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No meridionalismo? no sud

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di Massimo Mastruzzo
Portavoce Nazionale di MO Unione Mediterranea.

Solo chi matura una coscienza meridionalista può contribuire alla nostra causa. Il resto pur, essendo battaglie condivisibili, non possono essere declinate al concetto di meridionalismo.

Tra un mese dovremo scegliere  a quale partito o movimento dare il nostro voto, ho sia amici che “tendono” a sinistra, sia amici che “bazzicano” a destra o che “credono” nei cinquestelle, tutti loro hanno le loro convinzioni e su alcuni punti ognuno di loro ha anche argomenti  condivisibili, ma nessuno verte verso la più grande questione italiana irrisolta: la Questione Meridionale.
Non è retorica, l’Italia ha nel suo sud le Regioni più povere d’Europa e seppur ogni nazione abbia al suo interno territori più o meno ricchi la disomogeneità territoriale presente in Italia non ha eguali in Europa.
Flax Tax, espulsioni, altri 80 euro, università gratis, reddito di cittadinanza, creeranno più occupazione nel Mezzogiorno o quanto meno renderanno almeno equa la disoccupazione?
Miglioreranno le infrastrutture ferroviarie autostradali?
Renderanno degna di uno Stato civile la sanità anche nel sud ?
No, nessuna delle proposte, condivisibili o meno, presente nei programmi dei partiti nazionali, sembra andare incontro alle esigenze di un meridione a rischio desertificazione umana e industriale; i bus che da sud a nord trasportano gli emigrati “Terroni” non subiranno improvvisi cali di clientela; il porto di Gioia Tauro, il più grande porto in Italia per il throughput container, il 9° in Europa ed il 6° nel Mediterraneo, continuerà a non avere le infrastrutture di terra che ne garantirebbero un futuro certo; Matera continuerà ad essere un capoluogo di provincia senza autostrada e senza ferrovia.
L’ elastico della disomogeneità tra il nord e il sud non si accorcerà ed il rischio che si spezzi diventa sempre più concreto.
Solo chi matura una coscienza meridionalista può contribuire alla causa del sud. Il resto saranno anche battaglie condivisibili ma non possono essere declinate al concetto di quel meridionalismo necessario, se non fondamentale, per le necessità del Mezzogiorno.

 

Lettera agli elettori del sud

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di Massimo Mastruzzo
Portavoce Nazionale di MO Unione Mediterranea

Questa volta non risponderò alle provocazioni del quotidiano Libero, questa volta ne prenderò spunto per scrivere una lettera agli elettori del sud che votano i partiti nazionali.
Vedete, cari elettori del Sud, questa prima pagina di Libero, pur nella sua solita ed evidente stupida provocazione, nasconde nemmeno tanto velatamente, il reale pensiero del pregiudizio nazionale avallato dai partiti nazionali… tutti.
In questo caso specifico, essendo Libero un quotidiano che “tende” a destra, rappresenta il pensiero della destra nazionale: il trio BE.SA.ME (Berlusconi-Salvini-Meloni) che si candida a salvare il Sud. Ancora ? Ma quante cavolo di volte dobbiamo sorbirci questi salvatori che giungono a noi da terre lontane.

Ma proviamo, cari elettori del Sud, a fare un ragionamento: vi sembra normale che in una nazione unita, con una Costituzione che
All’articolo 3 recita:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione , di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Si senta la necessità di nominare un Ministro per il Mezzogiorno?
Non sarà che, come il ricco che lascia la questua al povero, si senta il bisogno di farlo con quella parte di territorio che NON ha pari dignità sociale e, come ci spiega Marco Esposito che ha già dato una risposta tecnica all’articolo di Libero:” la “rapina” di cui ci saremmo macchiati noi meridionali?” Non è altro ” Che dal 2018 gli stanziamenti dei ministeri dovranno seguire la regola di 66% al Centronord e di 34% al Sud. Perché queste percentuali? Semplice: gli abitanti risiedono per il 66% al Centronord e per il 34% al Sud.

Ma per Feltri, per i suoi lettori e anche per tanti politici del Nord e del Sud che sono leghisti senza ammetterlo, è orripilante che i meridionali siano trattati in modo uguale.

La regola, che scatta il primo gennaio 2018, non vale per gli investimenti delle Ferrovie, delle Poste, delle aziende pubbliche e per quelli degli enti locali.

E’ solo un parziale riequilibrio, insomma. Ma per chi è abituato a prendere la torta tutta per sé appare già una rapina.”

E quando (quando?) si comprenderà che bisogna annullare la disomogeneità nazionale, unica in Europa, per quanto riguarda le infrastrutture non comprese in questa regola che scatterà nel 2018, pensiamo solo alla rete ferroviaria, di cosa ci accuseranno?

Eppure per l’alta velocità, fatta nel nord, hanno preso volentieri anche i contributi dei contribuenti del Sud.

La cosa strana è che ci accusano da sempre (dove sempre vuol dire da dopo l’unità d’Italia) di rubare, ma nonostante siano stati depredati in tutti questi anni si sono comunque arricchiti, loro non certo noi. Quando la strana fantasia supera la concreta realtà succede che:

  • Il sud ruba ed altrove fanno il Mose
  • Il sud spreca e da un’altra parte fanno l’Expo
  • Il sud sperpera ed in altri luoghi fanno la TAV

Sarà forse che siamo dei ladroni incalliti ma non abbiamo voglia lavorare? Così almeno si dice a certe latitudini padane.

Come spiegare in questo caso che su 10 milioni di abitanti presenti in Lombardia, circa la metà sono del sud? Stai a vedere che si sono volontariamente trasferite per godere del salubre clima padano, non certo per lavorare contribuendo a creare quel surplus di reddito che Maroni e Zaia oggi rivendicano di voler trattenere.
Miei cari elettori del Sud dei partiti nazionali, vi potrei anche annoiare dicendovi che anche voi contribuite a quella ricchezza del nord che poi vi volete rubare, osservate per un giorno tutte le vostre spese, dal supermercato, all’abbigliamento, dalle bollette, all’automobile, osservate tutti questi prodotti e guardate dove inviate i vostri soldi, quelli che poi vi ruberete.

Miei cari elettori meridionali, dati Svimez ci ricordano che il sud sta demograficamente morendo e questi continuano con la solita solfa del sud che ruba.
Lasciate perdere i partiti nazionali, non ci daranno mai il dovuto, ne il tolto 156 anni fa.
Bisogna far emergere realtà meridionaliste come Unione Mediterranea, che puntino esclusivamente al riscatto del nostro territorio.

Crollo di studenti nel Mezzogiorno: inizia il percorso di desertificazione umana?

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L’allarme già lanciato dallo Svimez sul rischio desertificazione umana per il Mezzogiorno, comincia purtroppo a rivelarsi nella sua drammatica concretezza.

È la rivista “Tuttoscuola” a rilanciare i numeri, e a riproporre dunque il fenomeno, riprendendo il focus del ministero dell’Istruzione “Anticipazioni sui principali dati della scuola statale” relativo al 2017-18.
Secondo i dati elaborati, rilevando i decrementi dei singoli settori in ogni regione, il crollo è soprattutto in alcune regioni del Sud: Campania e Sicilia in testa. Tutta colpa del calo demografico che svuota le aule soprattutto alla materna (meno 29.181 bimbi rispetto al 2016-17) e alla primaria (meno 34.874 alunni)

IL CALO ALLA SCUOLA DELL’INFANZIA E PRIMARIA che si è verificato soprattutto in Calabria (-4.820) e in Sicilia (-3.333), altro non è che il cerino che dà fuoco alla miccia dell’allarme lanciato dallo Svimez , il quale ha stilato un rapporto basato sui dati Miur per gli anni scolastici 2016-17 e 2017-18. Anche alla scuola primaria, la Sicilia vede un decremento elevato: meno 6.226 alunni; seguono Campania (meno 6.037), Puglia (meno 3.439), Calabria (meno 2.248). Nelle scuole medie – spiega Tuttoscuola – al netto delle compensazioni per aumento di iscritti, il calo complessivo di alunni ha superato le 8 mila unità, con Campania e Sicilia che, ancora una volta, sono andate in rosso: 2.713 alunni in meno la prima, 2.391 in meno la seconda. Negli istituti superiori il record negativo si è registrato in Puglia (-2.768), seguita dalla Calabria (-1.651).

