La trivella è un simbolo, ma in gioco c’è molto di più
Di Roberto Cantoni
Ricordate i tempi del referendum sulla fecondazione assistita del 2005? La risonanza enorme che quella consultazione ebbe sugli organi di stampa, in televisione, con la Chiesa cattolica in prima linea a catechizzare i cittadini dello Stato italiano su come votare (anzi, su come non votare)? Ecco, dimenticatelo. Perché invece, del referendum ‘sulle trivelle’, se non fosse per internet a parlarne, non se ne parlerebbe per nulla. Certo, le questioni mediche sono sicuramente più attraenti per i media rispetto alla protezione dell’ambiente, ma si ha l’impressione, fortissima, che di questo referendum si parli poco perché si voglia parlarne poco. Tipico esempio di disinteresse interessato.
Internet, dicevo, è un’importante eccezione. Nelle ultime settimane, in effetti, il dibattito tra i sostenitori del Sì e del No sembra essersi improvvisamente animato. Il confronto è iniziato a inizio marzo, quando l’associazione ambientalista Greenpeace ha reso noti i dati sul monitoraggio effettuato dal Ministero dell’Ambiente per conto dell’Eni: dati che, nelle acque in prossimità di piattaforme petrolifere, rivelavano un inquinamento superiore ai limiti consentiti. Qualche giorno dopo, cominciava a circolare su Facebook un ‘contributo’ di un tecnico del settore petrolifero: scopo dell’intervento, mettere in evidenza le potenziali conseguenze negative per l’economia e la forza-lavoro italiana di un’eventuale vittoria del Sì, e ridimensionare le conseguenze ambientali. Passa qualche giorno, e Andrea Boraschi, responsabile della campagna energia e clima di Greenpeace Italia, risponde con un suo intervento, in cui smentisce praticamente tutte le affermazioni contenute nel ‘contributo’ tecnico. Ulteriore smentita viene in seguito fornita, grafici e cifre alla mano, da Dario Faccini dell’associazione ASPO Italia. È quindi la volta del giornalista Marco Cattaneo che, dal blog dell’Espresso, cerca di far leva su un supposto pietismo italiano nei confronti del ‘povero Mozambico’, al largo delle cui coste l’Eni, secondo Cattaneo, sarebbe costretta a trivellare in caso di vittoria del Sì al referendum, devastando un paradiso naturale. Allega foto del paradiso naturale.
Ultimo ma non per importanza, arriva il fuoco di fila del sito web formiche.net, che ospita una serie di articoli contro il Sì e per l’astensione. Ogni parte sviscera i propri dati tecnici ed economici, dichiarandoli scientificamente più validi di quelli della controparte. Ma proprio per l’onnipresenza di questi dati nel dibattito, non mi ci soffermo. Trovo invece interessante l’articolo di Dario Falcini (quasi omonimo del membro di ASPO Italia), apparso su Wired.it il 17 marzo: articolo che mette in evidenza due punti importanti.
Il primo punto è che il referendum riguarda soltanto le attività in opera entro le 12 miglia nautiche (22,2 km) dalla costa, mentre eventuali nuove attività sono già vietate dal decreto legislativo 152, e il referendum non ha alcun effetto sulle attività d’estrazione oltre le 12 miglia. Il referendum agirebbe quindi su 21 concessioni esistenti. Il secondo punto, che dovrebbe interessarci ancora di più in quanto MO!, è che, di queste 21 concessioni, ben 17, cioè l’81%, si trovano in acque di competenza di Regioni del Sud (precisamente, sette in Sicilia, cinque in Calabria, tre in Puglia e due in Basilicata), mentre quattro si trovano al Centro-Nord. Questo secondo dato conferisce al referendum un’ulteriore valenza, politica, che va ad aggiungersi a quelle energetica, ambientale e legislativa. Una valenza politica su cui conviene soffermarsi un istante.
Il referendum è interpretabile infatti come una volontà ferma da parte delle Regioni meridionali – la proposta è infatti inizialmente partita dal governatore piddino della Puglia, Michele Emiliano, per poi estendersi anche al Nord – di opporsi, nello spirito dell’autonomia regionale, a una decisione imposta dall’alto, che gioverebbe in primo luogo agli oligopoli industriali e alle casse dello stato centrale, riversando le eventuali conseguenze ambientali su zone in condizioni socio-economiche e ambientali già deboli o critiche (non occorre andare troppo indietro nel tempo per ricordare la crisi dei rifiuti in Campania, o l’inquinamento causato ancora oggi dagli stabilimenti petrolchimici di Taranto e Gela).
Ma la questione, in realtà, è ancora più ampia. In un’epoca in cui l’Unione Europea si è schierata fermamente per la decarbonizzazione del consumo energetico – cioè, per un uso sempre minore di energie fossili – e per le energie rinnovabili, il discorso del gas come energia ‘ponte’, che si fa da più parti, ha poco senso. In primo luogo, perché è controversa l’affermazione secondo cui il gas nel lungo termine emetterebbe meno gas a effetto serra di petrolio e carbone. In secondo luogo, perché continuare a ripetere ad nauseam che non è ancora tempo per le rinnovabili è un discorso funzionale unicamente agli interessi delle compagnie petrolifere e gasifere, e che in ultima istanza ritarda lo sviluppo delle stesse rinnovabili. Dal punto di vista globale, infine, non solo non avrebbe senso ma sarebbe addirittura altamente dannoso che, nel momento in cui le varie Conference of Parties (qui per saperne di più) e il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico lanciano l’allarme sulla necessità di dare un forte giro di vite alle emissioni di gas a effetto serra, si cercasse di prolungare l’estrazione di gas fino a esaurimento dei giacimenti.
In definitiva, quindi, la questione delle trivelle rappresenta molto di più del contenuto del quesito referendario. È una questione di autonomie regionali, di giustizia ambientale e di conformità procedurale ai regolamenti europei. Soprattutto, è una questione di modelli di sviluppo, e di modelli di futuro. Che tipo di futuro vogliono le Regioni del Sud? Che tipo di sviluppo? Industriale? Turistico? Agricolo? La decisione dovrebbe spettare a loro, e unicamente a loro. Il governo centrale dovrebbe accettare il fatto che nel 2016 non si può continuare a ragionare e ad agire secondo logiche del 1950. Non lo farà mai di sua spontanea volontà: ed è per questo che è importante dare un segnare forte al governo, e votare Sì.
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ASTENSIONE per lanciare per l’ennesima volta un messaggio inascoltato dai referendari: non usate il referendum per lanciare messaggi. Lo volete capire si o no?!?!?! E avete anche la faccia tosta di dire che i politici non ascoltano i messaggi!!
Non ho capito molto del commento. Se lei ritiene che sia un problema usare il referendum per lanciare un messaggio, non sono d’accordo. Ognuno interpreta il valore del referendum secondo le proprie idee. E ognuno è libero di usare lo strumento referendario come meglio crede.