Il capitalismo e il suo rapporto di dominio con il Sud Italia e i Sud del mondo.
Il capitalismo e il suo rapporto di dominio con i Sud del Mondo e con il nostro Meridione in particolare
“Le nazioni dell’Europa dovrebbero essere guidate verso il superstato senza che i loro popoli sappiano cosa sta accadendo. Ciò si può ottenere tramite passi successivi, ognuno mascherato da uno scopo economico, ma che porterà alla fine e irreversibilmente alla federazione” (Jean Monnet, fondatore dell’Unione Europea con George Murnane della Banca Monnet and Murnane § Co)
Totalitario è quel regime che non si accontenta di controllare la società ma pretende di trasformarla in nome di un’ideologia totalitaria appunto, che la pervada interamente attraverso un uso combinato del terrore e della propaganda.
Premessa
La prima domanda che ogni persona, che fa parte di movimenti meridionali, deve porre a se stessa è: quali sono le motivazioni che mi hanno spinto a far parte di un movimento che si richiama alle istanze di ricerca di autonomia della soggettività meridionale? La risposta, che dovrebbe essere, almeno in parte, comune, è decisiva al fine di creare gruppi il più possibile omogenei e dialoganti. Certamente le risposte possono essere molte, ma se tra le possibili motivazioni mancasse una motivazione storico – politica e, soprattutto, culturale, che sia ricerca di senso e di identità, il tutto crollerebbe come un castello di sabbia; non c’è, infatti, politica senza cultura, così come non c’è cultura senza politica, nel senso che esse sono due momenti di un unico processo circolare: i due termini di teoria e prassi, se separati, creano alienazione e incapacità di orientamento in una società complessa come quella attuale, caratterizzata, tra l’altro, dalla liquidità dei valori e dalla disgregazione sociale. Ciò premesso, ci permettiamo di fare, in modo sintetico e schematico, un’analisi della realtà attuale della quale siamo convinti, della conseguente condizione il cui il sud si trova e delle possibili direzioni di ricerca e di lavoro che si possono seguire.
L’ analisi
Non si può pensare storicamente il nostro tempo, specie gli ultimi tre decenni, senza pensare al capitalismo finanziario come sistema di potere che oggi domina il mondo, e del quale, paradossalmente , poco si parla. E, se lo si fa, si è attraversati da uno strano senso di disagio perché esso è comunemente percepito come un “fenomeno naturale” della nostra vita quotidiana. Un sistema de-eticizzato che sta distruggendo i luoghi naturali della formazione etica dell’uomo: la famiglia, ormai in profonda crisi; la scuola considerata un’azienda, il lavoro ridotto a merce.L’ individuo è ridotto a puro atomo senza radicamento, precarizzato e senza futuro e i rapporti sociali improntati alla logica del contratto Un sistema che ha desacralizzato il mondo riducendolo a pura utilità e che ha messo in congedo le religioni, che potrebbero costituire ancora una possibile alternativa o resistenza al capitalismo. Un sistema che coniuga scambio ed organizzazione tecnologica, caratterizzato dall’assolutizzazione dell’economico, dal monoteismo del mercato, dallo smantellamento della sovranità dello Stato nazionale e della sua egemonia politica sull’economia.
Andare all’ origine del Capitalismo, individuare le condizioni che lo hanno reso possibile, tracciare il lungo secolare percorso storico delle sue metamorfosi in questa nota non sarebbe possibile. Qui ci limiteremo a fare, prima di entrare nel merito dei suoi rapporti di dominio dell’economia di mercato, una schematica sintesi del periodo che va dal secondo dopoguerra ai giorni nostri e che può essere diviso in due fasi:
la prima va dalla conferenza di Bretton Woords (1 – 22 luglio 1944 durante la quale, stante la completa fiducia nel sistema capitalistico da parte di tutti i 44 stati aderenti, si stabilì la convertibilità di tutte le valute in dollari) alla fine degli anni settanta;
la seconda fase va dalla fine degli anni settanta ai giorni nostri.Tale fase è caratterizzata, fin dall’inizio, dalla deregulation che ha dato il via alla globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia.