Il recente stanziamento di 209 milioni  per la fascia d’età zero-sei anni, nelle modalità in cui è stato ripartito, meno dove il meno è già un marchio di fabbrica con monopolio di Stato, rischia di rappresentare il colpo a quanto già inflitto dalla Commissione Bicamerale sul federalismo fiscale che ha approvato le tabelle che assegnano zero agli asili nido  nei Comuni del Mezzogiorno.

La cura richiesta per un paziente oramai in rianimazione, il Mezzogiorno, non potrà mai arrivare da chi è stato la causa dei suoi mali. La malattia si chiama Questione Meridionale e i virus si chiamano partiti nazionali, di destra e di sinistra.

Massimo Mastruzzo
Portavoce nazionale di MO Unione Mediterranea

Scuola infanzia, il 74% dei fondi assegnato al nord

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di Massimo Mastruzzo
Portavoce nazionale MO Unione Mediterranea

Vito De Filippo (Sant’Arcangelo PZ Basilicata, 27 agosto 1963) presidente della Regione Basilicata dal 2005 al 2013, Sottosegretario di stato alla salute nel Governo Renzi dal 28 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016 e dell’istruzione, dell’università e della ricerca nel Governo Gentiloni dal 29 dicembre 2016.

Mi interessa poco l’appartenenza politica di questo sottosegretario (La Margherita fino al 2007, Partito Democratico dal 2007), ritenengo responsabili in egual misura, per le condizioni in cui versa il Mezzogiorno, tutti i partiti nazionali, tuttavia vado sempre curiosamente alla ricerca delle origini di chi rappresenta un determinato territorio per vedere come questi ne affronta e ne difende gli interessi.

Valeria Fedeli (Treviglio BG Lombardia, 29 luglio 1949) è una sindacalista e politica italiana, ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca dal 12 dicembre 2016 nel Governo Gentiloni.
La ministra Valeria Fedeli, per potenziare il sistema d’istruzione per l’infanzia ha ripartito 209 milioni di euro destinati a migliorare i servizi offerti per 3 milioni di bambini che non hanno ancora compiuto sei anni.

Il riparto proposto dal ministero dell’Istruzione è stato approvato dagli enti locali nella Conferenza unificata del 2 novembre scorso, riunione nella quale le istituzioni dei territori meridionali non hanno brillato per capacità di difendere gli interessi dei cittadini che vanno a rappresentare.
Per il governo era presente il sottosegretario all’Istruzione Vito De Filippo, lucano.
Per il sottosegretario della Basilicata, «stiamo costruendo insieme, ciascuno per la propria parte, percorsi di crescita eguale su tutto il territorio, a partire dall’infanzia».
Per la ministra della Lombardia, che parla di standard uniformi su tutto il territorio nazionale:” : «Con questo Piano – dichiara la Ministra Valeria Fedeli – stiamo garantendo alle bambine e ai bambini pari opportunità di educazione, istruzione, cura, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche e culturali».
Ma veniamo al dunque anche per capire dovo voglio arrivare con questa premessa «territoriale»:
La fascia di età 3-6 anni non ha forti squilibri territoriali e raggiunge una copertura del 90%. Inoltre la scuola materna statale è più presente al Sud che al Nord, visto che il 45% degli iscritti si trova nel Mezzogiorno. Quindi considerare solo l’età delle materne e soltanto i non iscritti alle scuole dell’infanzia statali non porta affatto un riequilibrio territoriale e, in ogni caso, non in favore del Mezzogiorno.

In pratica per la perequazione si è utilizzato il solo parametro dove il Sud ha risultati più consistenti del Nord: le materne statali. Ignorando tutti gli altri.

Cosa ha fatto il ministero? Come principale criterio (peso del 50%) ha considerato gli iscritti agli asili al 31 dicembre 2015, iscritti che ovviamente sono più al Nord. Per il secondo parametro (peso del 40%) ha contato i bambini reali. Come criterio marginale (10%) ha considerato la popolazione di età 3-6 anni non iscritta alla scuola dell’infanzia statale «in modo da garantire un accesso maggiore».


Il risultato, soddisfacente (giustamente) per la ministra lombarda ma avallato (incredibilmente) anche dal sottosegretario della Basilicata, porta nello stesso momento in cui assegna 90 euro per ogni bambino in Emilia Romagna ad assegnarne 43 per uno in in Campania.

Il doppio, un bambino in Emilia romagna vale il doppio del suo coetane in campania, alla faccia degli “standard uniformi su tutto il territorio nazionale”.

Il Centronord ha fatto così la parte del leone con il 74,23% delle risorse assegnate, sebbene i bambini residenti in quell’area siano il 65,52%. Il Mezzogiorno si è dovuto accontentare del 25,77% delle risorse nonostante la quota di bambini sia del 34,48%.

La Campania è il territorio più penalizzato visto che è seconda per numero di piccoli e appena settima per risorse assegnate.
Una presa in giro che viola la legge. Il decreto 65/2017 infatti impone, all’articolo 4, di avviare un progressivo riequilibrio territoriale per l’altra fascia di età, quella da 0 a 3 anni, dove la carenza di asili nido nel Mezzogiorno è fortissima.

Inoltre, all’articolo 12, si indica nei criteri di riparto la «capacità massima fiscale» dei territori. Il principio cui si ispira la legge è chiaro: non è logico assegnare risorse aggiuntive a territori che hanno già cospicue entrate fiscali proprie, mentre le risorse vanno concentrate nelle aree dove il gettito fiscale, anche alzando le aliquote al massimo, non è sufficiente a pagare i servizi per l’infanzia.
Un principio di riequilibrio che avrebbe favorito le famiglie del Mezzogiorno, ma che è sparito del tutto nei conteggi del Miur.
Un’offesa ai diritti dell’infanzia, un calcio ai principi d’uguaglianza e una violazione neppure ben nascosta della legge , una infame operazione già usata dalla Commissione Bicamerale sul federalismo fiscale che ha approvato le tabelle che assegnano zero agli asili nido nei Comuni del Mezzogiorno.
Se si fossero conteggiati 90 euro per i maschi e 43 euro per le femmine ci sarebbe stata una clamorosa violazione delle pari opportunità; altrettanto grave però è ripartire 90 euro agli emiliani e 43 euro ai campani, i quali già partono in posizione svantaggiata.
Fino a prova contraria, assegnare più risorse dove ci sono più asili allarga le differenze, non le riduce. Farlo ai danni di bambine e bambini di 0-6 anni è iniquo, illegale e immorale.
Veder i figli spuri di questa nazione continuare ad essere marchiati con il segno meno davanti ad ogni diritto, farlo anche con i bambini così da istruirli fin da piccoli alla minorità, mentre i rappresentanti del popolo del Mezzogiorno approvano quando non plaudono, fa comprendere la necessità di creare una forza rappresentativa indipendente dai partiti nazinali ma soprattutto dagli ascari locali, pedine fondamentali per le strategie utili al «bene nazionale»


Fonte: Articolo di Marco Esposito cui va il nostro ringraziamento per il suo lavoro di divulgazione

 


Attualizzare la questione meridionale – Uno sforzo unitario per evitare la deriva astoricizzante

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di Massimo Mastruzzo

25 settembre 2017

Prendiamo atto di due diagnosi: l’intervento di Angelo Sposato, segretario regionale CGIL della Calabria, ai microfoni di Italia parla[1] e l’articolo di Paolo Macry sul Corriere del mezzogiorno. Queste disamine ripropongono la solita triste prognosi: la Calabria sembra essere un  territorio dimenticato che solo i rapporti della Svimez  e dell’Istat riportano brevemente all’attenzione dei mass media. Attenzione fugace, distratta. Un vago lamento che dirige meccanicamente lo sguardo sull’ammalato cronico. Una crudele cronicità che dura da 156, con buona pace dei teorici dell’unità salvifica.

