Sarno: l’acqua dei fuochi

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L’attuale condizione in cui versa il bacino idrografico del fiume Sarno rappresenta una vera e propria questione ambientale, dalle mille sfaccettature a molteplici conseguenze. In primo luogo occorre tenere a mente che le imprese che sono sorte attorno al bacino sarnese si concentrano principalmente nel polo conciario situato presso il comune di Solofra (alto Sarno), mentre il polo conserviero, di poco meno inquinante, è concentrato nell’Agro Nocerino-Sarnese, ai quali si aggiunge una buona quantità di scarichi urbani non depurati. Non è raro che le industrie siano situate nei pressi di un corso d’acqua ma ciò che rende il Sarno il fiume più inquinato d’Europa sono gli sversamenti abusivi di tali imprese e, seppur la loro colpevolezza sia innegabile, non è semplice individuare i responsabili che concorrono a questa condizione.

Il bacino del fiume Sarno, interessando le province di Avellino, Salerno e Napoli, percorre una zona ricca di valori storici e bellezze paesaggistiche, eppure quello che offre agli occhi dei coraggiosi addetti ai lavori è uno scenario a dir poco inquietante: i livelli di cromo, rame e tetracloroetilene, di per sé allarmanti, diventano ancora più spaventosi considerando la loro prossimità alla falda della sorgente del Sarno, da cui viene fornita acqua potabile a tutta la città di Napoli. Ma non finisce qui, poiché il dissesto idrogeologico rappresenta un’aggravante ulteriore: quando il fiume esonda, a causa dell’assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria, in particolare il dragaggio, le sue acque killer finiscono per impregnare le colture circostanti, così – anche quando nessuno rischia di annegare – il male finisce sulle tavole dei cittadini.

Gli effetti di tale degrado sulla salute umana non sono una semplice ipotesi e, nonostante molti enti abbiano provato a ometterne la gravità, sono numerosi i documenti ufficiali che pongono l’accento sui danni causati dall’inquinamento del fiume: diversi studi attestano in quelle zone l’alta incidenza di malformazioni (specialmente su donne e bambini), Parkinson e leucemia, mentre i tassi di mortalità per cancro hanno raggiunto picchi più alti rispetto alla media italiana, disastro annunciato già dal 1997 in un rapporto dell’OMS che segnalava un indice di mortalità per cancro superiore del 17% rispetto ad altre zone del mondo.

Ma come, gli imprenditori non sanno dei danni che provocano alla loro stessa gente? – certamente il problema è di natura sociale e culturale: la costruzione scriteriata dei centri urbani è uno dei grandi responsabili del dissesto ed è facile immaginare che, in un clima simile, un imprenditore trovi conveniente aggirare i pagamenti riversando tutto nel fiume ma in realtà la questione è molto più complessa di così.

Dietro a ciò che può sembrare banale incoscienza o inciviltà, si nascondono responsabilità ben più ampie: una delle tante follie dell’amministrazione pubblica è stata quella di imporre, già dal 1997, alle aziende il pagamento del canone di depurazione “in base al beneficio che ogni immobile trae dalle opere e dell’attività del Consorzio di bonifica, nel rispetto dei criteri stabiliti dal vigente Piano di Classifica per il riparto degli oneri”, che significa che la tassazione è effettuata sulla quantità di acqua depurata ma non su quella complessivamente utilizzata da ciascuna impresa, un vero e proprio incoraggiamento a risparmiare. Come? Creando scarichi e pozzi abusivi.

Le moderne tecniche di perforazione hanno inoltre reso accessibili a molti anche le falde più profonde, causando dei coni di depressione che richiamano dall’alto acque con tassi di inquinamento elevati, accrescendo l’interferenza tra acque di scarico e acque di approvvigionamento. Nel Sarno sono accumulate migliaia di tonnellate di materiale vegetale, di sedimenti tossici e di rifiuti urbani, mentre il consumo idrico è aumentato vorticosamente fino a superare le effettive potenzialità idriche del sottosuolo: uno scenario distopico che, con un po’ di fantasia, fa immaginare nel giro di pochi anni il letto del fiume pieno di immondizia anziché d’acqua.

Da quanto esiste questa situazione? Come si potrebbe risolvere? Come hanno reagito le istituzioni? Occorre fare un passo indietro per comprendere fino a che punto si sia protratto questo scandalo che, in un agglomerato di acqua e veleni, scorre ancora inosservato dalla maggioranza dei cittadini.