La prima fase, che si può definire del capitalismo regolato, si caratterizza in Occidente per l’eccezionale crescita della produzione, per la stabilità economica, per la riduzione delle disuguaglianze, per la creazione di un ceto medio e, soprattutto per una prevalenza della politica e delle sue capacità progettuali sull’economia. Un periodo unico nella storia, durante il quale, tra l’altro, si è avviato e, in parte, concluso il processo di decolonizzazione dei paesi ex coloniali
Ma quali sono state le cause che hanno provocato lentamente ma inesorabilmente la deregulation e il conseguente cambiamento che oggi noi sperimentiamo nella nostra esistenza quotidiana? Tra esse sicuramente un ruolo importante hanno avuto :
L’Inflazione Il ruolo primario dello Stato, le scelte di politica economica ed industriale da esso operate, le grandi spese sostenute, determinarono aumento di spesa pubblica finanziata con emissione di nuova moneta che causò una notevole inflazione. La politica monetaria restrittiva che ne seguì e la riduzione delle politiche sociali furono destabilizzanti.
La contrazione dell’occupazione favorita anche dallo sviluppo tecnologico e dal passaggio dalla fabbrica fordista (che aveva anche avuto il merito di far organizzare gli operai nei sindacati e a dar loro forza contrattuale) ad una organizzazione del lavoro parcellizzato.
Presenza sui mercati internazionali di un’enorme massa di denaro conseguenza dell’aumento triplicato del prezzo del petrolio (1973) e dei conseguenti enormi profitti delle compagnie, che, complice la politica degli anni ‘80 di Reagan e della Thatcher, facilitò il processo di liberalizzazione dei capitali e privò i singoli Stati di sovranità finanziaria
Fu tale liberalizzazione a dare inizio al processo di globalizzazione dell’economia e della conseguente finanziarizzazione del mercato. Oggi la massa delle attività finanziare raggiunge l’astronomica cifra di cento trilioni di dollari, corrispondente al doppio del PIL mondiale)
Il capitalismo col tempo aveva già eroso sia la moneta che il credito, introducendo da una parte la moneta di carta e dall’altra la procrastinabilità del credito, aggirando cosi sia la convertibilità in oro della moneta ( il 15 agosto 1971, a Camp David, presidente statunitense Richard Nixon, aveva annunciato la sospensione della convertibilità del dollaro in oro) che l’obbligazione della solvibilità del credito che si realizza per gli investimenti attraverso la borsa, e attraverso il debito per la finanza pubblica,. Un paradosso che ha determinato da una parte la liquefazione e, quindi, l’identificazione dei due pilastri dell’economia (moneta e credito erano tradizionalmente ben distinti) e, insieme, l’autonomizzazione del mercato finanziario, che manca totalmente di meccanismi di autoregolazione perché tratta di titoli ( il cui valore è liquido) e non di merci reali il cui scambio è regolato dalla legge della domanda e dell’offerta; dall’altra ha modificato il rapporto di forza, tra stati nazionali e multinazionali, a favore di quest’ultime. Il mercato finanziario, insomma, è il gioco folle che ha travolto l’economia finanziaria americana e, con essa, quella degli altri stati. Scriveva Keynes prima del crollo “se lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che vi sia qualche cosa che non va bene”.Purtroppo il gioco ancora continua così come continua a crescere il debito considerato ormai una scommessa. Un debito enorme che coinvolge tutti gli stati del mondo e del quale ognuno di noi dovrebbe almeno domandarsi chi sono i creditori.