Una regione dimenticata, un territorio in abbandono, dove mancano le risorse anche per gli interventi ordinari e nessuno più investe. È questa la Calabria descritta da Sposato: “Quella che manca è una visione generale delle cose da fare – ha spiegato il dirigente sindacale –. Anche la recente iniziativa ‘Cantiere Calabria’, che ha visto la partecipazione di quattro ministri all’università di Cosenza rischia di restare sulla carta, perché nessuno dei rappresentanti dello Stato ha preso un impegno concreto sui fondi ordinari per la nostra Regione. Noi abbiamo chiesto un cambiamento di strategia a livello nazionale, con un riequilibrio nella redistribuzione delle risorse che il governo destina quasi esclusivamente alle regioni del Centro-Nord ”.

Sorge il dubbio che Sposato sabbia virato verso il Meridionalismo. Affermazioni del genere lo candidano fortemente ad una tessera onoraria in qualsiasi realtà a noi affine.

Il dubbio si fa quasi certezza, quando il sindacalista rilancia con : “Nel pubblico impiego in Calabria la situazione è ancora più emergenziale, perché il calo demografico dovuto allo spopolamento del territorio con la fuga dei giovani mette in forse la stessa sopravvivenza di molte pubbliche amministrazioni. Un caso limite è quello di Vibo Valentia, il cui comune è al collasso, non paga i dipendenti da mesi e vi sono 5.000 Lsu-Lpu da stabilizzare e contrattualizzare. Per non parlare di vertenze come Call and call di Locri, che purtroppo sono l’emblema delle politiche pubbliche fatte di bonus, decontribuzioni e incentivi che si sono dimostrate fallimentari nel corso del tempo”, e ancora : “Attualmente, è  come se le grandi reti si fermassero ai confini della nostra regione: penso alla statale 106 jonica, la cui ristrutturazione è ferma ai confini con la Basilicata; all’Alta velocità ferroviaria, che non va oltre Salerno; al porto di Gioia Tauro, che rischia di rimanere uno scatolone vuoto, se non s’investe sull’area retroportuale. Oltretutto, con la sparizione delle province, abbiamo anche problemi di collegamenti interni, perché la manutenzione delle strade ordinarie non la fa più nessuno. Per non parlare della messa in sicurezza del territorio, che si ripropone ogni volta che piove o c’è il mare mosso”.

Naturalmente le ragioni di questa “sbandata” sui nostri temi può essere frutto di ragioni più ovvie. Purtroppo. Non serve il polso da meridionalista per rimanere sgomenti difronte alle cifre fornite dalla Svimez e relative al rischio desertificazoine demografica del meridione.

Paolo Macry riporta, nel suo articolo, il giudizio disincantato di Angelo Panebianco, secondo il quale è ormai illusorio pensare ad un superamento del gap tra Nord e Sud, e che ha ormai riaperto il dibattito sulla «quistione». impossibile bollare il tema come “déjà-vu“,a nche a giudicare dal dibattito aperto sulle pagine del corriere.

Era prevedibile, per esempio, rispondendo a Panebianco due economisti di differente ascendenza scientifica e politica come Adriano Giannola e Massimo Lo Cicero esprimessero diagnosi piuttosto antitetiche. Il primo, convinto che il Nord non vada da nessuna parte senza il Sud. Il secondo, più pessimista, che il Paese sia già meridionalizzato. Ma è invece significativo che, per il resto, i due dicano cose simili, esprimendo giudizi molto critici sulle regioni meridionali e sul loro ceto politico e proponendo, in sostanza, la stessa ricetta: neocentralismo.

Dibattito che potrebbe anche essere interessante, se non fosse che i problemi irrisolti del Mezzogiorno, prima ancora che dall’alternativa tra centralismo e decentramento, sono oramai sintetizzabili nei  dati che illustrano una disomogeneità nazionale unica nel panorama europeo.

Centralismo o regionalismo o federalismo che dir si voglia, dibattuti come argomenti nazionali, sembra,  per non voler affrontare il vero storico problema di una irrisolta Questione Meridionale denunciata a cominciare dall’immediato post unitario, una crescente iniquità in ogni campo, dall’economico  al sociale all’infrastrutturale, a discapito della popolazione meridionale. E non sto ad elencare personoaggi che da Francesco Saverio Nitti ad Antonio Gramsci  fino al più recente Nicola Zitara hanno denunciato le modalità in cui è avvenuta l’unificazione. E’ inutile continuare a discutere di un problema contemporaneo se si fatica a coglierne i nessi causali. Si continua a discutere sulle basi di una sociologia “non-generata”, come se l’oggetto dello studio non avesse un’origine e la situazione attuale fosse da considerarsi innata. Astoricizzare il concetto per giustificare la mitologia del (mica tanto) buon selvaggio terrone e colpevole.

Quale la soluzione, allora?

Al momento la nascita di nuove realtà meridionaliste sembra essere più una reazione all’indignazione. Vedere morire il proprio territorio ed emigrare i propri cari, sta generando via via un moto di rivalsa. Ma per ora non possiamo dire di trovarci difronte ad una vera e propria azione articolata che punti ad affrontare la Questione. Nella stragrande maggioranza dei casi questa reazione è puramente d’opinione, e non ne consegue alcun impegno politico. Nei casi in cui questo impegno viene “quagliato” ci si imbatte nel sistema di rivoli ideologici che frastagliano il meridionalismo: si va dagli indipendestisti, agli autonomisti, ai macroregionalisti e così via.

MO – Unione Mediterranea nasce per cercare di riunire queste  realtà che nella loro apparente diversità hanno un minimo comune denominatore: salvare il proprio territorio dalla ineluttabile indistricabilità della Questione Meridionale. Il nostro compito, nel proporre soluzioni, dovrà tenere conto dello scopo, e creare aggregazione. L’unione fa la forza, e l’apparente banalità di questa locuzione non può nasconderne l’efficacia.


[1]. Intervento di Angelo Sposato su RadioArticolo1

La nostra causa – Tredici buone ragioni per abbracciare la nostra terra

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di Antonio Lombardi

1. Perché ci sei nata/o: è la tua terra, il tuo popolo. Oppure perché semplicemente ci abiti, anche se sei nata/o lontano; oppure perché, pur non essendoci nata/o né abitandoci, sei una persona che ha il senso della giustizia e della solidarietà e la sensibilità di un autentico operatore di pace.

2. Perché sei stanca/o delle frasi razziste, degli auguri di morte e degli insulti snocciolati nelle conversazioni quotidiane o urlati in coro da migliaia di persone, nell’indifferenza dello Stato.

3. Perché hai scoperto che la lezioncina di storia che ti hanno trasmesso, dalla scuola elementare in avanti, è una bugia infame, un veleno ideologico per farti onorare una bandiera che ha sterminato i tuoi avi e farti abbracciare come eroi i massacratori della tua gente.

4. Perché sei stanca/o di discriminazioni macroscopiche, che ti condannano ad avere strade peggiori, ferrovie obsolete, porti desertificati, zone senza aeroporti, ospedali meno attrezzati, scuole ed università penalizzate, beni culturali in misura maggiore ma in considerazione minore, terre e mari abusati.

5. Perché non puoi affezionarti ad un Paese nato e tenuto incollato con l’imposizione, che ti considera carne da macello da spedire in guerra o prodotto di scarto da costringere all’emigrazione.

6. Perché sei indignata/o da un sistema politico ed economico, costruito ad arte, che prevede un Nord che comanda e infierisce ed un Sud che obbedisce e subisce.

7. Perché hai capito che i parlamentari e i governanti che mandi a Roma da decenni, ti dimenticano rapidamente e collaborano, silenti e fattivi, agli ordini che ricevono dai loro veri padroni.

8. Perché ne hai abbastanza del fatto che la tua terra non abbia una rete produttiva sviluppata, né banche e assicurazioni proprie, né televisioni e giornali d’impatto che leggano “da Sud” quel che succede, non riceva adeguata promozione e tutela dei suoi prodotti enogastronomici e paghi pure la RC auto più alta pur avendo meno sinistri.

9. Perché vuoi dire basta alla pratica, che va avanti da oltre centocinquanta anni, di conservarti in mani criminali che operano come fossero il braccio violento dello Stato per il controllo, l’insicurezza e la sottomissione di un popolo che potrebbe sorridere come un’increspatura del mare.

10. Perché vuoi valorizzare e difendere la tua identità culturale, facendone una forza nonviolenta di riscatto per te ed un ponte di pace e di scambio con gli altri popoli.

