Gli scavi archeologici di Ercolano e Pompei: la Prammatica di Carlo di Borbone per la salvaguardia delle «cose» di interesse storico artistico
La conoscenza del passato è lo strumento fondamentale per capire ciò che accade oggi. Per noi napoletani è fondamentale riscoprire il valore di ciò che ci circonda: solo così potremo apprezzare al meglio le bellezze di questa città che per consuetudine e distrazione siamo abituati a guardare quotidianamente con occhi privi di interesse. Ritrovare il significato di questi beni, così da riappropriarci di ciò che ci appartiene, attraverso la conoscenza, è ciò che mi propongo di fare, dando un sguardo al passato e riportando alla memoria personalità che hanno contribuito a rendere grande questa città. Uno fra tutti, Carlo di Borbone che rese tanto moderna la Napoli Capitale: riconsiderare tale modernità può essere una spinta per avere un approccio differente verso il futuro.
Carlo di Borbone, primogenito delle seconde nozze di Filippo V di Spagna con Elisabetta Farnese, si insediò a Napoli nel 1734. L’anno successivo fu incoronato re delle Due Sicilie. Con lui si inaugurò un periodo di rinascita politica, ripresa economica e sviluppo culturale. Già nel 1738, concesse a Roque Joaquin de Alcubierre, ingegnere ed archeologo spagnolo, l’autorizzazione per procedere ad una campagna di scavi nella zona vesuviana, a seguito del ritrovamento di alcuni manufatti di epoca romana. Questo portò al rinvenimento dell’antica Ercolano e, solo dieci anni più tardi, nel 1748, iniziarono i primi scavi nell’area pompeiana. Come è facile immaginare, gli scavi ercolanensi suscitarono grande ammirazione ed entusiasmo. Immediatamente ci si rese conto dell’importanza della scoperta e dell’interesse antiquario delle pitture rinvenute. L’acquisizione delle opere seguì un criterio essenzialmente collezionistico tanto che non vi fu alcuna selezione e si estraeva tutto ciò che si poteva. Gli scavi venivano condotti grazie alla creazione di gallerie e ciò dovette pregiudicare la percezione dell’appartenenza dei dipinti ad un contesto decorativo più ampio. Si pensò al modo più adatto per prelevare e portare all’esterno le pareti dipinte che si susseguivano all’interno degli stretti cunicoli che si andavano scavando. Si decise di seguire una metodologia tradizionale, ovvero, lo stacco a massello che consentiva una notevole rapidità di esecuzione: una volta tagliate dal muro, le porzioni figurate degli intonaci dipinti venivano assottigliate ed adagiate su un supporto. Questi dipinti murali venivano trattati come singoli «quadri» figurativi che dovevano andare ad arricchire le collezioni reali. Reperti di questo tipo erano considerati fino a quel momento rarissimi e, quindi, di grandissimo pregio. Carlo di Borbone ebbe la possibilità di esibirne numerosi esemplari ed in molteplici varianti. Anche le pitture del Tempio di Iside, vennero tagliate e trasportate nelle collezioni reali. Il re si mostrò contrario all’idea di conservare in loco le decorazioni pittoriche dell’intero complesso. In questo caso, la sua contrarietà non fu tanto dovuta alla preoccupazione che le collezioni reali venissero private di alcuni importanti esemplari, quanto al timore, rivelatosi fondato, che la conservazione di quelle pitture potesse essere messa a rischio a causa dell’esposizione alle intemperie. Il re temeva anche che potessero esserci dei furti negli scavi che avrebbero avuto come conseguenza la comparsa sul mercato antiquario di reperti di inestimabile valore e ciò poteva compromettere l’unicità della sua collezione. Pertanto, il Regno borbonico fu il primo, tra gli stati preunitari, ad adottare un provvedimento che regolamentasse lo spostamento delle «cose» di interesse storico artistico. Infatti, nel luglio 1755, Carlo di Borbone emanò la Prammatica finalizzata ad impedire l’asportazione, il saccheggio ed il commercio delle opere archeologiche. Essa proibiva lo spostamento di oggetti da un qualsiasi immobile antico senza una preventiva licenza rilasciata dal Governo regio; inoltre, nella stessa si sottolineava l’importanza di conservare tali opere. Alla Prammatica di Carlo di Borbone seguirono altri editti come quelli pontifici del 1802 e del 1820. Il primo, l’editto Doria Panphìli, successivo alla requisizione napoleonica, era incentrato sulla necessità di conservare i monumenti e di impedire furti, sciacallaggio e commercio clandestino di opere antiche. Il secondo, l’editto Bartolomeo Pacca, dal nome del cardinale camerlengo che lo redasse, prevedeva la creazione di un corpo di funzionari volto a far rispettare le leggi dell’editto Doria Panphìli. Successivamente, il governo borbonico emanò anche due editti con la finalità di tutelare le opere classiche. Il primo, emanato da Ferdinando I nel 1822, istituì una Commissione consultiva di antichità e belle arti volta a decidere quali fossero i beni che potevano essere esportati. Col tempo, dall’ambito prettamente archeologico, la tutela si diffuse anche agli altri monumenti tra i quali le chiese in stato precario che divennero oggetto di indiscriminati restauri. Proprio per regolare questi interventi arbitrari, nel 1839 Ferdinando II emanò il secondo editto la cui direttiva era volta a disciplinare i lavori in modo da non offendere le opere antiche. Si impose anche la vigilanza delle autorità di governo su tali interventi.
All’atto dell’unificazione nazionale, l’Italia era carente, dal punto di vista legislativo, di norme atte a tutelare il suo vasto ed eterogeneo patrimonio. Pertanto, nel 1871 con la legge n°286 si provvide ad affermare la validità degli editti dei governi pre-unitari.
Per ottenere la prima legge nazionale di tutela bisognerà aspettare il 1902, quando fu emanata la legge Nasi.
Flavia Tizzano,
Ass. Cult. locus iste LUOGHI e MEMORIA
Posso utilizzare questo testo citando la fonte?
Sarei curioso di conoscere il pensiero dell’autrice su un testo di Rosaria Ciardiello in “I Borboni di Napoli” di De Mauro ed. 8il pdf è scaricabile), perché in esso si insiste sul fatto che i Borbone tennero all’oscuro l’Europa dei progressi negli scavi di Ercolano e Pompei, che essi non potevano essere visitati, nonché varie critiche del mondo accademico europeo sulla conduzione degli stessi. Ho la vaga impressione che ci fosse all’epoca un tentativo da parte dell’establiscement europea di per così dire “colonizzare” gli scavi come si fece in Grecia ed in Egitto. Che ne pensa?