Le conseguenze
Ci troviamo ormai all’apice del capitalismo, (molti – come Luciano Vasapollo – parlano di crisi sistemica; altri – come Agostino Spataro – ritengono che la crisi parrebbe denunciare una difficoltà, perfino un declino, non tanto del sistema capitalistico in se stesso quanto dell’egemonia occidentale sul terreno dell’economia e della cultura) perché esso tutto ha condotto ad una vera e propria economicizzazione del reale e del simbolico. Tutto è merce. Si è realizzata una vera e propria aziendalizzazione della società; Lo Stato stesso è considerato un’azienda. La politica non decide più ma ratifica e amministra ciò che il mercato ha deciso, cioè ciò che hanno deciso le oligarchie economiche e finanziarie, entità senza volto che nessuno ha eletto e che decide del destino dei popoli. In questo tragico scenario di globalizzazione e di mercatizzazione, dove l’interesse produce danaro dal danaro, dove l’economia funziona con lo spread, con azioni e CDS (Credit Default Swap, cioè i derivati creditizi) (1) , i partiti, o meglio il centro destra e il centro sinistra in Italia, pienamente d’accordo sul pensiero unico neoliberale, svolgono la funzione, attraverso i media, ( la spinta pubblicitaria operata dal capitale raggiunge l’astronomica cifra, a livello mondiale, di 500 miliardi di dollari all’anno) di far credere ai cittadini che sono ancora essi a decidere. Significativo, da parte loro, il richiamo alla necessità dell’Europa, non quella dei popoli, ma quella dell’Euro che appare oggi, più che mai, non tanto una moneta, quanto uno strumento del capitale mosso dalla logica di far prevalere, sempre di più, l’economico sulla politica, di ridurre al massimo i diritti e la sovranità degli Stati. Si tratta di un sistema che produce debito con effetti socialmente perversi perché se da una parte limita le risorse destinate alle infrastrutture, ai servizi pubblici, al Welfare State, essenziali per l’equilibrio delle attuali società complesse, dall’altra avvantaggia, con guadagni faraonici, i privati determinando disuguaglianze enormi ( un piccolo numero di potenti è più ricco delle popolazioni dell’Africa – 200 multinazionali dominano un quarto delle attività del mondo – la General Motors è più grande della Danimarca – la Ford più grande del Sudafrica – in Italia il 10 per cento della popolazione possiede il 50 per cento della ricchezza nazionale –). Il meccanismo del sistema fa diventare i poveri sempre più poveri e i ricchi incredibilmente ricchi.
Si tratta di un sistema che, riducendo la società a mercato, ha degradato e continua a degradare, portando alle estreme conseguenze, la base ecologica dell’esistenza: i cambiamenti climatici, la distruzione degli ecosistemi e delle risorse, i fenomeni immigratori (milioni di persona si spostano in questi anni in tutto il globo) sono i segni del grande pericolo che l’umanità sta attraversando. Giorgio Ruffolo scrive: “ lasciato a se stesso il capitalismo rischia queste due derive: la distruzione della società umana e delle sue basi di sopravvivenza. Mai un sistema storico di organizzazione sociale è stato così prossimo all’onnipotenza e alla rovina”.
Si tratta di un sistema di violenza fatta non attraverso eserciti ma attraverso l’economia ( gli Stati sono subordinati al mercato ; lo spread, per esempio, è l’arma che usano i mercati per gestire l’esistenza dei popoli e per riaffermare continuamente il loro dominio: il caso della Grecia insegna; il lavoro è precarizzato, sotto pagato e svalutato culturalmente) e attraverso l’ideologia pervasiva che al capitalismo non ci sono alternative: o il neoliberismo, caratterizzato dall’illimitatezza, dalla mercificazione e dal godimento illimitato o l’abisso. Un ideologia che impone l’adattamento (non devi cambiare il mondo ma te stesso), rimuove la dialettica storica e delle idee e le stesse possibilità di esistenze diverse, e che, quindi, assolutizza la realtà in un eterno presente.
Le categorie di questa ideologia sono penetrate nella coscienza degli individui (almeno nella maggior parte) di ogni età, genere e professione distruggendo il soggetto, ormai disgregato, vittima dell’individualismo, del nichilismo e incapace del conflitto necessario a scoprire la propria identità. Lo strumento principe, oggi come non mai, di cui il capitalismo si serve è la manipolazione culturale di massa e il controllo dei mass-midia che gli consente di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di distruggere la verità. Specie attraverso il controllo delle televisioni i patentati economici riescono a distrarre e a distogliere l’attenzione dai veri problemi, di creare artificiosamente problemi e di offrire poi soluzioni utili ai loro interessi, di mantenere il pubblico nell’ignoranza, di orientare l’opinione pubblica. Ma la cosa più vergognosa che il Capitalismo finanziario sta tentando è quella di distruggere le Costituzioni che sono nate dalla lotta al fascismo. La prova, se di prove scritte ci fosse bisogno, è rappresentata da due documenti: il primo è una lettera, inizialmente segreta, inviata il 5 Agosto 2011 al Governo italiano da Jean – Claude Trichet e Mario Draghi e il secondo un documento di sedici pagine redatto dalla Jp Morgan (2). Due documenti che dettano l’agenda politica al Governo italiano ( e non solo) ed evidenziano chiaramente la sua dipendenza dal potere finanziario internazionale.
