti i regimi coloniali, l’operazione più efficace tesa a mantenere in stato di assoggettamento un popolo ad un altro, attraverso l’educazione al senso di inferiorità che diventa il punto di forza, il sostegno collaborativo inconsapevole al potere che lo schiaccia.
Educare all’identità, come consapevolezza del proprio valore e della propria ricchezza culturale e come capacità concreta di smettere di collaborare con l’oppressore, è una pratica di liberazione. Aiutare a disapprendere il consenso acritico è la pratica emancipatrice fondamentale.

SUD E SWADESHI – parte II

Share Button

di Antonio Lombardi

A proposito di Comprasud, un altro efficace esempio di noncollaborazione economica come strumento di pressione politica, lo si ebbe in Sud Africa nel 1985, nella città di Port Elizabeth. Fu uno dei momenti fondamentali della lotta nonviolenta di liberazione dal regime di apartheid.

Cominciò grazie ad alcune madri nere che lanciarono un boicottaggio delle merci vendute dai bianchi, per mettere la popolazione bianca di fronte alle sue responsabilità nella discriminazione razziale. In poche settimane, col sostegno di una rete di associazioni (United Democratic Front), riuscirono a persuadere mezzo milione di persone a non acquistare in centro città nei supermercati gestiti dai bianchi, ma a restare a fare la spesa nei negozi delle townships, i sobborghi neri.

Il 15 luglio, giorno stabilito per l’azione di massa, le strade commerciali, solitamente affollate, erano deserte; l’adesione fu del 100%. In 5 giorni il boicottaggio si propagò in tutto il Paese.

Il governo proclamò lo stato d’emergenza in alcune aree, tra le quali Port Elizabeth. Ma aveva le armi spuntate. Il Colonnello Lourens du Plessis fu tra i protagonisti della repressione del movimento, essendo ufficiale capo a Port Elizabeth. Le sue parole sono illuminanti: “Che razza di crimine è non voler comprare? E’ un’azione di massa. E cosa si può fare? Non si può sparare a tutte quelle persone, non si può arrestarle tutte. È una strategia estremamente efficace. Gandhi fu il fondatore del movimento di resistenza nonviolenta”.

Intimidazione e brutalità non fermarono il boicottaggio, che iniziò a incrinare il blocco sociale dominante.

L’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, che verrà poi insignito del Premio Nobel per la Pace, fu tra i più determinati ad ammonire del pericolo di un’eventuale involuzione violenta della lotta.

Le sue parole: “Perché tradire la nostra causa usando metodi, gli stessi metodi che i bianchi usano con noi? Dobbiamo ricordarci, amici miei, che la nostra è una causa meravigliosa: è la causa della libertà, della giustizia, della bontà. E noi, tutti noi dobbiamo camminare a testa alta. Noi affermiamo che useremo solo quei metodi che passeranno al verdetto, all’alto verdetto della storia (…) Non sono le armi quello che autocrati e tiranni devono temere di più, bensì la decisione della gente di essere libera; quando si arriva a tanto è un processo irrefrenabile”.

La lotta fu lunga, complessa, articolata e beneficiò del sostegno della comunità internazionale con il boicottaggio delle banche sudafricane. Essa si concluse vittoriosamente nell’aprile del 1994 allorché in Sud Africa vi furono libere elezioni che videro Nelson Mandela trionfare.

Ma tutto cominciò un mattino di luglio, allorché persone consapevoli e organizzate fecero la spesa in modo diverso.

(Nella foto: 15 luglio 1985, un supermercato di Port Elizabeth desolatamente vuoto, con le sole commesse a girare tra le merci esposte).

Sud e Swadeshi

Share Button

di Antonio Lombardi

Il Comprasud, ossia la pratica del consumo critico esercitata dagli abitanti del Sud dell’Italia, che si manifesta nel preferire i prodotti di aziende con sede legale nel Mezzogiorno, è un potente strumento di promozione economica dei nostri territori e di pressione politica per attivare processi di cambiamento nel senso della giustizia e della non discriminazione.
Il Comprasud ha un nobile esempio nello Swadeshi di Gandhi, il quale usava tale parola per esprimere al tempo stesso l’obiettivo e lo strumento della lotta per la liberazione dell’India dal dominio coloniale britannico. Swadeshi è un’economia basata sulle proprie forze. Esso trovò espressione nel boicottaggio dei prodotti inglesi, al fine di favorire la produzione e la vendita di quelli indiani e, così, promuovere l’autosufficienza delle comunità locali.

