Separiamoci: ci conviene?

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Il seguente passaggio è tratto dal libro Separiamoci di Marco Esposito

I numeri chiave sui quali ragionare sono in fondo elementari. Nel Sud (qui riferito per comodità di ripartizione statistica a 8 Regioni, isole comprese) vive il 34% degli italiani, circa un terzo. La ricchezza prodotta, per le note ragioni, è solo il 24%, ovvero circa un quarto del totale. Le tasse versate nella cassa comune – nonostante si dica che il Sud sia il regno dell’evasione – sono appunto circa un quarto del totale nazionale. In base al principio che ciascuno dà in proporzione alle proprie possibilità e riceve in proporzione ai propri bisogni, il Sud dà (e in effetti dà) il 24% e dovrebbe ricevere il 34%, ovvero una quota vicina al numero di bambini, anziani, persone cui assegnare servizi sociali. In realtà lo Stato, fino al 2010, svolgeva un effetto di parziale riequilibrio nella distribuzione delle risorse, sia pure decrescente nel tempo (la spesa complessiva in conto capitale, cioè per investimenti, destinata al Mezzogiorno è scesa dal 40% del 2001 al 34% del 2010). Tuttavia, dopo le manovre finanziarie del 2011-2012, tale effetto si è attenuato o si è addirittura ribaltato e ormai destina al Sud un valore vicino al 24% come spesa corrente (stipendi e pensioni, in primo luogo) comprensiva degli interessi sul debito; mentre spende un po’ di più, il 30%, come quota di investimenti. Il beneficio degli investimenti è solo in apparenza dovuto alla volontà dello Stato italiano, in quanto è legato per oltre metà al flusso di fondi europei, per cui il bonus rispetto alla quota di tasse versate dal Sud proviene da Bruxelles e non da Roma. Senza il contributo di Bruxelles, la quota di investimenti ordinari destinata al Mezzogiorno è scesa dal 2010 al 2011 di quasi 7 punti, dal 25,5% al 18,8%, e ancora non sappiamo con precisione cosa sia accaduto nel 2012, se non che la tendenza si è confermata. Fatto sta che, per la prima volta da quando esistono le statistiche, nel 2011 non è stato il Nord ricco a dare qualcosa al Sud, ma il Sud povero a girare qualcosa al Nord. Purtroppo non è una sciocchezza o una provocazione dire che con le proprie tasse i contribuenti del Sud contribuiscono ad aumentare il divario con il Nord, visto che dal 2011 ricevono una quota di investimenti pubblici vistosamente più bassa rispetto allo sforzo fiscale. Ed ecco perché parlare oggi di separazione non è più un esercizio intellettuale o una provocazione, bensì una delle possibili risposte alla rottura di fatto dei principi cardine di uno Stato: l’Italia ha smesso di credere che le persone hanno diritti in quanto individui e non in base alla ricchezza personale.

Le classifiche 

Con 14 milioni e 500.000 residenti, Mediterranea – il Mezzogiorno senza la Sicilia e la Sardegna, ma con gli ex distretti di Gaeta, Sora e Cittaducale – sarebbe uno Stato europeo di media grandezza e tra i 27 della UE – a quel punto 28, se non di più – si posizionerebbe al 9° posto, subito dopo l’Olanda e prima della Grecia, del Portogallo, del Belgio, della Repubblica Ceca, dell’Ungheria, della Svezia, dell’Austria, della Bulgaria, della Danimarca, della Slovacchia, della Finlandia e di altri 7 Stati ancora più piccoli. In base alla superficie, con i suoi 75.000 chilometri quadrati, sarebbe soltanto 16a, in quanto più piccola della Repubblica Ceca e un po’ sopra l’Irlanda. Se dalla Spagna si dovesse staccare la Catalogna, quest’ultima avrebbe la metà degli abitanti e della superficie di Mediterranea. In termini demografici, la capitale, Napoli, non sfigurerebbe, visto che è la settima area urbana europea per popolazione, a pari quota con Barcellona. Nella classifica per ricchezza complessiva, Mediterranea si farebbe scavalcare da Paesi meno abitati e non propriamente ricchi come la Grecia, mentre supererebbe Stati più popolosi, ma anche meno agiati come la Romania. In tutte le classifiche europee, in pratica, Mediterranea sarebbe uno Stato non troppo diverso da tanti altri, con risorse e problemi, potenzialità di crescita e rischi. Ma stavolta il suo destino dipenderebbe soltanto da se stesso e dalla capacità di far squadra insieme agli altri.

 

Più di ogni classifica, conterà la percezione che avremo di noi stessi. Non più periferia di qualcosa, ma centro.

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