La più grave conseguenza di tutto ciò è quella di aver dissolto le comunità e di aver fatto della società un aggregato di individui. Lo stesso linguaggio e gli elementi simbolici sono parte di questo processo di economicizzazione: un professore che giudica valuta un alunno sulla base di crediti e debiti; gli scienziati, gli intellettuali e le forze produttive diventano un capitale sociale; nei rapporti sentimentali si usano espressioni come investimenti affettivi, etc.
Un sistema di violenza a distanza che nasconde i carnefici alle vittime e deresponsabilizza perché – si dice – responsabile è il mercato; che provoca alienazione, che è crisi di rapporto con la realtà, il processo cioè per cui l’uomo diventa estraneo a se stesso fino al punto di non riconoscersi; che obbliga a politiche che insistono ideologicamente su termini come modernità e progresso, concetti che – scrive Francesco Festa- “ utilizzati come paradigmi per le pratiche di crescita economica…. e forgiati attraverso meccanismi discorsivi in un atto di violenza del discorso stesso come forma dominante di sapere che cancella i modi alternativi di interpretare e di relazionarsi con la realtà… Arturo Escobar ha svelato l’intelaiatura di tali discorsi – nella fattispecie del discorso dello sviluppo – come un sistema di rappresentazione e di potere che “colonizza l’immaginazione”. Dell’analisi fin qui fatta le TV e i giornali italiani non tanto ne parlano; qualche volta la sottintendono, altre volte la ignorano totalmente (3).
Le conseguenze elencate trovano la loro profonda ragione nella logica interna del sistema. E’ indiscutibile, infatti, che il capitalismo determina per il suo stesso meccanismo di accumulazione continua, per lo sfruttamento delle risorse del mondo e per la ricerca continua di nuovi mercati un processo di “periferizzazione” e di mantenimento delle periferie, funzionali al suo dominio, e che sono vere e proprie “colonie”.
I vari sud del mondo e il meridione italiano, definito, per la sua specificità e la sua storia, da Nicola Zitara una colonia interna, continuano ancora oggi ad essere periferie dipendenti dal capitalismo che esercita il suo dominio, come abbiamo già detto, con l’economia e con l’ideologia, ma anche con guerre come quelle di cui siamo stati e siamo testimoni diretti (4).
La Transizione
Se questa è la situazione, la domanda che dobbiamo porci è: come procedere, nella realtà attuale, nel percorso di liberazione individuale, sociale e politica?
Considerato
-. Che oggi il nostro Meridione ha alle spalle (5) “una storia di lotte anticoloniali di oltre un quarantennio, che ci consente di trarre indicazioni sugli aspetti positivi dell’azione fin qui svolta; ma anche e soprattutto sui limiti da cui essa è segnata e senza il superamento dei quali il movimento non solo non diventa fatto popolare, tensione e azione di popolo, ma avvolgendosi su se stesso si consuma nei veleni del suo fallimento, come la inimicizia e la rissosità tra i diversi movimenti ed i diversi esponenti che li rappresentano clamorosamente dimostrano”;
-. che abbiamo ritrovato la nostra memoria storica ma che sperimentiamo ogni giorno, in una combinazione circolare in cui l’uno alimenta e si alimenta dall’altro, il disastro di carattere antropologico, causato alle nostre anime, il disastro sociale causato con la distruzione del nostro sistema produttivo ed istituzionale e il disastro fisico causato dal dissesto del territorio e dalla sempre più accentuata sua riduzione a discarica dell’onnivoro processo produttivo in atto; -.