La nostra terra è una terra sottomessa al predominio economico del Nord Italia, così come tutti i sud del mondo lo sono nei confronti del nord economico-geografico planetario. Agire localmente, impegnarsi per la pace nella giustizia della propria terra, mantenendo una visione globale dei problemi, ha tanti vantaggi:
• rende attivi evitando di cadere in un fatalismo deresponsabilizzato;
• contribuisce alla crescita della pace a livello mondiale perché comporta la noncollaborazione con le logiche di potere dominanti e violente;
• mantiene immuni da un pacifismo opportunista (rischio che corrono al Nord Italia), che mentre si occupa della giustizia all’altro capo del mondo (e fa bene) si tiene stretti i privilegi sotto casa (servizi migliori, iniqua distribuzione delle ricchezze, ecc.);
• scongiura un pacifismo alienato (rischio che si corre al Sud Italia), per il quale opporsi alla condizione coloniale di una terra nell’altro emisfero è cosa buona e giusta (e lo è sicuramente), mentre accorgersi e lottare per quella della propria comunità è un atteggiamento al limite del reazionario.
A tal proposito ricordo le parole di Gandhi:
“Il mio patriottismo è allo stesso tempo esclusivo e inclusivo. È esclusivo nel senso che in tutta umiltà focalizzo la mia attenzione sulla terra in cui sono nato, ma anche inclusivo nel senso che il mio contributo non è di natura competitiva o antagonista”.
(M. K. Gandhi, The Collected Works of Mahatma Gandhi, vol. XXVI p. 279).

Servire la propria terra non significa né comporta necessariamente odiare quella degli altri, ma vuol dire lottare a testa alta e cuore forte per la sua liberazione. Per amore, solo per amore.

(Nella foto: Gandhi e l’arcolaio, lo strumento per filare, diventato il simbolo dello Swadeshi perché permetteva di evitare l’acquisto di tessuti inglesi).

Le voci di dentro

Share Button

di Antonio Lombardi

L’Italia “unita” sta correndo ai ripari. Come era prevedibile, visto il successo turistico smisurato di Napoli durante il periodo natalizio, le altre città d’arte devono attrezzarsi per prepapare al meglio la Pasqua e la stagione estiva. Se Napoli non rientra nel buco oscuro dove è stato deciso da 155 anni che debba essere conficcata, c’è da preoccuparsi: vuoi vedere che viene alla luce che è la città con la più alta concentrazione di beni culturali d’Europa?

Così, finite le feste, comincia la nuova campagna antinapoli. Ieri sera, 9 gennaio, va in scena su Rai 1 “Cose nostre” il solito programma sulla camorra, anzi sulla Napoli camorrista, che riduce tutto ad una dimensione: quella che deve essere messa in risalto per danneggiare la città e favorire altri territori.
Tremila anni di arte e di storia, benedetti da un ripetuto riconoscimento internazionale, gettati via in un baleno.

Non che la camorra non esista, ma è uno schizzo putrefacente finito su una meraviglia sorprendente. Se veramente la si vuole combattere e vincere, lo si deve fare valorizzando, incentivando, sviluppando e diffondendo tutto quello che le è estraneo, a cominciare dalla bellezza e dalla vivacità della città e dalla solarità e spirito di sacrificio delle persone che la abitano.

Ma io non credo nella buona fede dell’Italia, che dice di voler combattere la criminalità organizzata e poi la alimenta con una cultura di discriminazione e di morte e la usa per i traffici della parte industrializzata del Paese.

Ho fotografato la “Fontana della Maruzza”, appena restaurata, un piccolo gioiello del ‘500, come una pietruzza incastonata su un anello. All’inaugurazione, il sindaco De Magistris ha detto: “noi non abbiamo avuto alcun sostegno, non abbiamo avuto il Giubileo, l’Expo o eventi finanziati dallo Stato e dal Governo. Tutto quello che si sta facendo e che porta Napoli ai vertici del turismo internazionale è frutto del lavoro di questa città”. Esattamente questo.
Ed ora prego cortesemente tutti i sapientoni ascari che si sentono in dovere di precisare, puntualizzare, ribadire e offendere la propria città per dare corpo alle “voci di dentro”, gli obblighi coloniali introiettati da un secolo e mezzo di educazione alla soggezione, che risuonano imperiose nelle loro identità inferme, di evitare di commentare questo post. Ieri sera ho già vomitato.