11. Perché hai smesso di alienarti, per paura, pregiudizio o opportunismo, da quello che accade sotto al tuo naso.

12. Perché vuoi uscire dalla cupezza della vita e del pensiero, delle emozioni e dei comportamenti inibiti, lottando libera/o e innamorata/o per quell’indipendenza che la tua terra possedeva e che oggi potrebbe orientarla verso un destino migliore.

13. Perché hai deciso che non devono più essere gli altri a dipingere il nostro volto secondo il loro interesse, ma è ora di prendere in mano la tavolozza dei talenti ed il pennello della tenacia, per rifare con nuovi colori la nostra immagine più autentica.

La parola e le parole

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di Mariano Palumbo

Nella comunicazione l’uomo non si consuma, ma si manifesta. In tale realtà la sua umanità -cosa che va oltre, più su, la sua animalità- raggiunge e si “accorda” con le altre umanità…, perchè siamo una sola umanità. Abbiamo molti e diversi modi di sentire e percepire la realtà, ma le cose vere… -che sono sempre persone!- hanno, abbiamo, come un sol cuore, un sol cielo, una comune esigenza di vita e di vita bella, di vita ricca di relazioni, di amore.

Quando l’uomo dice il vero, il vero profondo di se stesso, arriva a toccare le corde intime dell’essere. E’ l’accordo dell’umanità, che come le corde (accordate) di uno strumento vibrano bene, in armonia. La verità dell’uomo vibra sempre nell’intimo di ogni uomo, perché l’accordo della memoria e della Storia ci ha resi edotti che se si dimentica l’uomo inevitabilmente si allargano i cimiteri!

Va accordato, oggi più che mai, in questo tempo di “tregua” la memoria e la Storia, la responsabilità e il futuro…, ecco che è urgente trattenere il nostro mondo dall’impazzimento delle coscienze e delle parole, dal perdere cioè il senno e il senso delle cose…, o meglio della persona.

Chi non ricorda il dramma del XX secolo? E in quel tempo ci sono state parole-programma che hanno condotto il mondo al disastro, alla distruzione. Le parole vanno vigilate, vanno tenute nel recinto degli uomini, non possono essere allevate come cani d combattimento…, perchè la parola uomo è l’unica che ha senso e deve avere futuro futuro radicale e assoluto!

Le parole spesso sono più che vocaboli e verbi, sono prospettiva, progetto, ma anche incubo, brivido, terrore… come quello vissuto da Anna Frank a 12 anni, nel 1941. Viveva “nel terrore di non sapere quello che da un momento all’altro ci sarebbe potuto accadere”. E accadde che le parole diverse da uomo, la raggiunsero lì dove viveva, nascosta per la paura delle parole diverse e disumana, senza cuore…, e la deportarono a morire.

Matteo Salvini in un discorso pubblico ha detto: «Ci vuole una pulizia di massa via per via, quartiere per quartiere, e con le maniere forti se occorre». Tutto ciò per prospettare ai suoi seguaci ordine e sicurezza…; ma già Pertini ci ammoniva: “Le dittature si presentano apparentemente più ordinate, nessun clamore si leva da esse. Ma è l’ordine delle galere e il silenzio dei cimiteri. (Sandro Pertini, Messaggio di fine anno agli Italiani, 1979)

Le parole di Salvini vanno respinte e ricacciate nelle fogne della storia criminali di governi corrotti e massacratori. Quelle parole sono senza parola… uomo! Parole che fanno correre un brivido e un fremito… . Parole che devono provocare un sussulto morale, di coscienza, una ribellione!
“Irresponsabile e imbecille, parole di odio che spero non verranno ascoltate, gli italiani sono fortunatamente più intelligenti”, questa la definizione di un collaboratore di Emergency.

Le parole di Salvini sono l’orrore della storia riproposte in questo tempo di cambiamento d’epoca, dove -forse- il rischio che “la tregua” si rompa, che la memoria scordi (ex-cor), porti fuori dal cuore, quanto fu, quando accadde, e i peggiori orrori si ripresentino. Tutto ciò deve allertarci tutti, tutti! Nessuno si tiri indietro, nessuno addolcisca la parole: mai, mai più parole senza l’uomo, parole pazze, parole disumane e assassine del futuro, dell’uomo, unico vero futuro da coltivare. Senza parole, con l’unica parola da dire: questo uomo, questo devo salvare, ora, domani e sempre!

Hic sunt Leones. Le infrastrutture al Sud: storie di ordinario malgoverno

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Che il meridione fosse rimasto abbandonato a sé stesso da ormai più di qualche decennio (circa 16), è una cosa che forse poteva sembrare chiara solo ad alcuni. Ma negli ultimi anni non lo nota solo chi non vuole.

Possiamo parlare di infrastrutture, ad esempio. Dopo ogni ondata di maltempo interi territori rimangono isolati e abbandonati al loro destino. Il comprensorio montano delle Serre Vibonesi, in Calabria, in cui si sta anche registrando un veloce ed inesorabile spopolamento, sta urlando disperazione per la situazione in cui versano le sue strade provinciali e statali. Esse rappresentano l’unico modo per raggiungere vie di comunicazione più importanti, dislocate lungo le coste jonica e tirrenica: la famosa A3 Salerno – Reggio Calabria, la SS106 Taranto – Reggio Calabria, le ferrovie e l’aeroporto di Lamezia.

Non solo, la comunicazione tra i vari centri montani risulta a volte quasi impossibile, con automobilisti costretti ad allungare il loro tragitto a causa di continue frane e smottamenti che, attivi dal punto di vista geologico, aspettano solo il momento giusto per raggiungere valle e rimanere lì come una spada di Damocle sulla testa dello sfortunato ed ignaro automobilista. Sindaci e cittadini si stanno mobilitando per suggerire di far passare la manutenzione della rete viaria dalla provincia, in dichiarato stato di dissesto economico, direttamente all’ANAS.

La famosa Trasversale delle Serre (SS713 Soverato – A3, Svincolo Serre), il cui scopo sarebbe quello di collegare Jonio e Tirreno passando per questa zona, è un progetto di oltre 50 anni fa, realizzato solo per qualche chilometro e usato ad ogni campagna elettorale per raccogliere consensi. É diventata una barzelletta. Da qualche anno a questa parte, grazie all’impegno di un comitato spontaneo (Comitato Trasversale delle Serre – 50 anni di sviluppo negato), qualcosa sembra muoversi. Lo stato, incalzato dai cittadini, sembra anche stia dando qualche risposta. Non è comunque abbastanza.

Non che le “maggiori vie di comunicazione” versino in migliori condizioni. Non sono più adatte agli attuali livelli di traffico e non risultano nemmeno degne del loro nome. La SS106, che potremmo definire la seconda autostrada calabrese, si trasforma in fiumara quando un evento temporalesco colpisce il litorale jonico. Il tutto documentato da foto e video postati su facebook da automobilisti che percorrendola vogliono indurre altri a prestare attenzione.

La promessa di una nuova e più funzionale – oltre che sicura – SS106, rimane tale. Anche in questo caso, come per la SS713, solo qualche tratto è stato realizzato. Ma la 106, più che una strada sembra un vero e proprio bollettino di guerra: “Sulla S.S. 106, in Calabria, dal 1996 ad oggi, abbiamo avuto oltre 9.000 sinistri e oltre 24.000 feriti; mentre le vittime sono oltre 700. Nel solo anno 2016 abbiamo avuto 32 vittime“.

I dati sono forniti dall’associazione “Basta vittime sulla 106” e sono contenuti in una petizione[1] inviata al Presidente della Repubblica.

Le firme raccolte, secondo un comunicato stampa dell’Associazione, hanno superato le ventimila e sono provenienti oltre che dalle varie province calabresi, anche da altre regioni d’Italia e perfino dall’estero (per sottoscriverla).

Altro evento degno di nota, sempre sulla SS106, è il cedimento del ponte sull’Allaro che il 23 gennaio ha diviso in due la Locride.

Ma la Calabria non è l’unica regione meridionale ad essere stata abbandonata. Dalla Puglia, il 6 febbraio, è partita una petizione, sottoscritta da oltre 3500 persone, per mettere in sicurezza la SS16 Foggia – San Severo, e diretta anch’essa al Presidente della Repubblica. Anche qui si parla di centinaia di vittime e condizioni indegne per una arteria principale come una strada statale.