-.che il processo di colonizzazione non è storia di ieri ma è processo tuttora pienamente in atto, qui ed ora;
-. che esso è, insieme, processo invasivo e pervasivo articolato e molecolare che occupa tutte le dimensioni e tutti gli spazi materiali e morali della vita delle popolazioni meridionali. E ciò avviene , in una semplificazione meramente indicativa ed occasionale:
- con l’impianto nel territorio – o meglio: nei territori, all’interno del territorio di questa o quella comunità calabrese, lucana, pugliese, campana ecc., che nel loro insieme costituiscono l’impalcatura di quello che, attraverso di esse è ancora un Paese (sottolineiamo questo punto della molteplicità delle comunità, ognuna dotata di proprio territorio, di proprie istituzioni, di propria vita sociale ed economica, di propria identità e soggettività culturale, di propria memoria e di propria storia) di attività industriali esterne ed inquinanti tra cui quella dell’incenerimento dei “rifiuti”;
- con l’utilizzazione dei territori e delle acque di questa o quella comunità come bacino di discariche “ legali” e illegali a servizio delle produzioni esterne;
- con l’utilizzazione dei giacimenti delle materie prime di cui i territori sono dotati attraverso trivellazioni devastanti;
- con la privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua, dalle sementi, dal legno ricavabile dal manto boschivo che riveste le nostre montagne, ridotte a miniere di estrazione;
- con la riduzione della produzione agricola, anche di quella proveniente da culture specializzate quali l’agrume, l’ulivo, la vite, a materia prima asservita all’industria della Coca Cola o della Monsanto;
- con l’invasione dei supermercati e la sterilizzazione delle residue produzioni e delle residue attività commerciali interne;
- con l’occupazione delle strutture della formazione e della informazione ( scuola, stampa, luoghi di formazione della cultura);
- con la occupazione come si è già accennato, da parte delle classi dirigenti meridionali, subordinate fin dall’inizio all’occupante attraverso le strutture del partito meridionale di tutti gli spazi istituzionali, compresi quelli deputati agli stretti limiti ad essi assegnati, -a governare i territori delle comunità locali,
In definitiva
la storia di ieri, oggetto della narrazione svolta dal complessivo movimento meridionale come fin qui si è configurato, lo stato di cose che su tale storia si è costituito e si è insediato nelle nostre vite, deve diventare territorio della storia da costruire oggi e nell’immediato domani, nelle forme nuove che un complessivo e articolato movimento di rinascita meridionale, popolare e democratico, è chiamato a realizzare, non enunciando l’opera ma ponendovi mano; insieme a quanti con cuore sincero vogliono parimenti porvi mano dall’interno del secondo grande esodo di massa che si andava consumando negli anni ’50”.
Tracciata così la direzione del lavoro del movimento aggiungiamo di seguito, per maggiore chiarezza che ogni movimento dovrebbe:
1-. Conoscere il proprio territorio dal punto di vista economico, sociale e politico;
2 -. lavorare nel proprio territorio del quale deve avere una visione complessiva e un progetto capace di portare a sistema le risorse esistenti;
3-. privilegiare la formazione dei suoi componenti perché è la persona la prima risorsa di ogni progetto di crescita umana, sociale e politica; sono le persone, con la loro presenza, le loro idee e le loro attività, che danno senso ad un territorio; e sono anche le persone che spesso devono liberarsi dallo stato di alienazione in cui vivono;
4-. Favorire lavori di gruppo per creare le competenze necessarie alla gestione di un paese o di una città, di un territorio;
5-. Seguire i lavori dell’Amministrazione locale e vigilare che le scelte siano trasparenti e utili alla crescita democratica e civile dei cittadini;
6-. Mantenere rapporti continui con le realtà associative e produttive del territorio.
Ma perché tutto questo è necessario? perché, soprattutto, è indispensabile tenere al centro del nostro interesse e lavoro il territorio?
Per rispondere a questa domanda c’è bisogno di ricordare, sia pure schematicamente, la realtà della globalizzazione, termine usato per la prima volta nel 1983 da un economista americano e che rappresenta un fatto nuovo nella storia caratterizzato da tre fenomeni interconnessi: globalizzazione dei capitali, come abbiamo avuto modo di evidenziare precedentemente, globalizzazione del lavoro (si pensi alla delocalizzazione delle imprese e ai movimenti immigratori) e rivoluzione tecnologica che non riguarda solo internet.
