I diritti negati: la nostra visione Mediterranea

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La nostra amata terra è da tempo un luogo con diritti limitati, ma di quali diritti stiamo parlando? Parliamo forse del diritto a lamentarsi? O del diritto di addossare tutte le colpe del declino al saccheggio del Nord o dell’Europa?

Chi ha condiviso il percorso politico di Unione Mediterranea, della lista di scopo Terra Nostra e della lista civica MO trova ovvio che la risposta alle domande poste sopra sia “no”. Il dibattito sui diritti che rivendichiamo guarda oltre i confini del Sud Italia e può trovare alleati e spunti di riflessione in tutte le aree – dell’Europa e del mondo – dove l’autodeterminazione dei popoli e degli individui si scontra con la cieca arroganza delle istituzioni nazionali e sovranazionali.

I diritti, peraltro, non sono un concetto immutabile ma camminano e si arricchiscono con la storia umana, al punto che sono state individuate cinque generazioni di diritti umani, divise secondo una prospettiva di carattere storico. Senza volere assegnare un ordine di preferenza,  ecco come si può collocare rispetto a essi il pensiero meridionalista contemporaneo.

Prima generazione: I diritti civili e politici

Questa prima generazione di diritti è elaborata durante il “secolo dei Lumi” proprio a Napoli e per essere formalizzata a Parigi – sia pure in una versione più liberista e meno sociale, rispetto alle originali idee dei pensatori napoletani –  nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. I principali diritti sanciti da questo documento sono il diritto alla vita e all’integrità fisica, alla libertà di pensiero, di religione, di espressione, di associazione, alla partecipazione politica, all’elettorato attivo e passivo. Allo stesso tempo, nella stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, si affermano i principi di uguaglianza, di proprietà e di resistenza all’oppressione; parallelamente si formula il principio di sovranità, individuando nella Nazione l’organizzazione a cui spetta il dovere di tutelare i cittadini e la loro disponibilità di fruire dei diritti elencati.

Tali diritti, a partire da quello alla rappresentanza, sono stati non di rado calpestati nel Mezzogiorno fino alle umilianti elezioni del 2013. In tutto il Sud Italia (e soltanto nei collegi meridionali) il principale partito italiano, che pure ama definirsi democratico, ha imposto ai meridionali dei capilista non espressione del territorio (Guglielmo Epifani in Campania 1, Enrico Letta in Campania 2, Rosi Bindi in Calabria, Angela Finocchiaro in Puglia e così via). Una possibilità consentita dalla legge elettorale dell’epoca, chiamata non a caso Porcellum, cancellata dalla Corte costituzionale il 4 dicembre 2013 ma riproposta nella parte che indica 100 “capilista bloccati” nell’Italicum approvato il 4 maggio 2015.

L’accettazione forzata dell’ordine di preferenza scelto dalle gerarchie dei partiti ha rappresentato già la negazione di un diritto per tutti gli elettori italiani: il diritto di scegliere un candidato, la sua storia politica o magari anche solo la sua condotta etica e sociale. Se poi si tiene in debito conto il fatto che i partiti nazionali vedono i loro equilibri economici interni indiscutibilmente molto più spostati verso l’asse Roma-Firenze-Milano-Genova-Torino che non verso il Sud della penisola, si ottiene una negazione del diritto all’elettorato molto più critica a Sud che a Nord.

Il diritto di voto può essere compresso, inoltre, con regole che limitano la scelta, con soglie di sbarramento diverse a seconda se ci si allei o meno al potente di turno. Proprio in Campania – grazie alla pronta mobilitazione della lista MO – è stata fermata una manovra di palazzo per alzare a pochi mesi dalla consultazione elettorale la soglia di sbarramento dal 3 al 10%. E – attenzione! – la soglia del 10% valeva per chi non aveva alleati mentre la stessa soglia spariva per le liste di complemento dei partiti più forti.