Si potrebbe continuare a parlare del tema per molto: Matera – meta turistica oltre che capitale della cultura 2019 -, isolata dal resto d’Italia; Sicilia divisa in due a causa di autostrade in pessime condizioni; investimenti sulle ferrovie in Lombardia pari alla somma di tutti quelli fatti nell’intero meridione; chiusura aeroporto di Reggio Calabria e cancellazione della tratta Lamezia Terme – Roma Fiumicino senza che nessuno (a livello politico intendo) si opponesse a questa scelta della compagnia Ryanair.

E per finire, per comprendere a fondo la gravità della situazione, il 2017 è l’anno in cui la Calabria è stata definita come una tra le principali mete per le vacanze estive dal New York Times. Se qualcuno lo sa, ci indichi per favore come l’attuale situazione infrastrutturale in Calabria (ed al Meridione, in genere) potrebbe favorire questi ipotetici turisti.

Insomma, il Sud non ce la fa più. Si moltiplicano comitati e associazioni per rivendicare i diritti basilari che dovrebbero essere offerti a tutti i cittadini in egual misura. E forse per intercettare truffaldinamente questo malcontento che molti insospettabili smemorati cominciano a ricordarsi la Storia (vedi Tremonti, che paragona il comportamento della Germania a quello dei piemontesi riguardo al tema dell’Europa a due velocità).

Ma questa volta non ci faremo imbambolare da qualche specchietto per le allodole.

MO basta! Una nuova generazione di Meridionali sta raccogliendo il testimone, ed è una generazione incazzata. Una generazione allo stremo che intende fare tesoro delle tribolazioni di chi la ha preceduta, ma più consapevole dei propri mezzi. Chi dovrebbe programmare la crescita infrastrutturale del Meridione si è sempre adagiato sulla locuzione “Hic Sunt Leones” con cui i Romani indicavano le aree che non li interessavano, oltre il Limes.

Eppure, al contrario dei Romani, questi signori sono in grado di interessarsi a noi, saltuariamente: miracoli delle campagne elettorali. Ebbene, che vengano! Stavolta, i Leoni, li troveranno sul serio!

 


[1]Ecco il testo della petizione

Governo Gentiloni: perchè non cambia niente per il Sud.

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Di Flavia Sorrentino

Che il neo governo di Paolo Gentiloni abbia un Ministro ad hoc per il Mezzogiorno, il professore Claudio De Vincenti, già sottosegretario di Stato, non basta a rassicurare i cittadini meridionali che il 4 Dicembre hanno sonoramente bocciato la riforma costituzionale, divenuta per l’eccessiva personalizzazione, un banco di prova e fiducia popolare verso l’operato politico dell’esecutivo Renzi. Il nuovo governo infatti, è di fatto un Renzi-bis che conferma 12 ministri su 18 incaricati e addirittura promuove ai piani alti di Palazzo Chigi Maria Elena Boschi, che pur declamandosi esempio di classe dirigente non attaccata alla poltrona, ha accettato senza riserve il prestigioso ruolo di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio sacrificando la coerenza sull’altare dell’arroganza: il cortocircuito di chi si definisce rottamatore e si rivela restauratore. Due sono invece le new entry tra i Ministri a capo di un dicastero, Marco Minniti subentrato ad Angelino Alfano andato agli Esteri e Valeria Fedeli che prende il ruolo di Stefania Giannini, sostituita dopo i risultati della “Buona Scuola.”

Per il resto vengono riconfermati tutti: Orlando alla Giustizia, Pinotti alla Difesa, Padoan all’Economia, Calenda allo Sviluppo economico, Martina all’Agricoltura, Galletti all’Ambiente, Poletti al Lavoro, Franceschini alla Cultura, Lorenzin alla Salute e Delrio alle Infrastrutture. Cosa debba aspettarsi di diverso il Sud dalla squadra di Governo che in tre anni ha aggravato pesantemente le differenze territoriali nel paese, è la domanda a cui dobbiamo realisticamente provare a rispondere. Cambierà forse la legge leghista sulla sanità che assegna meno fondi alle Regioni in cui l’aspettativa di vita media è più bassa? Il ministro della Salute resta Beatrice Lorenzin che definisce i morti di cancro nella terra dei fuochi il risultato dei cattivi stili di vita in Campania e non la conseguenza di decenni di criminale affarismo politico-imprenditoriale irrobustito da indifferenza ed accondiscendenza di Stato. Resta al suo posto anche Graziano Delrio, che sarà ricordato dai posteri per aver rinviato ai “prossimi riparti” le storture sul calcolo dei fabbisogni standard della rete di servizi Welfare del Mezzogiorno (asili nido ed Istruzione) e per non aver investito nelle infrastrutture ferroviarie per colpa delle rocce al Sud.

L’esecutivo Gentiloni è lo stesso delle soglie di povertà calcolate in modo che risultassero più alte nel settentrione d’Italia, riservando il 45% dei sussidi al meridione e il 55% dei sussidi al Nord; è il governo dei 7 miliardi e 5 milioni al centro-nord e 4 milioni al sud per i progetti europei fino al 2020; è il governo dei voucher e dei 2 miliardi di euro del Sud del Piano di Azione e Coesione utilizzati per incoraggiare 536.000 nuove assunzioni al Nord, mentre i dati Istat sulla povertà, l’esclusione sociale e la disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno raggelano il sangue per drammaticità e continuità nel tempo. 

Ma questa volta-si dirà- è stato incaricato un Ministro senza portafoglio (ma dai!) per affrontare la questione meridionale, di matrice risorgimentale, mai risolta. A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina: il Sud che comincia a reagire e ha votato in maggioranza per il NO al referendum, se non può essere fermato quanto meno deve essere imbonito, lusingato e controllato. Così Claudio De Vincenti, che fino a ieri ha partecipato a tutti i tavoli di concertazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e quindi alle decisioni discriminatorie contro il Sud, è diventato la garanzia e la promessa per la ripresa e lo sviluppo meridionale. “Il nostro Paese-ha dichiarato- ha bisogno per il suo sviluppo che il Mezzogiorno prenda in mano il suo destino e dia il suo contributo.”

Quale altro contributo? C’è da chiedersi. Quanti contributi deve ancora dare la colonia Sud prima di vedersi riconosciuti giustizia sociale, dignità lavorativa, pari diritti, condizioni ed opportunità? Un territorio con grandi sacche di disoccupazione può competere e crescere solo se le politiche di governo sono concentrate sulla definizione di una strategia di sviluppo strutturale (che preveda magari una fiscalità di vantaggio per le imprese che investono e assumono al Sud) e sull’adeguata ripartizione dei finanziamenti. Invece per dirne un’altra, il governo Renzi ha ridotto ad un terzo la programmazione dei fondi europei 2014-2020 in Campania, Puglia e Sicilia e ha utilizzato il reddito delle famiglie come indicatore di “merito” per stabilire tetti al turnover dei docenti universitari, favorendo di fatto lo spostamento di 700 ricercatori al Nord e un calo di iscrizioni negli atenei del Sud. De Vincenti questo lo sa, c’era anche lui quando drenavano risorse favorendo emigrazione e desertificazione industriale. Ed era sempre lui ad affermare che «non è scontato che sia un bene introdurre una decontribuzione differenziata ad hoc per il Mezzogiorno» così come era lui a definire <<strumentalizzazioni per coprire l’inadeguatezza del servizio sanitario pugliese>> le proteste dei tarantini dopo dietrofront del governo sui 50 milioni di euro da destinare ai bambini vittime del mostro Ilva tenuto in piedi a colpi di decreti di Stato.