Di fronte a tale realtà non tutte le persone, non tutti i gruppi sociali, non tutti i paesi sono stati nelle condizioni di trarne profitto: nella logica del liberismo selvaggio le disuguaglianze sono triplicate; le imprese, nei paesi più poveri, sono scomparse incapaci a reggere la competizione.
Ci siamo così resi conto che la competizione non riguardava solo le singole imprese ma i territori e la loro organizzazione; ci siamo accorti che un’impresa può avere successo solo in un territorio in cui ci sono persone culturalmente avanzate, se nel territorio ci sono servizi efficienti (scuola, sanità, etc), se la sussidiarietà funziona, se c’è partecipazione democratica e impegno civico. Ci siamo convinti, specie noi del sud, che le politiche stataliste non funzionano così come non funzionano le imprese di tipo capitalistico che guardano solo al profitto individuale dell’imprenditore; che i territori della tradizione italiana,( paese delle cento città), devono avviare un loro autonomo cammino nella logica della sussidiarietà circolare tra enti pubblici ( fiscalità generale) società civile organizzata (imprese sociali,associazionismo, cooperative sociali, etc.) e mondo delle imprese economiche non capitalistiche ( quelle cioè che guardano all’economia come ad un’attività che sia oltre che scelta politica anche etica (per esempio, l’esperienza di S.O.S. Rosarno). Un’ipotesi questa legata all’idea dell’economia come impegno civile, teorizzata per la prima volta dal grande economista e studioso meridionale Antonio Genovesi che ha istituito nel 1753, per la prima volta al mondo, una cattedra di economia civile presso l’università di Napoli, e da qualche tempo ripresa da alcuni studiosi italiani (6) i quali scrivono nel loro libro: “l’economia civile, una tradizione di pensiero e di prassi tipicamente meridiana, quindi anche – ma non solo – italiana, è una grande fonte di ispirazione per un pensiero nuovo, capace di domande profonde”(pag. 13)….l’età dell’oro di questa tradizione è il regno di Napoli nella seconda metà de settecento, grossomodo tra Vico e la rivoluzione partenopea. Una tradizione antica, con alcune radici nella civiltà cittadina medievale, nei suoi monasteri, nelle sue arti e nei suoi mestieri, nella tradizione francescana e domenicana”(pag. 14). Una tradizione inabissata con la restaurazione e il Risorgimento “ma che di tanto in tanto è riemersa dando vita a importanti fenomeni economici e sociali (come quello cooperativo, i distretti industriali, l’esperienza Olivetti, l’economia di comunione)”(pag. 15).
Una tradizione di pensiero che va letta con la consapevolezza che non c’è liberazione individuale che non sia anche sociale e politica e viceversa; con la convinzione, cioè, che il conseguimento dell’autonomia di giudizio e dell’autonomia esistenziale,( che sono certamente obiettivi da raggiungere), non bastano se non si creano comunità consapevoli. E ciò è difficile. Anzi è difficilissimo. Passare, solo per fare un esempio, dagli acquisti a chilometro zero ad un “consumo critico”, che metta in discussione il consumismo come ragione di sopravvivenza del modello capitalistico, non è cosa facile.
NOTE
- In un incontro-dibattito con Pedro Paez su “Le relazioni tra gli Stati nazionali e le imprese multinazionali nell’era della globalizzazione”, Facoltà di Scienze politiche, Università Statale di Milano, 23 ottobre 2014, Vittorio Agnoletto dice: “In merito alla finanza speculativa, si stima che globalmente, ogni giorno, avvengano circa 4 miliardi di transazioni finanziarie, e che l’80% di queste siano di tipo speculativo. Per comprendere cosa siano i derivati finanziari possiamo fare un esempio: oggi sei grandi multinazionali controllano il 50% della produzione dei cereali dei prossimi cinque anni nella Borsa mondiale dei cereali a Chicago. Quei cereali ora non sono sul mercato, in gran parte devono ancora essere coltivati, ma la compagnia multinazionale ha un documento di carta, un certificato, dove risulta che sarà proprietaria di gran parte dei cereali che verranno prodotti. Ci sono delle conseguenze ovvie: la possibilità di costruire dei cartelli monopolistici e di decidere dove e come coltivare – il dove è importante, perché un Paese può passare da un meccanismo di sovranità alimentare, a filiera corta, ossia dove la produzione è legata al consumo, a produzioni monopolistiche finalizzate all’esportazione. Ma c’è un secondo passaggio: il foglio che attesta la produzione futura di cereali ha un valore in sé, da giocare nel meccanismo finanziario come prodotto derivato; la multinazionale lo immette quindi nel mercato speculativo e questo titolo assume autonomia propria, e a un certo punto si slega completamente dalla merce che in teoria rappresenta (che già esiste o che ancora deve essere prodotta). Questo derivato finanziario viene poi spezzettato, diviso in tante piccole parti, mescolato ad altri pezzi di carta, altri derivati, che rappresentano altre merci, e trasformato in quei derivati finanziari tossici di cui nessuno conosce la composizione e che stanno dentro gli interscambi tra le diverse banche – e che sempre più spesso vengono rifilati a ignari cittadini. C’è poi un’ulteriore conseguenza nel caso della Borsa dei cereali di Chicago, perché il prodotto che sottostà ai derivati finanziari è un alimento, un cibo, e quindi è importantissimo.”