Ma c’è anche un altro modo, più subdolo, per comprimere il diritto di voto. E’ diffondere la cultura dell’antipolitica, affermare che nessun voto è utile anzi che votare sia dannoso. La politica, si afferma, è una cosa sporca e quindi è meglio tenersene alla larga. Un modo per consentire ai trafficanti di consenso di ottenere i risultati di un tempo limitando il voto d’opinione. Secondo la lista civica MO, la politica è un’arte nobile che non può essere lasciata nelle mani di persone con interessi non confessabili. La politica o la fai o la subisci.

Oggi che gli elettori meridionali chiedono il diritto di esercitare il proprio voto senza doversi piegare ai giochi di poltrone nazionali, il meridionalismo rappresenta una scelta di metodo coerente con la battaglia per una rappresentanza autentica. L’opzione di metodo che ne deriva è la presentazione di una lista che non debba condividere piani e risorse con i potentati nazionali, pronti ancora una volta ad asservire la gestione del territorio campano alla dinamiche di scambio elettorale che da decenni stanno svuotando di contenuti le istituzioni nazionali.

Seconda generazione: i diritti economici, sociali e culturali

La seconda generazione di diritti, pur presente in nuce nelle originali elaborazioni degli illuministi napoletani, trova applicazione dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e ottiene i suoi principali riferimenti normativi nelle carte costituzionali dei paesi europei, inclusa la Costituzione della Repubblica Italiana che, secondo molti giuristi di spessore, rappresenta uno dei documenti più avanzati al mondo in tema di tutele per la cittadinanza. I diritti affermati come prioritari includerebbero il diritto alla  tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, all’abitazione, alle cure sanitarie, all’istruzione, al benessere sociale e alle indennità di disoccupazione. La differenza fondamentale i diritti di prima generazione e quelli di seconda sta nel fatto che i primi impongono agli stati sovrani l’obbligo di astenersi dal porre in essere attività che ledano i cittadini o i loro interessi, mentre i secondi impongono allo stato sovrano, in quanto ente di gestione di risorse, di agire per consentire ai cittadini il completo sviluppo della propria personalità e la tutela del loro benessere anche e se si vuole soprattutto se vivono in territori con minore sviluppo economico. Il Mezzogiorno era esplicitamente citato nella Costituzione del 1948 all’articolo 119 (“per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali”) per poi esserne espunto con la riforma del 2001, scritta dal centrosinistra per compiacere la Lega Nord.

Le questioni più spinose in tema di diritti sociali non nascono solo dai diversi approcci politici a tanti concetti chiave dello Stato sociale, come, ad esempio: ammortizzatori sociali, sanità pubblica, merito, eccetera. Molte delle dispute più accese trovano la loro ragion d’essere sui criteri politici e geografici con cui vengono distribuite le risorse economiche in condizioni di scarsità dei fondi nazionali. Ha destato scalpore il criterio utilizzato dal governo per determinare il “fabbisogno standard” dei servizi sociali a livello comunale. Il Governo e il Parlamento della Repubblica Italiana hanno deciso deliberatamente che nei luoghi in cui la spesa sociale per istruzione e asili nido era più bassa, andava confermata la spesa storica per evitare di affrontare il tema di un riequilibrio con le aree del Paese dove quei servizi sono invece storicamente presenti in abbondanza. I tagli che questo approccio così barbaro ha apportato nel 2015 alle già limitatissime risorse disponibili negli enti locali più poveri del meridione avranno conseguenze gravi per l’uguaglianza sostanziale dei cittadini di tutta la penisola.