Ci dicono che dobbiamo rimboccarci le maniche, ma ci fendono le braccia. Dobbiamo imparare a correre e ci spezzano le gambe. Smettetela con questo vittimismo, dicono i carnefici. Eppure su una cosa hanno ragione: dobbiamo cogliere ancora di più e con più convinzione l’invito a fare bene da soli, in autonomia. Per il Sud imperversano tempi bui e di peggiori se ne prospettano se non sapremo cogliere la richiesta di rappresentanza che viene dai territori e delle fasce più deboli della società. Tutta la sfiducia e la refrattarietà alle promesse dei partiti italiani, compresi quelli di opposizione che ora fanno la voce grossa ma in Parlamento si adeguano per fregare il Sud, è emersa con il voto sulla riforma Costituzionale. La Carta Costituzionale è salva, per niente lo sono i diritti che contiene. A partire dall’equità e dall’ uguaglianza che per troppo tempo ci sono apparse come concessioni straordinarie e che ora dobbiamo rivendicare come espressione di ritrovato orgoglio e dignità.

 

 

Il capitalismo e il suo rapporto di dominio con il Sud Italia e i Sud del mondo.

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Il capitalismo  e il suo rapporto di dominio con i Sud del Mondo e con il nostro Meridione in particolare

“Le nazioni dell’Europa dovrebbero essere guidate verso il superstato senza che i loro popoli sappiano cosa sta accadendo. Ciò si può ottenere tramite passi successivi, ognuno mascherato da uno scopo economico, ma che porterà alla fine e irreversibilmente alla federazione” (Jean Monnet, fondatore dell’Unione Europea con George Murnane della Banca Monnet and Murnane § Co)

Totalitario è quel regime che non si accontenta di controllare la società ma pretende di trasformarla in nome di un’ideologia totalitaria appunto, che la pervada interamente attraverso un uso combinato del terrore e della propaganda.

Premessa

La prima domanda che ogni persona, che fa parte di movimenti meridionali, deve porre a se stessa è: quali sono le motivazioni che mi hanno spinto a far parte di un movimento  che si richiama alle istanze di ricerca di autonomia della soggettività meridionale? La risposta, che dovrebbe essere, almeno in parte, comune,  è decisiva al fine di creare  gruppi il più possibile omogenei e dialoganti. Certamente le risposte possono essere molte, ma se tra le possibili motivazioni mancasse una motivazione storico – politica e, soprattutto, culturale, che sia ricerca di senso e di identità, il tutto crollerebbe come un castello di sabbia;  non c’è, infatti, politica senza cultura, così come non c’è cultura senza politica, nel senso che esse sono  due momenti di un unico processo circolare: i due termini di teoria e prassi, se separati, creano alienazione e incapacità di orientamento in una società complessa come quella attuale, caratterizzata, tra l’altro, dalla liquidità dei valori e dalla disgregazione sociale. Ciò premesso,  ci permettiamo di fare,  in modo sintetico e schematico,  un’analisi della realtà attuale della quale  siamo convinti, della conseguente condizione il cui il sud si trova e delle possibili direzioni di ricerca e di lavoro che si possono seguire.

L’ analisi

Non si può pensare storicamente il nostro tempo, specie gli ultimi tre decenni, senza pensare al capitalismo finanziario come sistema di potere che oggi domina il mondo, e del quale, paradossalmente , poco si parla. E, se lo si fa, si è attraversati da uno strano senso di disagio perché esso è comunemente percepito come un “fenomeno naturale” della nostra vita quotidiana.  Un sistema de-eticizzato che sta distruggendo i luoghi  naturali della formazione etica dell’uomo: la famiglia, ormai in profonda crisi;  la scuola considerata un’azienda, il lavoro ridotto a merce.L’ individuo  è ridotto a puro atomo senza radicamento, precarizzato e senza futuro e i rapporti sociali improntati alla logica del contratto Un sistema che ha desacralizzato  il mondo riducendolo a pura utilità e che ha messo in congedo le religioni, che potrebbero costituire ancora una possibile alternativa o resistenza al capitalismo. Un sistema che coniuga scambio ed organizzazione tecnologica, caratterizzato dall’assolutizzazione dell’economico, dal monoteismo del mercato, dallo smantellamento della sovranità dello Stato nazionale  e della  sua egemonia politica sull’economia.

Andare all’ origine del Capitalismo, individuare le condizioni che lo hanno reso possibile, tracciare il lungo secolare percorso storico delle sue metamorfosi in questa  nota non sarebbe possibile. Qui ci limiteremo a fare, prima di entrare nel merito dei suoi rapporti di dominio dell’economia di mercato, una schematica sintesi del periodo che va dal secondo dopoguerra ai giorni nostri e che può essere diviso in due fasi:

la prima  va dalla conferenza di Bretton Woords  (1 – 22 luglio 1944 durante la quale, stante la completa fiducia nel sistema capitalistico da parte di tutti i 44 stati aderenti, si stabilì la convertibilità di tutte le valute in  dollari) alla fine degli anni settanta;

la seconda fase va dalla fine degli anni settanta  ai giorni nostri.Tale fase è caratterizzata, fin dall’inizio, dalla deregulation che ha dato il via alla globalizzazione  e finanziarizzazione dell’economia.

La prima fase,  che si può definire del capitalismo regolato,  si caratterizza in Occidente per l’eccezionale crescita della produzione, per la stabilità economica, per la riduzione delle disuguaglianze, per la creazione di un ceto medio e, soprattutto per una prevalenza della politica e delle sue capacità progettuali sull’economia. Un periodo unico nella storia, durante il quale, tra l’altro,  si è avviato e, in parte, concluso il processo di decolonizzazione dei paesi ex coloniali

Ma quali sono state le cause che hanno provocato lentamente ma inesorabilmente la deregulation e il conseguente cambiamento che oggi noi sperimentiamo nella nostra esistenza quotidiana? Tra esse sicuramente un ruolo importante hanno avuto :

L’Inflazione Il ruolo primario dello Stato, le scelte di  politica  economica ed industriale da esso operate, le grandi spese sostenute, determinarono aumento di spesa pubblica finanziata con emissione di nuova moneta che causò  una notevole  inflazione. La politica monetaria restrittiva che ne seguì e la riduzione delle politiche sociali furono  destabilizzanti.

La contrazione dell’occupazione favorita anche  dallo sviluppo tecnologico e dal passaggio dalla fabbrica fordista (che  aveva anche  avuto il merito di far organizzare gli operai nei sindacati e a dar loro forza contrattuale) ad una organizzazione del lavoro parcellizzato.

Presenza sui mercati internazionali  di un’enorme massa di denaro conseguenza dell’aumento triplicato del prezzo  del petrolio (1973) e dei conseguenti enormi profitti delle compagnie, che, complice la politica degli anni ‘80 di Reagan e della Thatcher, facilitò  il processo di liberalizzazione  dei capitali e  privò i singoli Stati di sovranità finanziaria

Fu tale liberalizzazione a dare inizio al processo di globalizzazione dell’economia  e della conseguente finanziarizzazione  del mercato. Oggi la massa delle attività finanziare raggiunge l’astronomica cifra di cento trilioni di dollari, corrispondente al doppio del PIL mondiale)

Il capitalismo col tempo  aveva già eroso sia la moneta che il credito, introducendo da una parte la moneta di carta e dall’altra la procrastinabilità  del credito, aggirando cosi sia la convertibilità in oro della moneta  ( il 15 agosto 1971, a Camp David, presidente statunitense Richard Nixon, aveva annunciato la sospensione della convertibilità del dollaro in oro)  che l’obbligazione della  solvibilità del credito che si realizza per gli investimenti attraverso la borsa, e attraverso il debito per la finanza pubblica,. Un paradosso che ha determinato da una parte la liquefazione e, quindi, l’identificazione dei due pilastri dell’economia (moneta e credito erano tradizionalmente ben distinti) e, insieme, l’autonomizzazione del mercato finanziario, che manca totalmente di meccanismi di autoregolazione perché tratta di titoli ( il cui valore è liquido) e non di merci  reali il cui scambio è regolato dalla legge della domanda e dell’offerta; dall’altra ha modificato  il rapporto di forza, tra stati nazionali e multinazionali, a favore di quest’ultime. Il mercato finanziario, insomma, è il gioco folle che ha travolto l’economia finanziaria americana e, con essa, quella degli altri stati. Scriveva Keynes prima del crollo “se lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che vi sia qualche cosa che non va bene”.Purtroppo il gioco ancora continua così come continua a crescere il debito considerato ormai  una scommessa. Un debito enorme che coinvolge tutti gli stati del mondo e del quale ognuno di noi dovrebbe almeno domandarsi chi sono i creditori.