- di seguito una parte del documento originale (pag. 13/14) “Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, e varie rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea. Quando i politici tedeschi parlano di processi di riforma decennali, probabilmente hanno in mente sia riforme di tipo economico sia di tipo politico. ………..I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia”.
- Significativo un intervento di Ezio Mauro che su “la Repubblica” del 25 Giugno u.s., a commento della Brexit, scrive: in Granbretagna “l’autocertificazione dell’orgoglio identitario e l’investimento esclusivo sul proprio destino prevalgono dirottando la politica del Paese….. L’insularità storica e spirituale, orgogliosa, dei britannici è certo un elemento specifico decisivo di questa scelta…..L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi. L’ antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque. La radicalizzazione delle scelte senza mediazioni, come quella del referendum, realizza un processo alchemico strepitoso e inedito nel dopoguerra, trasformando immediatamente e definitivamente il risentimento in politica, quella politica in vincolo, quel vincolo in destino generale….. Il risentimento ha le sue ragioni, tutte visibili a occhio nudo. L’impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione tra problemi sovranazionali (la crisi, l’immigrazione, il terrorismo) e le sovranità nazionali a cui chiediamo protezione. Poi la lontananza burocratica dell’Unione Europea, che per-cepiamo come un’ obbligazione disciplinare senza più rintracciare la legittimità di quella disciplina. Quindi il peso ingigantito delle disuguaglianze che diventano esclusioni, la nuova cifra dell’epoca. In più la sensazione tragica che la democrazia e i suoi principi valgano soltanto per i garantiti e non per i perdenti della globalizzazione. Ancora la rottura del vincolo di società che aveva fin qui unito – nelle differenze – il ricco e il povero in una sorta di comunità di destino, mentre il primo può ormai fare a meno del secondo. Infine e soprattutto il sentimento di precarietà diffusa e dominante, la mancanza di sicurezza, la scomparsa del futuro e non solo dell’avvenire, la sensazione di una perdita complessiva ‘di controllo dei fenomeni in corso: di fronte ai quali l’individuo è solo, immerso nel moderno terrore di smarrire il filo di esperienze condivise, vale a dire ciò che gli resta della memoria, quel che sostituisce l’identità……… E’ evidente come tutto questo favorisca un linguaggio di destra, una semplificazione demagogica, una banalizzazione antipolitica, uno sfogo nel politicamente scorretto e una via di fuga nell’estremismo, come mostrano i banchetti imbanditi coi cibi altrui da Le Pen e Salvini.
Ebbene, in questa attenta analisi della situazione di fatto esistente in Europa, Ezio De Mauro non considera le vere cause, legate alla deregulation, al mercato capitalistico e a precisi interessi economici di oligarchie economiche nazionali e internazionali di cui abbiamo detto, ma si limita ad una generica responsabilità politica quando scrive “L’impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione tra problemi sovranazionali (la crisi, l’immigrazione, il terrorismo) e le sovranità nazionali a cui chiediamo protezione.”come se la realtà attuale fosse un destino e non il risultato di precise scelte considerate qui come “impotenza” che, in qualche modo, giustifica le responsabilità e le scelte fatte.