La Costituzione in vigore è sistematicamente violata nelle parti di diretto interesse del Mezzogiorno. Si prendano due commi dell’articolo 119, il terzo e il quarto: “La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante” e “Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. Per Province, Città metropolitane e Comuni tale fondo perequativo non è mai stato istituito: al suo posto per i municipi c’è un fondo di solidarietà comunale che toglie ad alcuni comuni per dare ad altri alimentando una guerra tra territori che la Costituzione saggiamente non prevede ma che governanti cinici hanno alimentato. Nel 2015, addirittura, lo Stato ha attinto al fondo di solidarietà comunale: cioè, invece di istituire la perequazione, ha effettuato un prelievo da Comuni a favore di se stesso!

Lo Stato è anche venuto meno a un suo preciso dovere, indicato nell’articolo 117, lettera m, della Carta e cioè la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Non indicare, per esempio, qual è lo standard di civiltà e servizi sociali in materie come l’istruzione e i trasporti impedisce la corretta distribuzione delle risorse pubbliche.

Quello che emerge dalle statistiche sulla redistribuzione delle risorse su scala nazionale  è ancora più scioccante: nel 2013 il Sud Italia ha contribuito al gettito fiscale nazionale per il 24% ed ha ricevuto servizi il cui valore complessivo è inferiore al 21%, nonostante al Sud risieda circa il 34% dei cittadini italiani e il 41% dei giovani intorno ai 20-25 anni! Inoltre, questo è accaduto nonostante la palese presenza nelle regioni del sud di ostacoli ben più consistenti allo sviluppo di attività economiche e sociali rispetto al Centro-Nord.

Analoga deformazione negli interventi per l’economia del territorio è emersa con la pubblicazione degli 83 progetti presentati dall’Italia a Bruxelles per investimenti nelle infrastrutture da realizzare entro il 2020. Su 7.009 milioni di importo complessivo, appena 4 milioni fanno riferimento al Mezzogiorno. Una scelta politica che è anche un segnale a chi investe, a chi studia, a chi fa non progetto di vita: spostatevi dove lo Stato orienta i suoi progetti.

È senza dubbio fuorviante pensare che il Sud abbia come unica possibilità di sviluppo sociale quella di beneficiare indiscriminatamente di fondi statali addizionali distribuiti a pioggia: la malversazione di fondi pubblici e l’infiltrazione di numerose organizzazione  criminali negli apparati di potere delle istituzioni locali rappresentano, in questo senso, un forte deterrente. Tuttavia, proprio per le difficoltà sopra esposte, è più che lecito affermare che i cittadini del meridione hanno  tutto il diritto di rivendicare l’elaborazione di criteri di distribuzione delle risorse statali equi, trasparenti e basati sul fatto che paralizzare la spesa sociale in una parte del paese significa penalizzarlo tutto. Sacrificare la cittadinanza attiva del sud sull’altare che la Lega Nord ha eretto alla presunta superiore efficacia della spesa pubblica in terra padana, significa negare tutti i diritti sociali a cui la Costituzione impone di dedicare attenzione e fondi. E significa anche fingere di non vedere gli scandali che hanno colpito tutte le aree d’Italia, da Tangentopoli al Mose, dalla sanità lombarda al Montepaschi, dalle mutande verdi in Piemonte. Non è un caso che nella scorsa tornata elettorale solo sette regioni a statuto ordinario su quindici siano andate al voto a scadenza naturale, con il ritmo ogni 5 anni avviato nel 1970, ma all’appello mancano regioni che si autodefiniscono modello d’efficienza come la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Piemonte, tutte sciolte perché sommerse da scandali.

Di fronte ai danni ed alle beffe ricevuti dall’apparato della Pubblica Amministrazione della Repubblica Italiana, il meridionalismo non può che porsi come la scelta di un metodo di politica fiscale basato sul federalismo fiscale efficiente e solidale. Infine, non si può pensare a scendere nel merito delle questioni sociali, da meridionalisti, senza considerare i danni causati dallo sbilanciamento del sistema bancario ed assicurativo  a tutto vantaggio del Nord.

