6 Aprile 2009: il terremoto raccontato da chi l’ha vissuto, non da chi ci ha riso su
A chi ride e specula su queste tragedie, noi rispondiamo con le sensazioni ed i sentimenti della gente che le ha vissute: questa è la testimonianza di Vincenzo, ragazzo molisano che ha vissuto in prima persona il terremoto del 2009.
“Era il primo anno fuori casa da studente di ingegneria all’Università dell’Aquila, fuori da un paese di 5 mila anime in Molise. Mi trovavo in casa con altri ragazzi, anche loro alla prima esperienza fuori casa, quindi condividevamo le stesse paure e le stesse speranze: insomma cominciava la vita da studente.
Dalla normale routine di lezioni e uscite con gli amici, si passa al primo sciame sismico. Se ne parlava senza darne troppa importanza, nessuno si immaginava quello che sarebbe successo. Il giorno seguente avrei dovuto sostenere il primo esame universitario, erano le dieci di sera ed ecco la prima scossa forte, spavento e nulla più. Ne segue una ancora più forte e lì la paura sale: usciti di casa ci incontriamo con la gente del quartiere e anche con altri studenti con cui chiacchieriamo per alleggerire la tensione, dopo di che gli impegni universitari del giorno dopo convincono tutti a tornare a casa a dormire.
Tempo di chiudere gli occhi e mi risveglio nel caos più totale: ricordo i calcinacci del soffitto addosso, in bocca, tra i capelli e la casa piena di polvere, odore di gas fortissimo e non si vedeva nulla, non c’era elettricità. La prima preoccupazione è stata cercare di capire gli altri coinquilini dove fossero, quindi ho sentito le prime voci, le prime urla da una parte all’altra della casa, ci si chiamava a vicenda. Ho sentito uno dei due che gridava, era vivo. Ma l’altro non rispondeva, non si trovava. Siamo arrivati nella sua stanza e abbiamo trovato il ragazzo immobilizzato dal panico. Non rispondeva nemmeno. Lo aiutiamo ad alzarsi e ci dirigiamo verso la porta, ma questa non si apriva a causa delle macerie e dopo averla forzata ci accorgiamo che l’androne era crollato e capiamo che non si poteva uscire da lì. Raggiungiamo quindi la finestra di camera mia, rompiamo il vetro, perché bloccata e ci accorgiamo che le tegole del tetto cadevano e siamo stati costretti a saltare giù, lanciando letteralmente chi non se la sentiva. Tutti gli effetti personali li abbiamo lasciati in casa, in quel momento si trattava di salvarti la vita e volevi solo andare via.
Lì realizziamo ciò che era successo: gente sanguinante, senza vestiti o solo in mutande, nonostante il freddo e capiamo che la situazione era seria. Ci raggruppiamo nel parcheggio e non sapevamo cosa fare: volevamo sicuramente aiutare la gente, sapevamo che dovevamo farlo, ma come? Mentre eravamo seduti sull’asfalto sentivamo la terra che continuava a tremare sotto i nostri piedi. Nel panico generale decidiamo che alle prime luci dell’alba saremmo andati verso il centro, per trovare i nostri amici e capire se erano riusciti a salvarsi. Non potevamo avvertire casa, i telefoni non funzionavano e quindi decidiamo di stare insieme e alla prima occasione chiamare un genitore che potesse spargere la voce nei nostri paesi di provenienza ed avvertire tutte le altre famiglie.
Ci dirigiamo verso il centro dove si sentiva il caos più totale: più si avanzava e più capivamo il disastro. Pezzi di case in mezzo alla strada, sirene, feriti. Aiutiamo i mezzi di soccorso a spostare i massi, perché il primo soccorso l’hanno dato i cittadini. C’erano le squadre di emergenza ma all’inizio eravamo noi del posto ad aiutare. Tutti hanno dato una mano una volta capito la gravità della situazione. Ci veniva detto di non avventurarci da soli in case traballanti, non erano messe in sicurezza, infatti alcune case crollavano davanti a noi. Nella strada per raggiungere un nostro amico, un’altra scossa ha rotto i vetri di un intero palazzo e per la paura ci siamo rifugiati sotto alcune macchine parcheggiate. La gente si lamentava per i dolori, l’aria era irrespirabile, c’era gente in bilico sui palazzi pericolanti che chiedeva aiuto: era difficile anche provare a pensare di dare una mano.
Ci siamo riuniti con tutti i ragazzi del mio paese e dopo un po’ di tempo abbiamo contattato qualche genitore, non ricordo chi e gli abbiamo detto i nomi di chi era presente e abbiamo chiesto di spargere la voce alle altre famiglie e di farci venire a prendere. Siamo usciti a piedi dalla città, arriviamo sulla statale buia in modo da poter essere raggiunti più facilmente dalle auto in arrivo. Io ero totalmente bianco di polvere, nei capelli, in bocca. Una volta rientrato in paese, i vicini non capivano cosa mi fosse successo perché anche lì si era sentito il sisma ma non pensavano che in Abruzzo avesse fatto così tanti danni.
Riprendersi del tutto è stato difficile: la prima notte non ho dormito, solo chiudere gli occhi era traumatico: ad ogni rumore mi svegliavo impaurito e questo è durato per molte settimane. Tra le vittime c’erano anche i ragazzi della casa studente, che conoscevamo e che vedevamo spesso all’università. Io avevo ottenuto proprio quella casa e non ci sono andato perché era il primo anno di università e ho preferito sistemarmi in una casa in affitto. Ci potevo essere io lì in mezzo. Dopo circa un mese siamo rientrati all’Aquila con i miei genitori per riprendere gli effetti personali nel palazzo che per fortuna era stato sorvegliato dallo sciacallaggio. La sensazione di rientrare è stata bruttissima, abbiamo ripreso tutto velocemente, ciò che si poteva prendere: barattoli, bicchieri, piatti, mobili, muri, era tutto distrutto. Luoghi in cui abbiamo passato momenti bellissimi, con amici, colleghi, parenti. Tutto distrutto. Le sensazioni erano contrastanti ma una su tutte era di non voler tornare a vivere in Abruzzo. Infatti dopo qualche mese i professori ci hanno contattato per capire come continuare il percorso universitario o almeno finire l’anno accademico. Ci hanno suddivisi in 3 paesi diversi: Atessa, Pineto e Avezzano. Si era un po’ a disagio, lezioni a teatro, senza banchi, il professore sul palco: nessuno si lamentava anzi, eravamo felici di stare con tutta quella gente che avremmo potuto non rivedere più.
Dopo quell’esperienza mi spostai a Siena per proseguire gli studi. Ogni 6 aprile le immagini sono ovviamente vivide nella memoria, è un giorno particolare e lo è diventato anche il mio compleanno qualche giorno prima.
Di cosa accadde successivamente in Abruzzo, quindi ristrutturazioni, case nuove e tutto ciò che c’è intorno, non sono molto informato, ho qualche notizia di chi è rimasto e mi racconta. Ho provato rabbia ad ascoltare le intercettazioni in cui si rideva e si parlava del guadagno. Ho provato rabbia quando gli aquilani non hanno visto nemmeno un euro. Mi è venuto in mente quando ero ricoperto di calcinacci e ho pensato che se si fossero trovati loro in quella situazione non avrebbero riso anzi…
La sensazione di tutti è che L’Aquila fosse una città dalla cultura millenaria, la sua vita si concentrava nel centro storico, era una città viva, universitaria e piena di gente, ora che si è spostata verso la periferia e per colpa di chi ha speculato su tutta questa situazione, non sarà più la stessa cosa”.