E’ il 1973 quando il Governo si propone per la prima volta di risolvere la questione del Sarno, inserendone la bonifica nel grande progetto di risanamento dell’intero Golfo di Napoli: un programma dalle nobili intenzioni, i cui sforzi però non devono essere bastati, poiché nel 1987 viene dichiarato lo stato di emergenza ambientale per poi vedere l’istituzione, nel 1995, della prima Commissione di inchiesta parlamentare. Fiumi -questa volta di denaro- tentano di rattoppare le criticità del Sarno qua e là, senza porre in realtà alcun rimedio, quando nel 2012 arriva la delibera della giunta regionale che dà il via alle procedure attuative del “Grande Progetto del fiume Sarno”: un progetto necessario ma che, ancora una volta, affronta il problema solo in modo sommario e senza risolverlo alla radice.

Il cosiddetto Grande Progetto prevede la riqualificazione idraulica e ambientale del basso corso del fiume Sarno attraverso la realizzazione della seconda foce, un’attività di monitoraggio e Protezione Civile e un sistema di vasche di laminazione e aree di espansione controllata per il trattenimento a monte dei volumi di piena.

Proprio l’installazione delle vasche ha generato non poche proteste tra i cittadini ed ha portato il Comitato No Vasche a fare un ricorso al TAR: le vasche di laminazione non sono altro che invasi con fondo permeabile, con il compito di raccogliere eventuali esondazioni del fiume. Se è vero ciò che dice la regione, cioè che “si tratta di impianti fatti di solo terreno, senza cemento, non sono invasivi per il territorio”, è anche vero che la terra battuta non sarebbe in grado di prevenire l’assorbimento delle acque tossiche in essa riversate, con il rischio di contaminare le falde sottostanti, in alcune zone poste a solo mezzo metro di profondità.

Un’altra falla del Grande Progetto si trova osservando la grave assenza di programmi per il Canale Conte di Sarno, canale artificiale risalente alla fine del XVI secolo, creato per approvvigionare d’ acqua le industrie e i pastifici nei dintorni di Torre Annunziata. Il valore storico è inestimabile, dato che alla sua costruzione sono dovuti i primi ritrovamenti legati agli scavi di Pompei, ma non è il solo motivo per riportarlo in funzione: un altro dei suoi compiti principali era quello di mitigare l’effetto delle grandi precipitazioni. Il Canale, se rifunzionalizzato, potrebbe essere un ottimo mezzo di intercettazione delle acque per evitare i frequenti allagamenti che si verificano nei comuni di Poggiomarino, Striano, Boscoreale e Scafati. Il canale è uno dei tanti doni del passato di cui gode la Campania, un altro dono che a causa dei soliti “furbi” richiederà un salvataggio da milioni di euro e che, nonostante i numerosi tentativi di riqualificazione, ancora non vede la luce.

Lo scandalo non finisce qui, perché se questa situazione sembra frutto di una completa noncuranza, in realtà i tentativi di porre rimedio a questo scempio è costato (troppi) milioni di euro ai cittadini: CasMez, AgenSud, finanziamenti comunitari e regionali sono alcune delle numerose fonti da cui sono stati attinti i fondi, somme da capogiro se messe in relazione con l’effettivo risultato. 
Solo dalla delibera della Giunta Regionale del 2012 emerge un finanziamento complessivo di 217.472.302,30 euro, soldi spesi solo tra il 2007 e il 2013, presi dal Fondo Europeo dello Sviluppo Regionale (FESR) e, ovviamente, dalla Regione Campania. Nulla, in confronto a quanto riportato dalla Commissione d’inchiesta parlamentare che riportava la spesa di 700 milioni tra il 1975 e il 2005.

A fronte di tali cifre ci si aspetterebbe un piano di risoluzione permanente, che sarebbe dovuta già essere in atto da molto tempo. Eppure nel Grande Progetto

solo le vasche di laminazione sembrano apportare qualche timida modifica allo status quo, anche se, come denunciato dal Comitato No Vasche, non sono altro che un costoso palliativo per contenere esclusivamente il problema del dissesto idrogeologico: un modo per

accantonare e rimandare la problematica della depurazione delle acque, lasciando così nuovamente irrisolto il vero dramma dei cittadini.

Ci troviamo di fronte all’ennesimo scandalo, all’ennesima ingiustizia, all’ennesimo insulto ai cittadini. Dobbiamo preoccuparci di ciò che mangiamo, di ciò che beviamo o magari dell’acqua in cui ci tuffiamo d’estate. Dobbiamo preoccuparci per le tasse pagate con sacrifici e onestà ma che in qualche modo non bastano a garantirci la sicurezza. Dobbiamo preoccuparci perché non si può vivere dove si è costretti a scegliere tra la salute e un posto di lavoro. Dobbiamo preoccuparci per i nostri figli e soprattutto dobbiamo preoccuparci che loro non crescano nell’abitudine, nel perpetuo senso di impotenza che ci provocano situazioni più grandi di noi. E’ arrivato il momento di far capire ai soliti “furbi” che una mano lava l’altra, sì, ma non quando anche l’acqua è sporca.

di Beatrice Lizza

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