Terza generazione: i diritti di solidarietà

La definizione dei diritti di solidarietà si presenta alla ribalta mondiale verso la fine degli anni settanta, una fase storica in cui si iniziano ad accentuare i caratteri globali della rete di collegamenti e reciproche influenze tra i popoli di tutto il pianeta. Forse proprio per questo gli elementi individuati si presentano come diritti di tipo collettivo: i destinatari non sono i singoli individui, ma i popoli. Ecco quindi che si parla di diritto all’autodeterminazione dei popoli, all’uguaglianza tra i generi, alla pace, allo sviluppo, all’equilibrio ecologico, al controllo delle risorse nazionali, alla tutela dell’infanzia.

In molti hanno provato a chiudere il pensiero meridionalista tra gli angoli soffocanti di una connotazione puramente geografica. Con un’operazione poco onesta dal punto di vista intellettuale, alcuni di questi hanno provato addirittura ad affermare che definirsi meridionalisti significa negare la portata mondiale di alcuni diritti universali, facendo prevalere la difesa delle proprie specificità territoriali su quelle del resto della nazione o del pianeta. Non serve scendere nel merito di critiche tanto insensate quanto mal strutturate. È  sufficiente scorrere con lo sguardo la lista, peraltro non esaustiva, dei diritti menzionati come diritti di solidarietà per accorgersi dell’immensa portata delle tematiche coinvolte e dell’impossibilità per una sola nazione, una sola dottrina politica, una sola visione del mondo, di poterle coinvolgere tutte.

Il meridionalismo si colloca a pieno titolo tra le idee politiche che cercano una selezione delle possibilità locali di intervenire in difesa del più ampio concetto di diritti di solidarietà. Il meridionalismo si propone il riconoscimento dell’identità culturale del Sud dell’Italia per esempio attraverso la tutela delle svariate identità linguistiche che lo caratterizzano. Ciò avviene nella pratica politica e sociale perseguendo senza tregua il rispetto e la contaminazione con le altre culture presenti nel mondo. La selezione delle possibilità di azione più direttamente attuabili sul territorio del meridione di Italia non esclude, ma anzi moltiplica, la possibilità di divenire parte di reti sovranazionali per la tutela di diritti che sono globali per definizione, come i diritti di solidarietà.

Un esempio efficace di quanto può influire l’impegno locale sui meccanismi globali ci viene offerto proprio dal tema della tutela ambientale. Anche se non è stato ancora definitivamente codificato, riceve crescenti consensi il riconoscimento del diritto delle nuove generazioni che popoleranno il pianeta a usufruire dello stesso patrimonio naturale di cui disponiamo oggi, in termini di risorse naturali e di biodiversità. Le principali organizzazioni internazionali sono concordi sul fatto che per raggiungere l’obbiettivo della piena sostenibilità ambientale dovranno essere drasticamente ridotte le emissioni di CO2 e l’impiego di fonti di produzione di energia da risorse non rinnovabili.

Quarta e Quinta generazione: i diritti tecnologici e di comunicazione

Le ultime due generazioni di diritti hanno fatto la loro apparizione insieme all’evoluzione delle tecnologie di più recente introduzione, come quelle legate alla bioetica ed alla diffusione di internet. Queste generazioni vengono fuse spesso nella definizione di “diritti emergenti”, che sottolinea adeguatamente i limiti ancora incerti delle aree meritevoli di tutela giuridica e degli strumenti necessari a rendere effettiva la protezione dei cittadini. I diritti tecnologici includono principalmente il diritto alla tutela della proprietà intellettuale, i diritti relativi al campo delle manipolazioni genetiche, il diritto alla privacy e tanti altri che stanno emergendo  insieme con l’evoluzione delle tecnologie e con la loro invadenza negli spazi di autodeterminazione delle libertà individuale. Benché definibili anch’essi come “emergenti” in quanto non ancora formalizzati in modo completo, I diritti di quinta generazione si differenziano da quelli di quarta generazione perché, oltre all’aspetto di tutela delle possibilità di azione dei cittadini, coinvolgono anche la tutela del diritto di formazione dei cittadini. Si pensi, ad esempio, al diritto a formare la propria coscienza individuale, sociale e politica in modo libero, senza subire manipolazioni mediatiche; oppure al diritto a ricevere un’educazione di genere che non vada a minare le possibilità di autodeterminazione sessuale, o anche al diritto ad accedere ad informazioni rilevanti per le scelte politiche di un paese, come quelle emerse dal caso wikileaks, che i servizi di informazione internazionali tendono ad occultare nell’interesse delle classi dirigenti e del ceto politico internazionale.