                                                              Le conseguenze

Ci troviamo ormai all’apice del capitalismo, (molti – come Luciano Vasapollo – parlano di crisi sistemica;  altri – come Agostino Spataro – ritengono che la crisi parrebbe denunciare una difficoltà, perfino un declino, non tanto del sistema capitalistico in se stesso quanto dell’egemonia occidentale sul terreno dell’economia e della cultura) perché esso tutto ha condotto ad una vera e propria economicizzazione del reale e del simbolico. Tutto è merce. Si è realizzata  una vera e propria aziendalizzazione della società; Lo Stato stesso  è considerato  un’azienda.  La politica non decide più ma ratifica e amministra ciò che il mercato ha deciso, cioè ciò che hanno deciso le oligarchie economiche e finanziarie, entità senza volto che nessuno ha eletto e che decide del destino dei popoli. In questo tragico scenario di globalizzazione e di mercatizzazione, dove l’interesse produce danaro dal danaro, dove l’economia funziona con lo spread, con azioni e CDS  (Credit Default Swap, cioè i derivati creditizi) (1) , i partiti, o meglio il centro destra e il centro sinistra in Italia, pienamente d’accordo sul pensiero unico neoliberale, svolgono la funzione, attraverso i media, ( la spinta pubblicitaria operata dal capitale raggiunge l’astronomica cifra, a livello mondiale, di 500 miliardi di dollari all’anno) di far credere ai cittadini che sono ancora essi a decidere. Significativo, da parte loro, il richiamo alla necessità dell’Europa, non quella dei popoli, ma quella dell’Euro che appare oggi, più che mai, non tanto una moneta, quanto uno strumento del capitale mosso dalla logica di far prevalere, sempre di più, l’economico sulla politica, di ridurre al massimo i diritti e la sovranità degli Stati. Si tratta di un sistema che produce debito con effetti socialmente perversi perché se da una parte limita le risorse destinate alle infrastrutture, ai servizi pubblici,  al Welfare State, essenziali per l’equilibrio delle attuali società complesse, dall’altra avvantaggia, con guadagni faraonici, i privati determinando disuguaglianze enormi ( un piccolo numero di potenti è più ricco delle popolazioni dell’Africa – 200 multinazionali dominano un quarto delle attività del mondo – la General Motors è più grande della Danimarca – la Ford più grande del Sudafrica – in Italia il 10 per cento della popolazione possiede il 50 per cento della ricchezza nazionale –). Il meccanismo del sistema fa diventare i poveri sempre più poveri e i ricchi incredibilmente ricchi.

Si tratta di un  sistema che, riducendo la società a mercato, ha degradato e continua a degradare,  portando alle estreme conseguenze, la base ecologica dell’esistenza:  i cambiamenti climatici, la distruzione degli ecosistemi e delle risorse, i fenomeni immigratori (milioni di persona si spostano in questi anni in tutto il globo) sono i segni del grande pericolo che l’umanità sta attraversando. Giorgio Ruffolo scrive: “ lasciato a se stesso il capitalismo rischia queste due derive: la distruzione della società umana e delle sue basi di sopravvivenza. Mai un sistema storico di organizzazione sociale è stato così prossimo all’onnipotenza e alla rovina”.

Si tratta di un sistema di violenza fatta non attraverso eserciti ma attraverso l’economia ( gli Stati sono subordinati al mercato ; lo spread, per esempio, è l’arma che usano i mercati per gestire l’esistenza dei popoli e per riaffermare continuamente il loro dominio: il caso della Grecia insegna; il lavoro è precarizzato, sotto pagato e svalutato culturalmente) e attraverso l’ideologia pervasiva che al capitalismo non ci sono alternative: o il neoliberismo, caratterizzato dall’illimitatezza, dalla mercificazione e dal godimento illimitato  o l’abisso. Un ideologia che impone l’adattamento (non devi cambiare il mondo ma te stesso), rimuove la dialettica storica e delle idee e le stesse possibilità di esistenze diverse, e che, quindi, assolutizza la realtà in un eterno  presente.

Le categorie di questa ideologia sono penetrate nella coscienza degli individui (almeno nella maggior parte) di ogni età, genere e professione distruggendo  il soggetto, ormai disgregato, vittima dell’individualismo, del nichilismo e incapace del conflitto necessario a scoprire la propria identità. Lo strumento principe, oggi come non mai, di cui il capitalismo si serve è la manipolazione culturale di massa e il controllo dei mass-midia che gli consente di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di distruggere la verità. Specie attraverso il controllo delle televisioni i patentati economici riescono a distrarre e a distogliere l’attenzione dai veri problemi, di creare artificiosamente problemi e di offrire poi soluzioni utili ai loro interessi, di mantenere il pubblico nell’ignoranza, di orientare l’opinione pubblica. Ma la cosa più vergognosa che il Capitalismo finanziario sta tentando è quella di distruggere le Costituzioni che sono nate dalla lotta al fascismo. La prova, se di prove scritte ci fosse bisogno, è rappresentata da due documenti: il primo è una lettera, inizialmente segreta, inviata il 5 Agosto 2011 al Governo italiano da Jean – Claude Trichet e Mario Draghi e il secondo  un documento di sedici pagine redatto dalla Jp Morgan (2). Due documenti che  dettano l’agenda politica al Governo italiano ( e non solo) ed evidenziano chiaramente la sua dipendenza  dal potere finanziario internazionale.

La più grave  conseguenza di tutto ciò è quella di aver dissolto le comunità e di aver fatto della società un aggregato di individui. Lo stesso linguaggio e gli elementi simbolici sono parte di questo processo di economicizzazione: un professore che giudica valuta un alunno sulla base di crediti e debiti; gli scienziati, gli intellettuali e le forze produttive diventano un  capitale sociale; nei rapporti sentimentali si usano espressioni come investimenti affettivi, etc.

Un sistema di violenza a distanza che nasconde i carnefici alle vittime e deresponsabilizza perché – si dice – responsabile è il mercato;  che provoca alienazione, che è  crisi di rapporto con la realtà,  il processo cioè per cui l’uomo diventa estraneo a se stesso fino al punto di non riconoscersi; che  obbliga a politiche che insistono ideologicamente su termini come  modernità e progresso, concetti che – scrive Francesco Festa- “ utilizzati come paradigmi per le pratiche di crescita economica…. e  forgiati attraverso meccanismi discorsivi in un atto di violenza del discorso stesso come forma dominante di sapere che cancella i modi alternativi di interpretare e di relazionarsi con la realtàArturo Escobar ha svelato l’intelaiatura di tali discorsi – nella fattispecie del discorso dello sviluppo – come un sistema di rappresentazione e di potere che “colonizza l’immaginazione”. Dell’analisi fin qui fatta le TV e i giornali italiani non tanto ne parlano; qualche volta la sottintendono, altre volte la ignorano totalmente (3).

Le conseguenze elencate trovano la loro profonda ragione nella logica interna del sistema. E’ indiscutibile, infatti, che il capitalismo determina per il suo stesso meccanismo di accumulazione continua, per lo sfruttamento delle risorse del mondo e per la ricerca continua di nuovi mercati un processo di “periferizzazione” e di mantenimento delle periferie, funzionali al suo dominio, e che sono vere e proprie “colonie”.

I vari sud del mondo e il meridione italiano, definito, per la sua specificità e la sua storia, da Nicola Zitara una colonia interna, continuano ancora oggi ad essere periferie dipendenti  dal capitalismo che esercita il suo dominio, come abbiamo già detto, con l’economia e con l’ideologia, ma anche con  guerre come quelle di cui siamo stati e siamo testimoni diretti (4).

                                                           La Transizione

Se questa è la situazione, la domanda  che dobbiamo porci è:  come procedere, nella realtà attuale, nel percorso  di liberazione individuale, sociale e politica?