Noam Chomsky, in modo più esplicito e, oserei dire, più onesto in un’intervista apparsa nel gennaio 2014 sul giornale greco “Avgi”, vicino a Syriza) dichiara: la crescita del “settore finanziario fuori controllo” “sta divorando la moderna economia di mercato (cioè l’economia produttiva) dall’interno, proprio come la larva della vespa divora l’ospite in cui è stata deposta”, per mutuare l’espressione suggestiva di Martin Wolf sul Financial Times, forse il corrispondente finanziario più rispettato del mondo di lingua inglese…..“le grandi società e i ricchi si affidano estesamente a quello che l’economista Dean Baker chiama “lo Stato balia conservatore” che essi a propria volta nutrono”.Di fatto i profitti delle grandi banche sono dovuti “quasi interamente all’implicita polizza di assicurazione del governo (“troppo grandi per fallire”). Non parliamo soltanto dei salvataggi ampiamente pubblicizzati, ma dell’accesso al denaro a basso costo, e altre condizioni favorevoli determinate dalla garanzia dello Stato. Lo stesso vale per l’economia produttiva”.
- Scrive il giornalista e politico Agostino Spataro nel suo recente libro “Secolo XXI: Economia del terrore?”: Secondo “Armed Conflict Database – 2015” dell’IISS (International Institute for Strategic Studies), nel 2014, sono stati 42 conflitti armati fra i più sanguinosi e distruttivi che hanno provocato 180.000 vittime (in gran parte civili) e 12.181.000 di rifugiati in diverse regioni del mondo. Da notare che bel 8 di tali conflitti si svolgono nella regione Mena (Libia, Egitto, Israele – Palestina/Gaza, Iraq, Siria, Libano, Yemen), mentre altri 14 in Paesi asiatici e africani di prevalente e o importante tradizione islamica, alcuni detentori di rilevanti risorse petrolifere e di gas (Nigeria, Nagorno- Karabach, Cecenia, ecc).Visto l’alto numero dei conflitti (il 52%) in atto in questa categoria di Paesi), si potrebbe pensare a una sorta di “guerra all’Islam”. La religione c’entra poco o nulla: la guerra è per l’accaparramento degli idrocarburi che, in buona misura, si trovano nel sottosuolo dei territori dell’Islam. Nonostante ciò, la globalizzazione neoliberista procede decisa e spietata, senza tener conto delle perdite in vite umane, delle gravissime conseguenze sociali e ambientali, degli squilibri politici e territoriali prodotti. Impropriamente, la chiamano “crisi”, in realtà si tratta di una colossale sistemazione degli assetti produttivi e di poteri che mira al dominio globale.
- il testo in corsivo che segue è tratto dalla mozione presentata al congresso di Matera del Movimento “Unione Mediterranea” dal gruppo di Vibo Valentia.-
- di Luigino Bruno e Stefano Zamagni: “Economia civile” – edizione il Mulino.- Un libro che possiamo riassumere indicando, come spiega Zamagni, i nodi fondamentali della concezione dell’economia civile:
- L’economia civile è un’alternativa all’economia di mercato diversa da quella capitalistica del neoliberismo americano e dell’economia sociale di derivazione tedesca:
- Secondo l’economia civile i tre soggetti (le istituzioni, le imprese e la società civile organizzata) devono progettare insieme attraverso un sistema di sussidiarietà circolare.
- I fini dell’impresa sono irriducibili al solo profitto, pur non escludendolo;
- Secondo l’economia civile le relazioni di mercato sono rapporti di mutua assistenza tra le persone e per la felicità pubblica;
- L’economia civile premia le virtù civili e danneggia i privilegi acquisiti;
- Contro l’aumento esponenziale delle rendite, l’economia civile destina il sovrappiù alle classi sociali;
- Contro il naturalismo individualista del capitalismo protestante, l’economia civile cattolica promuove istituzioni comunitarie orientate al bene comune;
- La felicità pubblica è basata sulla reciproca gratuità e, nell’età all’accesso libero ai beni comuni, può essere rilevata con indicatori che considerano, non i flussi di reddito, ma i beni relazionali e i patrimoni civili.
Francesco Gallo