Il compito di individuare i diritti emergenti e le tutele necessarie è già abbastanza arduo per gli studiosi di diritto di tutto il mondo, quindi di certo non sarà facile elaborare delle linee guida chiare per chi sta già facendo fatica a difendere i propri territori dalle speculazioni mediatiche, criminali e politiche come hanno fatto i meridionalisti di ogni epoca. Però lo sforzo di provarci non è affatto inutile, fosse anche solo per rompere il cerchio del colpevole silenzio che circonda le nostre eccellenze o per ridurre la sovraesposizione mediatica dei fallimenti delle nostre amministrazioni.

Se vogliamo che i media nazionali tutelino il diritto degli italiani tutti a formare la propria opinione sul Sud Italia senza passare per il “lavaggio del cervello” orchestrato dalla Lega Nord e da tanti altri partiti xenofobi ed antimeridionalisti, paradossalmente la nostra unica opzione è il meridionalismo. Ancora, se le imprese campane vogliono attrarre i finanziamenti ed i consumatori del Nord Italia, l’opzione di metodo necessaria è quella di una controinformazione meridionalista sulle nostre eccellenze agroalimentari, sulle strategie produttive che hanno consentito a molte di imprese campane di sottrarsi ai ricatti delle organizzazioni criminali, sull’altissimo livello dei nostri artigiani, sulle nostre bellezze storiche e paesaggistiche. Tra le caratteristiche che a ragione ci possono rendere fieri di essere meridionali c’è la possibilità di scoprire meraviglie nascoste nelle città, nelle campagne ed addirittura nel sottosuolo del nostro amato Sud. Di pari passo, tra i motivi di indignazione più forti non si può non menzionare la costante allusione ai temi dell’illegalità e del malaffare che domina nei media ogni volta che l’obiettivo delle telecamere si affaccia a cercare qualche scoop nel meridione, come se le stesse dinamiche non esistessero nelle altre regioni d’Italia. Se è quasi superfluo notare che i principali media nazionali appartengono a grandi gruppi industriali del Nord o allo Stato Italiano, che di questi gruppi è ostaggio, non è per niente scontato che a Milano possa scoppiare tanto uno scandalo come la settimana della moda, mentre Napoli balza alla ribalta quasi solo per fatti di camorra o di corruzione.

Spesso per convenienza, qualche volta per scelta politica, l’invadenza dei media nazionali e la loro soggezione alle linee guida dettate da forze antimeridionaliste giunge addirittura a manipolare le fonti di informazione. Molti esempi si trovano sulla rete e degli esperti meridionalisti di comunicazione hanno già contribuito a smascherarli, denunciando molti blogger la cui vera natura è quella di servi del ceto politico nazionale. Paradossalmente, la necessità di dotarci di strumenti di informazione e controinformazione propri, ad oggi, sembra l’unica possibilità per i meridionalisti al fine di tutelare il diritto ad un informazione autentica degli italiani del nord e dei cittadini del mondo. Ancora una volta il meridionalismo  va nel senso opposto a quello del campanilismo leghista e del particolarismo culturale. Ancora una volta il meridionalismo si propone come l’unica risposta possibile nel nostro territorio a una domanda politica globale: il diritto di autodeterminazione delle coscienze, prima ancora che delle scelte politiche.

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