Considerato

-.  Che oggi il nostro Meridione ha alle spalle (5) “una storia di lotte anticoloniali di oltre un quarantennio, che ci consente di trarre indicazioni sugli aspetti positivi  dell’azione  fin qui svolta; ma anche  e  soprattutto sui limiti  da cui  essa è  segnata e senza il superamento dei quali il movimento non solo non diventa fatto popolare, tensione e azione di popolo, ma avvolgendosi su se stesso si consuma nei veleni del suo fallimento, come la inimicizia e la rissosità  tra i diversi movimenti ed i diversi esponenti che li rappresentano clamorosamente dimostrano”;

-. che abbiamo ritrovato la nostra memoria storica ma che sperimentiamo ogni giorno, in una combinazione circolare in cui l’uno alimenta e si alimenta dall’altro, il disastro di carattere antropologico, causato alle nostre anime, il  disastro sociale causato  con la distruzione  del nostro sistema  produttivo ed istituzionale e il disastro fisico  causato dal dissesto del territorio e dalla sempre più accentuata sua riduzione a discarica dell’onnivoro processo produttivo in atto; -.

-.che il processo di colonizzazione  non è storia di ieri ma è processo tuttora pienamente in atto, qui ed ora;

-. che esso è, insieme, processo invasivo e pervasivo articolato e molecolare che occupa tutte le dimensioni e tutti gli spazi  materiali e morali della vita delle popolazioni meridionali. E ciò avviene , in  una semplificazione meramente indicativa ed occasionale:  

 

  • con l’impianto nel territorio – o    meglio: nei territori, all’interno del territorio di questa o quella comunità calabrese, lucana, pugliese, campana  ecc., che nel loro insieme costituiscono l’impalcatura di quello che, attraverso di esse è ancora un Paese (sottolineiamo questo punto della molteplicità delle comunità, ognuna dotata di proprio territorio, di proprie istituzioni, di propria vita sociale ed economica, di  propria identità e soggettività culturale, di propria memoria e di propria storia) di attività industriali esterne  ed inquinanti tra cui  quella dell’incenerimento dei “rifiuti”;
  • con l’utilizzazione dei territori  e delle acque di questa o quella comunità come bacino  di discariche “ legali” e illegali a servizio delle produzioni esterne;
  • con l’utilizzazione dei giacimenti delle  materie prime di cui i territori sono dotati attraverso trivellazioni devastanti;
  • con la privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua, dalle sementi, dal legno ricavabile dal manto boschivo che riveste le nostre montagne, ridotte a miniere di estrazione;
  • con la  riduzione della produzione agricola, anche di quella proveniente da culture specializzate quali l’agrume, l’ulivo, la vite, a materia  prima asservita all’industria della Coca Cola o della Monsanto;
  • con l’invasione dei supermercati e la sterilizzazione delle residue produzioni e delle residue attività commerciali interne;
  • con l’occupazione delle strutture della formazione e della informazione ( scuola, stampa, luoghi di formazione della cultura);
  • con la  occupazione come si è già accennato, da parte delle classi dirigenti meridionali, subordinate fin dall’inizio  all’occupante attraverso le strutture del partito meridionale di tutti gli spazi istituzionali, compresi quelli deputati  agli stretti limiti ad essi assegnati, -a governare i territori delle comunità locali,

 

                                                            In definitiva

        la storia di ieri, oggetto della narrazione svolta dal complessivo movimento meridionale come fin qui si  è configurato, lo stato di cose che su tale storia si è costituito e si è insediato nelle nostre vite, deve diventare territorio  della storia da costruire oggi e nell’immediato domani, nelle forme nuove che un complessivo e articolato movimento di rinascita meridionale, popolare e democratico, è chiamato a realizzare, non enunciando l’opera ma ponendovi mano; insieme a quanti con cuore sincero vogliono parimenti porvi mano dall’interno del secondo grande esodo di massa che si andava consumando negli anni ’50”.

Tracciata così la direzione del lavoro del movimento  aggiungiamo di seguito, per maggiore chiarezza che ogni movimento dovrebbe:

1-. Conoscere il proprio territorio dal punto di vista economico, sociale e politico;

2 -. lavorare nel proprio territorio del quale deve avere una visione complessiva e un progetto capace di portare a sistema le risorse esistenti;

3-. privilegiare la formazione dei suoi componenti perché è la persona la prima  risorsa di ogni progetto di crescita umana, sociale e politica; sono le persone, con la loro presenza, le loro idee e le loro attività, che danno senso ad un territorio; e sono anche le persone che spesso devono liberarsi dallo stato di alienazione in cui vivono;

4-. Favorire lavori di gruppo per creare le  competenze necessarie alla gestione di un paese o di una città, di un territorio;

5-. Seguire i lavori dell’Amministrazione locale e vigilare che le scelte siano trasparenti e utili alla crescita democratica e civile dei cittadini;

6-. Mantenere rapporti continui con le realtà associative e produttive del territorio.

Ma perché tutto questo  è necessario? perché, soprattutto, è indispensabile tenere al centro del nostro interesse e lavoro il territorio?

Per rispondere a questa domanda  c’è bisogno di ricordare, sia pure schematicamente,  la realtà della globalizzazione, termine usato per la prima volta nel 1983 da un economista americano e che rappresenta  un fatto nuovo nella storia  caratterizzato da tre  fenomeni interconnessi:  globalizzazione dei capitali, come abbiamo avuto modo di evidenziare precedentemente, globalizzazione del lavoro (si pensi alla delocalizzazione delle imprese e ai movimenti immigratori) e rivoluzione tecnologica che non riguarda  solo internet.

Di fronte a tale realtà non tutte le persone, non tutti i gruppi sociali, non tutti i paesi sono stati nelle condizioni di trarne profitto: nella logica del liberismo selvaggio le disuguaglianze sono triplicate; le imprese, nei paesi più poveri, sono scomparse incapaci a reggere la competizione.

Ci siamo così resi conto che la competizione non riguardava solo le singole imprese ma i territori e la loro organizzazione; ci siamo accorti che un’impresa può avere successo solo in un territorio in cui ci sono persone culturalmente avanzate, se nel territorio ci sono servizi efficienti (scuola, sanità, etc), se la sussidiarietà funziona, se c’è partecipazione democratica e impegno civico. Ci siamo convinti, specie noi del sud, che le politiche stataliste non funzionano così come non funzionano le imprese di tipo capitalistico  che guardano solo al profitto individuale dell’imprenditore; che i territori della tradizione italiana,( paese delle cento città), devono avviare un loro autonomo cammino nella logica della sussidiarietà circolare tra enti pubblici ( fiscalità generale) società civile organizzata (imprese sociali,associazionismo, cooperative sociali, etc.) e mondo delle imprese economiche non capitalistiche ( quelle cioè che guardano all’economia come  ad un’attività  che sia oltre che scelta politica anche etica (per esempio,  l’esperienza di S.O.S. Rosarno). Un’ipotesi questa legata all’idea dell’economia come impegno civile, teorizzata per la prima volta dal grande economista e studioso meridionale Antonio Genovesi che ha istituito nel 1753, per la prima volta al mondo, una cattedra di economia civile presso l’università di Napoli, e da qualche tempo ripresa da alcuni studiosi italiani (6) i quali scrivono nel loro libro: “l’economia civile, una tradizione di pensiero e di prassi tipicamente meridiana, quindi anche – ma non solo – italiana, è una grande fonte di ispirazione per un pensiero nuovo, capace di domande profonde”(pag. 13)….l’età dell’oro di questa tradizione è il regno di Napoli nella seconda metà de settecento, grossomodo tra Vico e la rivoluzione partenopea. Una tradizione antica, con alcune radici nella civiltà cittadina medievale, nei suoi monasteri, nelle sue arti e nei suoi mestieri, nella tradizione francescana e domenicana”(pag. 14). Una tradizione inabissata con la restaurazione e il Risorgimento “ma che di tanto in tanto è riemersa dando vita a importanti fenomeni economici e sociali (come quello cooperativo, i distretti industriali, l’esperienza Olivetti, l’economia di comunione)”(pag. 15).

Una tradizione di pensiero che va letta con la consapevolezza che non c’è liberazione individuale che non sia anche sociale e politica e viceversa; con la convinzione, cioè, che il conseguimento dell’autonomia di giudizio e dell’autonomia esistenziale,( che sono certamente obiettivi da raggiungere), non bastano se non si creano comunità consapevoli. E ciò è difficile.  Anzi è difficilissimo. Passare, solo per fare un esempio, dagli acquisti a chilometro zero ad un  “consumo critico”, che metta in discussione il consumismo come ragione di sopravvivenza del modello capitalistico, non è cosa facile.

 

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