Una visione mediterranea per una politica alternativa

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di Pierluigi Peperoni

Molto spesso abbiamo parlato di autonomia intesa anzitutto come un modo diverso per il mezzogiorno di pensare se stesso. Parliamo quindi di autonomia di pensiero e di diritto a ripensare il futuro della nostra terra. Troppe volte il sud è stato intuitivamente immaginato come un non-nord, come un luogo che è rimasto strutturalmente indietro nella corsa allo sviluppo industriale che ha caratterizzato la fine dell’ottocento e quasi tutto il novecento. Questo limita le prospettive di crescita e sviluppo dello stesso sud che invece andrebbe concepito e ripensato in quanto tale. Il modello occidentale e settentrionale non è l’unico modello possibile a cui uniformarsi, ma piuttosto solo uno dei tanti. Ripensare il sud è un’operazione difficile, perché bisogna cambiare radicalmente il modo stesso in cui le persone del sud si considerano. Diventa quindi necessaria un’operazione di “decolonizzazione mentale” che consenta ai meridionali di ripensarsi fuori dagli schemi imposti in quasi due secoli di storia. Quest’operazione non può che avvenire in autonomia dalle logiche di un sistema Italia che ha tutto l’interesse perché ciò non avvenga. Ne è la logica conseguenza il fatto che non possono essere considerati interlocutori politici credibili tutti coloro risultino collegati ai partiti nazionali. La funzione dei partiti nazionali è infatti quella di bloccare sul nascere la possibilità che nel Paese meridionale si costruiscano centri di volontà politica da esso emergenti. Per impedire che ciò avvenga attuano delle strategie di “assorbimento” delle intelligenze convogliando nei propri ranghi, come milizie ascare ben retribuite e socialmente ben collocate, le classi dirigenti meridionali. I partiti nazionali sono vere e proprie strutture preposte ad un’occupazione permanente. Non va confuso però il rapporto che con essi hanno i comuni militanti di tali partiti che sono spesso elementi di grande valore e generosità; forze autentiche sottratte alla causa dell’avanzamento della loro terra attraverso tale perverso meccanismo “nazionale”.

Al contrario bisogna porre al centro dell’azione politica e culturale la riscoperta delle identità e delle tradizioni dei popoli meridionali tutti attraverso la riscoperta del valore della lentezza. L’assolutizzazione della velocità conduce ad una deteriorazione delle esperienze che tendono a scomparire o comunque a venire sostituite da altre che poco hanno a che vedere con la matrice originale. Da questo punto di vista non va confusa l’operazione di difesa della lentezza con una nostalgia del passato, di forme politiche ormai superate. Piuttosto si tratta di contrapporsi a un certo tipo di velocità funzionale esclusivamente allo sviluppo capitalistico che vuole liberarsi di qualsiasi ostacolo gli si ponga davanti. La velocità conduce al modello della modernità liquida, che erode valori nel nome di un processo di modernizzazione che non guarda più all’uomo e ai suoi bisogni. Lentezza significa quindi occuparsi dei danni che la velocità produce. Il ritorno ad una democrazia fatta di persone che discutono dei propri bisogni e delle esigenze dei propri territori è un contrappeso alla pulsione verso l’eliminazione del dialogo che è propria dei processi di modernità liquida che percepiscono il dialogo come ostacolo da superare.

Una visione mediterranea

I nostri territori sono al centro del Mediterraneo, che oggi è percepito come “mare” di frontiera e che invece dovrebbe tornare ad essere centro dell’Europa. È necessario superare l’idea che il Mediterraneo delimiti e divida due aree diverse, ma piuttosto dobbiamo riappropriarci dell’idea che il “mare nostrum” torni ad essere di tutti. Nel corso dei secoli tutti i popoli affacciati sul Mediterraneo hanno intensamente dialogato, commerciato, creato legami e permeandosi di tutte le altre culture con cui venivano in contatto. Per questa ragione non esistono razze e culture pure, ma al contrario vi è qualcosa di altri in ognuno di noi. Diventa quindi necessario superare i limiti della paura dell’altro – nato magari su un’altra sponda del nostro mare – e aprirsi alla conoscenza di chi si considera diverso per scoprire quali sono i legami tra le differenti culture.

Viene da se che la cultura mediterranea non può essere che moderata, non può far altro che rifiutare tutti i fondamentalismi. Non esiste un popolo, una razza, una cultura che possa arrogarsi il diritto di dirsi pura. Diventa necessario un processo di laicizzazione dei popoli che affacciano sul Mediterraneo che non venga imposto con la forza, ma che sia piuttosto frutto di una naturale evoluzione culturale e che parta proprio dalla consapevolezza che tutte le tradizioni sono già contaminate e che esistono notevoli punti di contatto. Evidentemente è necessario che divenga chiaro che non esistono visioni e culture assolutamente positive o assolutamente negative, quanto piuttosto esiste una pluralità che deve imparare a confrontarsi traendone vantaggio reciproco.

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